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venerdì 25 settembre 2020


Geogastronomia una nuova lettura della tradizione gastronomica 


    Quando scrissi della cucina bresciana e della poca conoscenza che i bresciani stessi avevano delle loro tradizioni gastronomiche, feci un’osservazione ovvia sulla vastità del territorio bresciano e come le tradizioni fossero diverse da zona a zona. Infatti, nulla aveva a che fare, gastronomicamente parlando, un gardesano con un triumplino o un bassaiolo. Se guardiamo i territori con questa nuova lente ci accorgiamo di quanto l’assunto sia corrispondente alla verità. Li chiamo Distretti Gastronomici Italiani (Di.G.It) vedo, tra i giornalisti più attenti come Davide Paolini e Martino Ragusa, una concomitanza di vedute che mi fa piacere in particolare il secondo che nel “Manifesto della Cucina Nazionale Italiana” afferma: 

“Oltre alle venti regioni ufficiali, poi, ci sono le tante microregioni italiane fiere della loro identità gastronomica ma difficilmente collocabili all'interno di una singola regione. La Lunigiana, per esempio, è allo stesso tempo Liguria, Emilia e Toscana, come dire che è tutte e tre e nessuna delle tre. Lo stesso vale per il Montefeltro, la Garfagnana, il Sannio e tanti altri territori a cavallo di due o più regioni dalle quali sono tratte tradizioni gastronomiche da fare convivere o ibridare. Infine, ci sono territori interni a un'unica regione che vantano una gastronomia talmente peculiare da non potersi indentificare tout court con quella della regione di appartenenza, come la Valtellina in Lombardia, il Salento in Puglia, la Carnia in Friuli, le Langhe in Piemonte”. 

Proviamo ad analizzare con questa idea le varie regioni italiane: 

La Valle d’Aosta: cucina di montagna con una sottolineatura importante sulla Via Lattea Valdostana dove le eccellenze casearie hanno il sopravvento in cucina. 

Il Piemonte: nell'Astigiano prevale il Monferrato e la sua cucina; in provincia di Biella molto interessante il Ricetto di Candelo una struttura millenaria con al suo interno 200 abitazioni e una tradizione gastronomica medievale; a Cuneo le Langhe con la loro grande tradizione gastronomica; nel Novarese spicca la tradizione casearia legata allo stracchino verde detto Gorgonzola; Il Verbano raggruppa anche la Val d’Ossola con la sua cucina montanara, mentre il lago Maggiore esprime una cucina dei pescatori; nel Vercellese prevale la cucina delle risaie; il capoluogo Torino, capitale del regno sabaudo, ha in sé molte anime: la cucina savoiarda ispirata a quella francese, la cucina dei cuochi dei re da Vialardi a Pettini, la cucina povera delle piole, vicino a Ivrea la cucina canavesana, i caffè di Torino con il suo bicerin e il vermouth ed infine l’arte cioccolatiera che qui ha raggiunto alti livelli. 

La Liguria: Genova e i suoi Carruggi con le focacce e la trippa; a Imperia il pastificio di Vincenzo Agnesi determina i vari tipi di paste secche italiane: tipo Genova, tipo Bologna, tipo Napoli ecc. Se La Spezia è la cucina di Levante; Savona è quella di Ponente con le loro significative differenze. 

La Lombardia: Bergamo distingue la cucina della città con quella delle Valli Orobiche con formaggi straordinari; Brescia è la più variegata visto l’estensione della provincia, il lago di Garda e quello d’Iseo con la Franciacorta, le tre valli di cui la Valcamonica detiene una cucina antichissima, la Bassa Bresciana terra di allevamenti animali e di rogge, anche qui una Via Lattea Bresciana che corre sulle cime delle Prealpi dal Tonale alla Valvestino; Como e la cucina del suo lago; Cremona distinta anche in cucina tra il Cremasco e il Casalasco; Lecco divisa tra il lago e la montagna; Lodi con il suo contado; Mantova, cucina di principi e di popolo tra i Gonzaga con Bartolomeo Stefani a innalzarla ai più alti livelli e il Ghetto ebraico che interpreta la cucina locale con le tradizioni religiose, l’Alto Mantovano e la cucina del maiale e delle mostarde, poi la cucina dei fiumi il Mincio e il Po; Monza e la cucina brianzola; Pavia con l’Oltrepo e le rane cantato da Gianni Brera; Sondrio con la Valtellina e i crotti; Varese con il suo lago; il Canton Ticino e i suoi, meno noti, grotti, antiche osterie ante-litteram; infine Milano con le innumerevoli osterie e i caffè con la barbajada e il Campari. 

Il Trentino-Alto Adige: mentre a Bolzano e dintorni si andrà a far törggelen per Masi; a Trento si andrà per Malghe e funghi. 

Il Veneto: Rovigo vi delizia con gli orti del Delta e le Valli di pesca con prodotti straordinari; a Treviso non potete mancare il giro delle osterie; Verona si divide tra la cucina del Garda e quella delle risaie di Isola della Scala; a Vicenza non potete mancare la cucina del baccalà; a Venezia potete girar per bàcari, ombre e cicheti nelle osterie o ricercare la cucina del ghetto ebraico, senza dimenticare il baccalà mantecato. 

Il Friuli-Venezia Giulia: a Gorizia andrete per osmize sul Carso; mentre a Udine andrete per tajut e non perdetevi la cucina carnica espressione di secoli di intrecci di popoli; mentre a Trieste non mancate i buffet triestini e, attraversando il confine provate la cucina dalmata e quella istriana con venature veneziane. 

L’Emilia-Romagna: qualcuno non vorrebbe quel trattino e così partendo dal fondo troviamo Rimini con la sua piadina (non confondetela) e la zona del Montefeltro con una cucina originale; Reggio Emilia con le sue Terre di Canossa; Ravenna e l’altra piadina; Piacenza con Bobbio e i colli piacentini; Parma e la cucina dei Farnese, la Bassa Parmense e i Colli di Parma; Modena e la cucina di Carpi; Forlì-Cesena andar per crescentine e tigelle; Ferrara la cucina del Po e lo storione, il Ghetto ebraico; Bologna la grassa e le osterie bolognesi. 

La Toscana con Grosseto e la Maremma; Livorno i cacciucchi e le triglie, le isole d’Elba e Capraia; Massa Carrara con la Lunigiana, la Garfagnana e la cucina pontremolese; Siena e i suoi dolci; infine Firenze con la cucina dei Medici e i trippai fiorentini dei mercati. 

Le Marche con Macerata e la sua nobile cucina; Ancona e i brodetti dell’Adriatico. 

L’Umbria con Perugia ed Eurochocolate 

Il Lazio con Viterbo e la Tuscia; la capitale sfodera la cucina papalina, la cucina ebraica, le hostarie romane, i Castelli Romani e le ottobrate. 

L’Abruzzo con la Pescara di D’Annunzio e L’Aquila con la cucina dei trabocchi e quella della Maiella degli arrosticini. 

Il Molise con Campobasso, la transumanza e la cucina dei pastori. 

La Campania a Benevento la cucina delle streghe; a Salerno il Cilento e Ancel Keys; infine il capoluogo con la cucina dei Monzù e quella del Bassi, le pizze di strada e di bottega, la cucina isolana di Ischia e Capri. 

La Puglia con Lecce e il Salento; Taranto e i due mari; Bari con la Murgia e i fornelli. 

La Basilicata e la cucina lucana. 

La Calabria: Catanzaro le putiche e u morzeddu; Crotone e la cucina della Magna Grecia; Reggio di Calabria con lo stocco calabrese e la pesca sullo Stretto. 

La Sicilia con Messina e il pesce spada; Trapani e il cuscusu di San Vito Lo Capo, e poi le isole siciliane: Eolie, Egadi, Pantelleria e Lampedusa; a Palermo il mangiare di strada ai mercati di Ballarò, del Capo e di Vucciria, la cucina dei Conventi e la pasta martorana. 

La Sardegna in Sud Sardegna i pani di Sardegna; a Oristano i dolci sardi; a Cagliari le tonnare e la cucina tradizionale. 

Martina Liverani nel suo recente “Atlante di geogastonomia” Mondadori Electa, scrive: 

“Il cibo può ridisegnare dei confini che sono altrettanto sensibili di quelli amministrativi e anzi a volte sono precedenti perché sono molto più antiche le storie legate alle tradizioni culinarie di quelle legate alla geografia di certi paesi che sono nate di recente in seguito a patti o ad accordi politici”. 

Come avete letto il nostro è un Paese invidiabile e unico e non cercate più la cucina italiana né quella regionale.

Sotto: l'Atlante della Liverani, il Dizionario di Slow Food, i culurgiones sardi, le pallotte cacio e ove abruzzesi, gli arrosticini, antico catalogo delle paste italiane, la pizza fritta napoletana.















venerdì 18 settembre 2020

 



Food Policy a Brescia? 

A Milano durante l’EXPO 2015 fu annunciata una nuova Politica del Cibo che chiamarono Milan Urban Food Policy Pact. Da Milano partì una proposta di rete tra città di mezzo mondo attorno all’argomento Cibo. Ad oggi sono 160 le città aderenti, in Lombardia oltre a Milano, Bergamo e Cremona. Dal canto suo anche il Movimento Slow Food era già attivo da qualche anno con iniziative molto interessanti che coinvolgevano vari attori del settore: agricoltori, produttori, cuochi, nutrizionisti, istituzioni locali, aziende di ristorazione collettiva. Leggendo tra i propositi di Milano, l’articolo 1 della proposta di accordo tra sindaci recita: 

“Lavorare per sviluppare sistemi alimentari sostenibili, inclusivi, resilienti, sicuri e diversificati, per garantire cibo sano e accessibile a tutti in un quadro d’azione basato sui diritti, allo scopo di ridurre gli scarti alimentari e preservare la biodiversità e, al contempo, mitigare e adattarsi agli effetti dei cambiamenti climatici…

E prosegue: 

… Promuovere il coordinamento tra dipartimenti e settori a livello comunale e territoriale, favorendo l’inclusione di riflessioni relative alla politica alimentare… 

… Promuovere la coerenza tra le politiche ed i processi sub-nazionali, nazionali, regionali pertinenti… 

… Coinvolgere tutti i settori del sistema alimentare: autorità locali, enti tecnici e accademici, la società civile, i produttori, per politiche, programmi e iniziative in campo alimentare… 

… Riesaminare e modificare le politiche, i piani e i regolamenti esistenti per favorire la creazione di sistemi alimentari equi, resilienti e sostenibili…” 

Un documento successivo rileva le esperienze delle città aderenti e stila le “azioni consigliate” in 37 punti che vale la pena di leggere, ma lo spazio non ce lo consente. Per chi volesse approfondire: Milan Urban Food Policy Pact , Azioni consigliate di MUFPP, Le 10 questioni della Food Policy di Milano. 

    Anche Brescia nel 2015 inizia a studiare il territorio dal punto di vista alimentare e scopre che il 50% del territorio comunale è agricolo e forestale. La produzione agricola e alimentare è scarsa e non basta a sfamare i bresciani. Si mettono in evidenza, in questo studio, alcuni comportamenti dei consumatori e si sottolineano gli spazi ristorativi collettivi: Scuole, Assistenza ai minori, Anziani, Ospedali, Altri servizi, e bisognerebbe aggiungere gli Istituti Penitenziari, anche se di competenza dello Stato. Lo studio in questione analizza puntualmente le problematiche urbane e periurbane del territorio: inquinamento, consumo di suolo, privatizzazioni ecc. Il limite di questo, peraltro eccellente lavoro (“Nutrire Brescia. Prospettive di rilancio dell’agricoltura periurbana nel Comune di Brescia” a cura dell’Assessorato Ambiente) sta nell'aver voluto analizzare soltanto il tessuto urbano e periurbano. Pochi i terreni, molte le problematiche a partire dall'inquinamento dell’aria e delle acque (vedi zona Caffaro), la Maddalena e i suoi Ronchi da sempre bacino agricolo per la città e stata polverizzata da case di lusso e recinzioni. Una metropoli come Milano (se coinvolgesse la sua area metropolitana) raggrupperebbe ben 133 comuni con oltre tre milioni di abitanti. Se anche noi alzassimo lo sguardo alla provincia, tutto cambierebbe: i protagonisti, i terreni, le zone irrigue, gli allevamenti, le zone di pesca ecc. Vale quindi la pena di pensare a un intervento di grande respiro allargato a tutta la nostra provincia, magari divisa in aree omogenee (città, hinterland e pianura; le valli; i laghi). Una scommessa che, pur difficile, potrebbe dare risultati insperati. Vi sono molte esperienze in provincia che stanno sperimentando nuove strade: una su tutte, Ruralopoli a Rezzato e poi il Mercato della Terra di Padernello, il DES Distretto di Economia Solidale, le numerose cooperative sociali come La Rete e la sua esperienza al Bistrò Popolare di via Industriale a Brescia. Sostanzialmente si tratterebbe di porre mano alla qualità del cibo a partire dalla ristorazione collettiva, un mio recente soggiorno in ospedale mi ha reso ben chiaro che in fatto di cibo siamo ancora lontani dal comprenderne l’importanza. In Brescia vi sono tradizioni di lunga durata come la ristorazione delle ACLI, attraverso la Cooperativa Agazzi, attiva fin dagli anni ’60. Attive sono anche aziende nazionali come CAMST, CIR e GEMEAZ. Vi sono anche altre iniziative attorno al cibo attivate da Terra Madre Lombardia come i progetti “Tredicilune” sulla produzione casearia, “Sopra la panca” sugli allevamenti animali e “Acque dolci di Lombardia” sulla pesca e acquicoltura nelle tante acque lombarde ai quali occorre dare gambe. Molto attive anche le nostre Valli con il progetto Valli Resilienti che riguardano la Valtrompia e la Valsabbia e, da molti anni attiva e sicuramente ricettiva la Valcamonica impegnata a rilanciare la sua produzione agroalimentare. Per attivare tutto questo occorre rimettere ordine al territorio, rilanciare nei punti strategici i Mercati della Terra (ridicolo che sia solo a Padernello, peraltro molto lontano dalla città) iniziative come il Festival dei Sapori vanno moltiplicate e ripensate, sensibilizzare le GDO ai prodotti bresciani, anche la ristorazione privata va incentivata a promuovere i prodotti locali (anche se molti cuochi sono già attivi sull'argomento). Ripensare il mercato generale guardando cosa stanno facendo a Torino. I tempi sono maturi lo dimostrano la sensibilità, in aumento, dei consumatori che si aspettano dalle istituzioni grandi manovre oggi che i temi dell’ambiente, dell’agricoltura, dei cambiamenti climatici sono nell'agenda anche dei grandi uomini contemporanei come papa Francesco che con le Comunità “Laudato Si’” ha messo in moto un movimento in difesa della terra e del Creato e ha trovato immediatamente un alleato laico come Carlo Petrini. 

Numerose le esperienze in tante città italiane come il Living Lab di Lucca per “sviluppare una politica alimentare locale e una pianificazione territoriale per ridurre l’espansione urbana, attivare sinergie tra città e campagna e valorizzare il patrimonio culturale, il paesaggio e il territorio”. 

Roma Metropolitana riscrive anch'essa i suoi obiettivi sintetizzati in questi dieci punti: 

1. Accesso alle risorse: incrementare l’accesso alle risorse primarie per la produzione agricola, in primis la terra, l’acqua e l’agro-biodiversità, al fine di promuovere la nascita di nuove imprese agricole, condotte da giovani e da donne. 

2. Agricoltura sostenibile e biodiversità: promuovere modelli di agricoltura sostenibile, orientando le azioni di intervento verso il sostegno all'agricoltura biologica e all'agroecologia. 

3. Filiere corte e mercati locali: promuovere le diverse tipologie di filiera corta (farmers’ market, gruppi di acquisto solidale, community-supported agriculture e aziende agricole che effettuano la vendita diretta) e la presenza degli agricoltori diretti all'interno dei mercati. 

4. Rapporti città-campagna: riscrivere le relazioni tra città e campagna su scala metropolitana, favorendo l’approvvigionamento di prossimità. La strategia va indirizzata verso integrazione tra le diverse fasi della filiera, lo scambio e la diffusione di innovazione, lo sviluppo di servizi specifici e forme di cooperazione tra le realtà produttive, anche attraverso la valorizzazione del ruolo del centro agroalimentare (CAR). 

5. Cibo e territorio: promuovere le specificità territoriali legate al cibo e al territorio, contribuendo in tal modo alla conservazione e valorizzazione dei paesaggi colturali. 

6. Sprechi e redistribuzione: ridurre drasticamente gli sprechi alimentari in tutte le fasi della filiera: coltivazione, raccolto, trasformazione industriale, distribuzione e soprattutto consumo, favorendo l’accesso al cibo da parte delle fasce sociali più deboli tramite il sostegno alle iniziative di recupero e redistribuzione delle eccedenze. 

7. Multifunzionalità: promuovere, in particolare nei contesti urbani e periurbani, tutte le forme di multifunzionalità, sia quelle a maggiore valenza sociale (inserimento persone svantaggiate, “dopo di noi”, agricoltura terapeutica, agri-nido), sia quelle a maggiore valenza economica come l’agriturismo. Promuovere l’adozione di menù che valorizzino le vere specificità gastronomiche locali, attraverso l’adesione a una apposita carta dei valori che preveda parametri territoriali, ambientali e sociali. 

8. Consapevolezza: promuovere un maggiore livello di consapevolezza dei cittadini rispetto alle questioni del cibo dell’agricoltura e del territorio attraverso un piano di educazione alimentare e ambientale che parta dalle scuole, dal sistema delle aree protette e dalla rete degli orti urbani. 

9. Paesaggio: contrastare il consumo di suolo (un quarto del suolo comunale è oggi coperto da superfici artificiali) e affrontare altri fenomeni di degrado della terra (impermeabilizzazione, dissesto, erosione, compattamento, perdita di sostanza organica, salinizzazione e desertificazione). 

10. Pianificazione della resilienza: riconoscere la funzione degli agroecosistemi come elementi centrali delle infrastrutture verdi e quantificare i servizi forniti dal sistema agro-silvo-pastorale metropolitano a favore del benessere umano. favorendo l’integrazione di questi valori nei processi di pianificazione e gestione del territorio.

C’è materia su cui discutere e una politica del cibo la nostra comunità bresciana se la merita.







sabato 12 settembre 2020

 

La cucina bresciana e i suoi testi



            Molti di voi, lo spero, avranno letto i miei libri sulla nostra cucina, se non li avete letti li trovate in biblioteca. Ma sulla nostra cucina molti hanno scritto e alcuni sono stati presi in considerazione per il loro carattere storico, pensate ad Agostino Gallo con le sue “Venti giornate dell’agricoltura” del 1570 prima ancora di lui Galeazzo dagli Orzi con “La massera da bé” in una pregevole edizione curata dal prof. Giuseppe Tonna per i tipi della Grafo. Teofilo Folengo il mitico Merlin Cocai pur essendo un frate mantovano ha passato decenni nel bresciano per cui le sue note gastronomiche su casoncelli, foiade e pesci del Garda sono preziose, le troviamo nel suo “Baldus”. L’Accademia Agraria con sede a Rezzato era tenuta da Giacomo Chizzola, padrone di casa, ma le cattedre erano di Agostino Gallo, Camillo Tarello, Niccolò Tartaglia e altri specialisti di cose agronomiche. Ricette bresciane o alla bresciana ne troviamo disseminate in vari ricettari antichi come lo Scappi, in un “Libro di cucina del XIV secolo” scoperto da Ludovico Frati a fine Ottocento troviamo le “cervellate bressane” che testimoniano in terra bresciana queste salsicce gialle, le rammenta anche la “Massera” così come cita i “fiadò” i fiadoni, delle offelle ripiene sia dolci sia salate. Stupisce trovare in ricettari del XVI secolo il “cisame” che in dialetto gardesano fa “sisam” una salsa di pesce che ricorda come nel Cinquecento per conservare il carpione da inviare nelle Corti del tempo si sia inventato un metodo che si usa ancora oggi non solo per il famoso pesce lacustre ma anche per pesci e verdure il metodo “in carpione” che i veneti chiameranno “saor” . Il carpione era un pesce molto amato dai cuochi delle Corti, tutti si cimenteranno nella sua preparazione da Maestro Martino con il Platina, dallo Scappi allo Stefani nella corte dei Gonzaga. Qualcuno confonde il carpione con la carpa, anche grandi gastronomi come il dott. Alberto Cougnet, per inciso al Folengo, invece, non piacevano i barbi. Non troviamo traccia contrariamente, dello splendido coregone, la risposta è semplice: fu immesso, assieme ad altri pesci, come il pesce gatto, verso la fine dell’Ottocento per il ripopolamento dei laghi.

 Nei libri dell’Ottocento troviamo citati anche molti dolci tradizionali alcuni diffusi anche in altre regioni come le offelle e il pane speziale, altri denominati “alla bresciana” come le spongarde e lo spongato detto buzzolano, il nostro bossolà. Curiosi i “cannoncelli alla bresciana” (cannelons à la bressane) di Giuseppe Sorbiatti chef, poco prima dell’Unità d’Italia, al Danieli di Venezia e famoso in città per un buffet da 2500 persone organizzato dai Fenaroli in Palazzo Martinengo nel 1860. Questi “cannelons” non sono casoncelli come qualcuno ha riferito sono invece un impasto di polenta avanzata e usata come ripieno all'interno di foglie di cavolo come i capunsèi. Lo stesso Sorbiatti dimostra una certa affettuosità nei nostri confronti spiegando come si cucinano gli “uccelletti alla bresciana” e ci fornisce anche una ricetta delle “Offelle di Sant’Afra”. Di queste descrizioni “a là bressane” qualcuno sollevò dubbi circa l’origine lombarda di questi piatti lo spiegherà molto bene Ernesto Borgarello in “Il gastronomo moderno” del 1904 prezioso vademecum della cucina classica del tempo, ecco come spiega:

             “Bresse - La Bresse, provincia in Francia rinomata per la pollicoltura. Volaille à la Bresse.

Bresse – Brescia – à la bressane, alla bresciana. Potage à la bressane, zuppa al brodo con porri e crostini”.

 

Nel 1822 esce un anonimo “Cuoco bresciano lo trova per caso Gargioni della Stacca di Gussago e lo descrive sul giornale Danilo Tamagnini. I piatti descritti sono una mescolanza di ricette francesi e italiane che fanno la somma di tanti ricettari anonimi usciti in quel periodo. Il bossolà bresciano troverà invece posto nel ricettario di un grande pasticciere del Novecento: Giuseppe Ciocca, nella seconda edizione del suo “Il Pasticciere e il Confettiere moderno” nel 1914. Un accenno particolare alla tradizione liquoristica bresciana, i ricettari ne descrivono pochi ma in realtà in un antico volume di liquoristica leggiamo che l’Anesone triduo si può fare solo a Brescia, Orzinuovi e Salò “per la purezza della loro acqua”.

Sembra poi calare un velo, tra le due guerre, sulla cucina bresciana, eppure le trattorie trionfano di spiedi e casoncelli, minestre più o meno sporche, formaggi più o meno grassi di pianura e di montagna. Nel 1967 la prima scossa: il conte Camillo Pellizzari appassionato cultore di enogastronomia viene incaricato da quello che allora si chiamava Ente Provinciale per il Turismo (EPT) di stilare un opuscolo di 62 paginette “Ricettario della cucina bresciana” con una serie di piatti bresciani, il Pellizzari si impegna in questo compito in modo egregio e nel ’69 l’EPT ne farà una seconda edizione “Modernità della cucina bresciana”, mentre, qualche anno più tardi, l’editore Sardini di Bornato ne pubblicherà una edizione di pregio dove verranno elencati anche trattorie, alberghi, ristoranti e produttori di vini e di formaggi bresciani. Dobbiamo sempre al Pellizzari la ricetta del Persichino liquore a base di noccioli e pesche, ricetta da riprendere e rilanciare come prodotto locale valtrumplino. Timidamente appaiono libri sulle tradizioni di altre zone come quella camuna, cucina ricca e antica, se ne incaricherà, principalmente, Giacomo Ducoli detto Fio, cuoco al ristorante Alpino di Breno, anche lui inizierà con una edizione minore ”Ricette e salumi brenesi” e poi la definitiva “Cucina Camuna”. In realtà sulla Valcamonica c’era un lavoro fatto ma non editato a quei tempi, di Padre Gregorio di Valcamonica nel 1698: “Curiosj trattenimenti dei Popoli Camuni”. Tutti questi libri moderni, non quelli antichi, hanno un difetto: si limitano a proporre ricette e preparazioni, non entrano nella storia gastronomica del territorio, non indicano peculiarità e fatti accaduti attorno a un piatto. Bisognerà attendere gli anni ’90 del secolo scorso per vedere in libreria “La cucina bresciana”  del sottoscritto. Inserito in una collana prestigiosa di Franco Muzzio e diretta da Marco Guarnaschelli Gotti un gastronomo fine e competente, la collana si prefigge, ancora oggi, di descrivere un territorio miscelando storia e cucina, poesia e territorio, elevando la cucina a un elemento di trasformazione e di crescita nel periodo che si voleva osservare. La prefazione a questo libro è esemplare (è stata riportata anche nella seconda edizione del 2013) Guarnaschelli Gotti ammette di non aver osservato con la dovuta attenzione il territorio bresciano che non è solo tondino e armi ma anche una straordinaria ricchezza di piatti, ognuno per la zona che rappresenta, tanto è vasta e diversificata la nostra provincia. La sfida per migliorare la pubblicistica enogastronomica è lanciata e raccolta: la prof. Carla Boroni della Cattolica di Brescia pubblica un ricettario “La cucina bresciana tra arte e letteratura” edito da Vannini, con Carla Boroni collaborerà, anche per i libri seguenti, Anna Bossini un’insegnante appassionata di cucina. Il panorama va infittendosi con i tre libri sullo spiedo bresciano, il primo dell'ing. Giovanni Tabarelli, della stessa Carla Boroni e di Riccardo Lagorio appassionato e seguace di Luigi Veronelli, di Lagorio anche un Atlante dei formaggi bresciani” e un libro sui salumi. Una famosa e patinata rivista bresciana AB Atlante Bresciano diretta da Carlo Simoni pubblica sul finire del secolo per Grafo editore, un numero speciale: “Sapori e storie della cucina bresciana” tuttora rintracciabile e mirabile esempio di trattazione dell’argomento.

    Non meravigliatevi di questa ricchezza gastronomica se perfino Cosimo III de’ Medici scrive, tra il 1690 e il 1699 al conte Vincenzo Calini che gli aveva inviato “per la futura Quaresima un bugliolo di carpioni marinati” in altra occasione risponde: “Posso dunque adesso accertarla di aver trovato il tutto di somma squisitezza e quanto alle bottatrise, che mai avevo assaggiate, non può negarsegli il pregio, che è in loro, di una straordinaria delicatezza”.

Sarebbe interessante, e lancio la proposta all'Assessorato Turismo del comune di Brescia e della Camera di Commercio, esporre in una manifestazione pubblica questa ricca raccolta bibliografica che conta di circa 300 volumi. A voi!

Di seguito i principali testi e il prof. Giuseppe Tonna.