Indaghiamo quindi il significato di questa legge approvata definitivamente in Parlamento. Si tratta, in buana sostanza, di riconoscere alle professioni nel campo gastronomico le loro eccellenze e individuare ogni anno il professionista degno di meritarsi il riconoscimento, A disposizione ogni anno la cifra di ben 3000 €uro. Che serviranno a coniare delle medaglie dedicate ai professionisti premiati da una Commissione, presieduta dal nostro Massari che valuterà una rosa di candidati suggerita dal Ministero dell'Agricoltura. Fin qui tutto bene, what else? che altro pretendere? Solo che a una analisi più approfondita, cosa che non hanno fatto i giornali di settore, risulta che un premio simile esista già si chiama MAM Maestro d'Arte e di Mestiere, è stato istituito dalla Fondazione Cologni di Milano che già da anni sviluppava e premiava i grandi artigiani di eccellenza, dalla ceramica, all'oreficeria, dalla sartoria alla falegnameria, dal mosaico alla stampa d'arte dedicando loro una serie di pubblicazioni. Mancavano i mestieri del gusto e dell'ospitalità, così, dal 2016 con la collaborazione di Alma, la scuola internazionale di cucina italiana con sede a Colorno (PR), viene istituito il premio, suddiviso in 13 categorie, dalla cucina alla pasticceria, dall'ospitalità alla norcineria, i formaggi e la macelleria. Con l'Alto Patrocinio della Presidenza della Repubblica e targa d'onore del presidente Mattarella. La prima cerimonia si è svolta il 6 giugno 2016 alla Triennale di Milano. Ogni due anni vengono consegnati i premi con una medaglia coniata dalla Zecca dello Stato. I premiati fino al 2022 li trovate nel sito di Fondazione Cologni e di Alma.. Per la pasticceria fu premiato proprio Iginio Massari e per la cucina Gualtiero Marchesi. Dunque cui prodest un altro premio simile in tutto e per tutto, che dimostra un'altra volta di non aver colto le esigenze di un settore in difficoltà che non ha bisogno solo di riconoscimenti e nemmeno di patacche accompagnate da pacche sulle spalle. Qualche giornale di settore e qualche attivista accenna ai MOF Meilleur Ouvrier de France, una selezione attraverso una prova severissima delle capacità professionali di chi aspira a questo riconoscimento, in Francia è una questione d'onore e di prestigio poter mostrare il diploma e anche un'apertura di credito nei grandi ristoranti e alberghi francesi. Ma in Francia sono andati oltre vi è anche un MOF riservato ai giovani all'inizio della professione. Da noi MOF sta per Miglioramento dell'Offerta Formativa. Potrebbe essere già qualcosa nel mondo della ristorazione che, se non ci fossero le grandi scuole private (Cast Alimenti, Alma e poche altre) sarebbe un disastro. I ristoratori e tutto il mondo dell'accoglienza hanno bisogno di un riconoscimento in quanto motore dell'economia turistica del nostro Paese. Un'attenzione che è totalmente assente a livello locale e nazionale. Due anni fa l'Arthob di Brescia, l'associazione tra i ristoratori, propose al ministro Patuanelli l'istituzione di una Giornata Nazionale dell'Accoglienza, un po' come quella riferita alla Cultura istituita dal ministro Franceschini. L'abbiamo chiamata G.IT.A. per ricordare che, all'arrivo della primavera, molte famiglie iniziano a uscire grazie alle prime belle giornate, la data prevista infatti era la terza domenica di marzo. Dopo qualche mese ci troviamo una giornata Nazionale della Ristorazione proposta da FIPE E FIC con tanto di medaglia del Presidente. Coincidenza ?, rimescolamento di carte? lungi da noi pensieri cattivi. Quindi tornando alla "legge Massari" riteniamo che il Maestro sia stato usato perché qualche politico possa mostrare una efficienza che non esiste in realtà. Attendiamo misure concrete per il mondo della ristorazione e dell'accoglienza: non "ristori" ma rafforzamento e miglioramento dell'istruzione di settore, con adeguati finanziamenti, collegamento tra la scuola e il mondo della ristorazione, regolamentazione dei tirocini (reddito di tirocinanza), apertura ai grandi produttori locali e nazionali che sono, loro sì, la nostra eccellenza da tutti riconosciuta.
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sabato 13 aprile 2024
What else, cui prodest? ovvero la "legge Massari"
Indaghiamo quindi il significato di questa legge approvata definitivamente in Parlamento. Si tratta, in buana sostanza, di riconoscere alle professioni nel campo gastronomico le loro eccellenze e individuare ogni anno il professionista degno di meritarsi il riconoscimento, A disposizione ogni anno la cifra di ben 3000 €uro. Che serviranno a coniare delle medaglie dedicate ai professionisti premiati da una Commissione, presieduta dal nostro Massari che valuterà una rosa di candidati suggerita dal Ministero dell'Agricoltura. Fin qui tutto bene, what else? che altro pretendere? Solo che a una analisi più approfondita, cosa che non hanno fatto i giornali di settore, risulta che un premio simile esista già si chiama MAM Maestro d'Arte e di Mestiere, è stato istituito dalla Fondazione Cologni di Milano che già da anni sviluppava e premiava i grandi artigiani di eccellenza, dalla ceramica, all'oreficeria, dalla sartoria alla falegnameria, dal mosaico alla stampa d'arte dedicando loro una serie di pubblicazioni. Mancavano i mestieri del gusto e dell'ospitalità, così, dal 2016 con la collaborazione di Alma, la scuola internazionale di cucina italiana con sede a Colorno (PR), viene istituito il premio, suddiviso in 13 categorie, dalla cucina alla pasticceria, dall'ospitalità alla norcineria, i formaggi e la macelleria. Con l'Alto Patrocinio della Presidenza della Repubblica e targa d'onore del presidente Mattarella. La prima cerimonia si è svolta il 6 giugno 2016 alla Triennale di Milano. Ogni due anni vengono consegnati i premi con una medaglia coniata dalla Zecca dello Stato. I premiati fino al 2022 li trovate nel sito di Fondazione Cologni e di Alma.. Per la pasticceria fu premiato proprio Iginio Massari e per la cucina Gualtiero Marchesi. Dunque cui prodest un altro premio simile in tutto e per tutto, che dimostra un'altra volta di non aver colto le esigenze di un settore in difficoltà che non ha bisogno solo di riconoscimenti e nemmeno di patacche accompagnate da pacche sulle spalle. Qualche giornale di settore e qualche attivista accenna ai MOF Meilleur Ouvrier de France, una selezione attraverso una prova severissima delle capacità professionali di chi aspira a questo riconoscimento, in Francia è una questione d'onore e di prestigio poter mostrare il diploma e anche un'apertura di credito nei grandi ristoranti e alberghi francesi. Ma in Francia sono andati oltre vi è anche un MOF riservato ai giovani all'inizio della professione. Da noi MOF sta per Miglioramento dell'Offerta Formativa. Potrebbe essere già qualcosa nel mondo della ristorazione che, se non ci fossero le grandi scuole private (Cast Alimenti, Alma e poche altre) sarebbe un disastro. I ristoratori e tutto il mondo dell'accoglienza hanno bisogno di un riconoscimento in quanto motore dell'economia turistica del nostro Paese. Un'attenzione che è totalmente assente a livello locale e nazionale. Due anni fa l'Arthob di Brescia, l'associazione tra i ristoratori, propose al ministro Patuanelli l'istituzione di una Giornata Nazionale dell'Accoglienza, un po' come quella riferita alla Cultura istituita dal ministro Franceschini. L'abbiamo chiamata G.IT.A. per ricordare che, all'arrivo della primavera, molte famiglie iniziano a uscire grazie alle prime belle giornate, la data prevista infatti era la terza domenica di marzo. Dopo qualche mese ci troviamo una giornata Nazionale della Ristorazione proposta da FIPE E FIC con tanto di medaglia del Presidente. Coincidenza ?, rimescolamento di carte? lungi da noi pensieri cattivi. Quindi tornando alla "legge Massari" riteniamo che il Maestro sia stato usato perché qualche politico possa mostrare una efficienza che non esiste in realtà. Attendiamo misure concrete per il mondo della ristorazione e dell'accoglienza: non "ristori" ma rafforzamento e miglioramento dell'istruzione di settore, con adeguati finanziamenti, collegamento tra la scuola e il mondo della ristorazione, regolamentazione dei tirocini (reddito di tirocinanza), apertura ai grandi produttori locali e nazionali che sono, loro sì, la nostra eccellenza da tutti riconosciuta.
martedì 19 settembre 2023
La cucina italiana esiste o no?
In una discussione pacata come si usa tra persone intelligenti, si è aperto un dibattito ispirato da Massimo Montanari sull’esistenza o meno della cucina italiana e regionale. Spesso queste discussioni tendono a inglobare secoli di storia, se non millenni. Il primo problema dunque nasce dal contesto storico che stiamo indagando. Perché se è evidente che l’Italia è una nazione giovane (1861) il territorio è stato diviso a partire dalla caduta dell’impero romano d’occidente (476) in tanti stati e staterelli che hanno frammentato e diviso una nazione che sulla carta appare omogenea, con il mare che la circonda e le Alpi che la proteggono. A stabilire le caratteristiche di una cucina sono vari elementi: le popolazioni, il suolo e le acque, la provenienza degli abitanti. Sarà la somma di queste coordinate a stabilire una linea gastronomica, se poi a tutto questo aggiungiamo il naturale scambio di prodotti e nozioni che avvengono nei luoghi della socialità, il mercato, le osterie, gli incontri più o meno programmati ecco che si aggiungono ulteriori elementi. Gli Itali erano una popolazione che abitava quella che oggi noi chiamiamo Calabria, parlavano la lingua “osca” adoravano il vitello da cui anche “vitalia” (a loro si unirono bene presto i lucani, i campani, i sabini ecc.) e da loro deriva il nome della nostra patria.
Questa frammentazione ha dato origine a molte cucine locali più o meno omogenee, ricordiamo che anche all’interno di luoghi affini e strutturati politicamente possono coesistere tradizioni diverse, nelle comunità di origine franco-p e rovenzale o greca, ad esempio, le cucine dei popoli alpini come i cimbri e i mocheni, i walser e i valdesi, gli arbëreshë nel sud Italia. Sono enclave di popolazioni arrivate secoli fa con usi costumi e religioni diverse dalle nostre ma oggi completamente integrate. Un altro aspetto sulla conformazione sono le tradizioni gastronomiche locali, che spesso di allontanano da una banale associazione. Se guardiamo la nostra provincia, ad esempio, possiamo notare una sostanziale differenza dalla cucina camuna e quella gardesana, dalla cucina delle valli Trompia e Sabbia da quella della Bassa Bresciana. E’ logico a fare la cucina locale sono i prodotti che si trovano facilmente sul quel territorio, ecco perché in Valle Camonica troviamo spesso il perüch (buon-enrico) e nella Bassa i loertis (luppolo), sui laghi i pesci e nelle zone interne rane e lumache. La formazione di una cucina è lastricata di tante, moltissime, varianti. Come si può pensare a una cucina emiliano-romagnola senza distinguere l’Emilia dalla Romagna, la cucina pugliese è tutta omogenea o i fornelli brindisini stanno a quella tarantina? C’è una cucina lombarda? Cosa c’entrano i valtellinesi, gastronomicamente parlando, con i mantovani? In Italia di questi esempi se ne possono fare, come direbbe Veronelli: millanta e millanta. Quindi com’è possibile denominare con l’aggettivo “regionale” una cucina, anche perché, banalmente, le regioni sono nate nel 1970 e la Lucania si trasformò in Basilicata, gli Abruzzi incorporarono il Molise per poi separarsi, il Trentino l’Alto Adige, il Friuli, la Venezia Giulia, l’Emilia, la Romagna.
In questa discussione poi emerse anche il futuro della nostra cucina e quel caro amico afferma che il destino della cucina locale è passato nelle mani degli osti, delle trattorie perché, parole sue: “la cucina di casa è sbrigativa” forse pensava ai quattro salti in padella come sembra nel manifesto del ministero a supporto della cucina italiana (vedi). La cucina, quella vera è tutt’altro che sbrigativa, si pensi alle lunghe cotture degli stufati, dello spiedo, del manzo all’olio. Si pensi alle ore che servono per preparare casonsèi, caicc, e calsù, le nostre principali paste ripiene. Si pensi alle ore che servono per fare il bossolà di Brescia. Potremmo continuare per pagine. Quindi, oggi la cucina di casa va tutelata e questo doveva fare il Ministero, non presentare all’Unesco un cuoco con i gemelli al polso, mancino, che tratta l’Italia come fossero quei quattro salti in padella o come l’ultimo spot, rivolto a noi italiani, dove una squadra sportiva si butta pacchi di pasta (rompendola e rendendola ottima per la minestra maritata) e dove si insegna agli italiani come cuocerla, a noi, avete capito bene.
Quindi la tutela della nostra cucina, che non è totalmente nostra: se pensate a un piatto di spaghetti al pomodoro e basilico, dove a seccare la pasta filiforme, furono gli arabi in Sicilia, l’olio proviene dalla Grecia, il basilico dall’Oriente e il pomodoro dalle Americhe, solo l’acqua e il sale sono nostri. Ma la cucina è un derivato del savoir-faire, e della sapienzialità delle nostre donne (e uomini, pochi). Pensare che a tutelare la cucina locale siano le trattorie è come chiedere di tutelare la scrittura a mano ai maestri di scuola. Senza ricordare che lo scrivere a mano aiuta la mente a pensare, aumenta la comprensione del testo, ci consente di allenare la memoria e, se usiamo la “bella calligrafia”, si diventa anche un po' artisti. Chiudiamo quindi con l’affermare che la cucina locale deve tornare ad essere protagonista delle nostre tavole, si deve tornare al pollo arrosto con patatine della domenica, allo spiedo del nonno (con o senza uccellini), alle lunghe cotture con la teglia di terracotta. L’alternativa si che è banale: quattro salti in padella o “apri il frigo e vediamo cosa c’è… azz, il frigo è vuoto”, prosit!
Nelle immagini: gli arrosticini abruzzesi, il manifesto del Ministero, il focolare domestico
venerdì 9 giugno 2023
I sapori della vita
Con questo titolo inizia un percorso che, lo spero con tutto il cuore potrà essere lungo e fruttuoso, intellettualmente intendo. Iniziamo con una serie di incontri che intrecciano i sensi, il cibo, la vita delle persone. Aggrappandoci a opere letterarie, film e pezzi di vita scioglieremo sensi come l'acro, il dolce, il salato, l'amaro, il grasso e l'umami, questi due sono gli ultimi arrivati della compagnia.
Il rapporto tra il cibo, la letteratura, il cinema o il teatro è sempre stato forte ma tutte le arti ne sono state contagiate dalla caduta della manna del Tiepolo a Miseria e nobiltà commedia di Eduardo Scarpetta di fine Ottocento. Dalla Grande abbuffata di Ferreri a Julie & Julia di Nora Ephron sceneggiatrice anche di Harry ti presento Sally con la scena indimenticabile nel ristorante. La letteratura è zeppa di passaggi gastronomici da verga (checché ne pensi la Tamaro) a D'Annunzio, da Joyce a Guareschi. Il ciclio si concluderà, almeno in questa versione, con due bresciani sensibili all'argomento culinario : Carla Boroni e il sottoscritto. Carla, orma da vent'anni si è appiccicata l'etichetta di gastronoma da quando iniziò una serie di pubblicazioni sulla cucina bresciana allargando il concetto anche alla selvaggina e allo spiedo, monumento alimentare dei bresciani. Il sottoscritto invece, festeggia il 30° anniversario dell'uscita della prima edizione di La cucina bresciana nel lontano 1993, ne seguiranno altre due edizioni, una in e-book, nel 2013.
Chi vuol essere della partita si prenoti, gratuitamente, al link sottostante e sarete accolti a Cast Alimenti con la dovuta cortesia. Gli incontri si svolgeranno nell'Aula Magna della scuola e ogni incontro prevede alcuni consigli di lettura.
domenica 16 aprile 2023
MARICONDA, BELA TONDA
Stimolato dall’amico Francesco Spacagna di Brescia nel Piatto, circa l’origine delle mariconde e accantonate le frasi rubiconde che vi circolano attorno, ho provato a delinearne le origini. Compito non facile dato che Mariconda è il nome di una nobile famiglia del Meridione d’Italia almeno fino al XVIII secolo e titolare di vie rioni e borghi da Scafati a Pompei (921 i cognomi in Italia).
Le prime citazioni di mariconde come piatto mangereccio risalgono al XVI secolo con i grandi protagonisti del tempo: Teofilo Folengo o, se preferite, Merlin Cocai e Christofaro da Messi Sbugo direttore delle vicende gastronomiche alla corte degli Estensi di Ferrara. Orbene, costoro citano la voce mariconda in due modi l’uno opposto all’altro. Folengo ne parla come minestra sostanziosa, Messibugo come un apparecchio da mensa, una sorta di pastume, vuoi come copertura, oppure come guarnizione e accompagnamento d’altro. Quest’ultimo, ne fa risalire l’utilizzo comune alla regione aragonese spagnola, l’altro ne fa notare la diffusione popolare degna dei suoi poemi maccheronici.
Da qui in poi, tra gli
storici, la confusione regna sovrana. Pronti a imboccare la strada nobiliare i
mantovani, che attribuiscono a Isabella d’Este moglie di un Gonzaga la
diffusione del piatto. Stranamente però questa preparazione non è mai citata da
Bartolomeo Stefani cuoco dei Gonzaga.
Bartolameo questa Arte tua gentile
Ha reso confusione infra i palati.
Mentre, con tuoi cibi delicati
Fatto hai, col’Arte tua Natura vile.
Questo cuoco di origine bolognese, fu protagonista delle feste dei Gonzaga e attento alla cucina del popolo tanto da utilizzare per far minestra i torsoli d’indivia e di lattuga, la zucca in molte preparazioni ma di mariconde, neppure l’ombra. Eppure, i mantovani giurano che le mericonde, come le chiamano loro, siano state introdotte da Isabella d’Este con una ricetta ripresa dal pranzo di nozze tra Ercole d’Este e Renata di Francia. In realtà compaiono, con questo nome l’anno successivo, il 1529, chiamate “mariconda alla ragonesa” . Come spiega bene Roberto Morelli in Appunti di gastronomica, 56 già Maestro Martino segnalava questa preparazione chiamandola “manfrigo o manfrigoli” e anche lo scalco Giovan Battista Rossetti anch’esso alla corte estense, dopo Messisbugo cita la mariconda, ma non si tratta mai di minestra bensì di una farcia vuoi per riempire fiadoni, vuoi per modellare a forma di cappesante come accenna lo stesso Messisbugo.
RAFFRONTO TRA LA RICETTA ORIGINALE
DI MESSISBUGO
E QUELLA DIVULGATA DA
TACCUINI STORICI
PER FARE DIECI PIATTI
DI MARICONDA ALLA RAGONESA
Banchetti… ediz. 1549 - p.
124 anastatica di Neri Pozza, 1992
Togli di formaggio grasso
libbre 3, di formaggio duro libbra una grattato, e d’uva passa monda libbre 2,
e torli di uova trenta, e libbra una di zuccaro, e libbra una di butiro fresco,
e oncia una di cannella fina pista e un pan bianco grattato, e pista bene ogni
cosa insieme nel mortaio.
E poi piglia detto pastume,
e ponilo in una stamegna, ed esprimilo in un torchietto più che sia possibile,
e quando sarà ben espresso fuori il succo, non potendo avere altrimenti quel
che resta dentro, tagliarai la stamegna intorno.
E poi lo detto pastume
tagliarai in fette, grandi o picciole come a te piacerà.
Poi le friggerai in libbre 3
di butiro fresco. Poi imbandendole gli porrai sopra oncie 6 di zuccaro.
Di questa vivanda te ne puoi
servire invece d’uva passa, ed è buona par empir cappe di San Giacomo e
fiordeligi o altre cose di pasta.
NOTE:
1 libbra= g 346
1 oncia= g 21-28
Zuccaro= zucchero
Butiro= burro
Pastume= composto
Espresso= spremuto
Stamegna= stamigna, panno per passare i brodi
Imbandendole= servendole
Cappe di San Giacomo= cappesante o conchiglie di San Giacomo, pettine
Fiordeligi= florilegio, composizione di cose miste
Come abbiamo visto non è una minestra (non c’è brodo), ma un impasto di
formaggio, pangrattato, uova e aromi, anche dolci (uva passa e zucchero)
tagliato a fette poi fritto nel burro, quindi zuccherato. Lo stesso Messisbugo
suggerisce di usarlo in altri modi come ripieno per cappesante o altre
composizioni varie miste, e suggerisce per queste di eliminare l’uva passa.
TACCUINI STORICI, OGGI GASTROSOFICI
Mariconda alla ragonese
Pane raffermo, latte, burro, uova, grana, noce
moscata, brodo di carne, sale, pepe
Preparazione
In un recipiente sbriciolate della mollica di pane
raffermo e ricopritela di latte, lasciandola riposare. Sciogliete del burro in
un tegame, aggiungete il pane ben strizzato dal latte, ponete sul fuoco, e fate
asciugare avendo cura di mescolare il tutto. In una terrina mettete il pane,
delle uova, grana grattugiato, noce moscata, sale e pepe, amalgamate bene il
composto e lasciate riposare coprendo con un canovaccio. Scaldate del brodo di
carne, quando alzerà il bollore prendete il composto a mezzo cucchiaio alla
volta, e gettatelo nel liquido fino ad esaurimento. Cuocete per pochi minuti,
travasate la minestra in una zuppiera, e servitela immediatamente con a parte
del formaggio grattugiato. (In origine questo era un piatto dolce, nell’impasto
del quale entravano zucchero, uvetta e cannella.)
NOTA:
Dove abbia preso l’autore di questa ricetta il brodo,
il latte, che non compaiono nella ricetta originale. Poi ancora: chi ha detto
mai di cuocere l’impasto nel brodo, non certo Messisbugo. È questa una versione
diversa di qualche secolo dopo adattata a minestra nella logica evoluzione
della cucina popolare che intravede l’utilizzo di pane avanzato, o hanno
convissuto nel panorama gastronomico tante versioni con nomi simili?
RIFLESSIONI STORICHE E GASTRONOMICHE
Iniziamo con i nomi incontrati: maricondarum, manfrigo,
manfrigoli, mariconda alla ragonesa, marangole, mericonde, maricùndule,
minestra mariconda, mariconde alla campagnola…
Dallo Scaramella: mariconde, mericonde: 1° piatto a base di pane; - alla campagnola
Dal Melchiori: nessuna voce
Dal Pinelli: nessuna voce
Qualcuno sostiene che deriva:
la prima parte dal Marì, il caldanino che non è però un recipiente di cucina ma
un aggeggio per scaldarsi le mani, la seconda dal “tragitto” che porta il cibo
allo stomaco: condeot=condotto. Supposizioni fantasiose, sicuramente.
Nel Novecento molti autori citano un piatto di nome simile: il più illustre è: “L’arte cucinaria in Italia” con la ricetta: Mericonde del dottor Alberto Cougnet (1910) che però sono talmente raffinate da sembrare degli gnocchi alla parigina o dei bignè bolliti nel brodo vista la presenza di lievito. Ne scrive anche Petronilla (1947) nel suo primo libro e altri autori consimili copiati tra loro. Se la mariconda di Messisbugo (1529) assomiglia più a dei fiadoni, di cui Brescia era famosa (basta leggere Ortensio Lando, 1554) le marangole di Giovanni Felice Luraschi (1853) sembrano delle palline di pasta reale diffuse sui deschi della Padania tra Lombardia ed Emilia. Camillo Pellizzari riporta sul suo “La cucina bresciana” (1972) due ricette: Minestra mariconda e Mariconde alla campagnola,
A convincerci è, al solito, Teofilo Folengo, monaco di
origine mantovana ma vissuto 25 anni tra Brescia e Lonato. Nel suo Baldus (1552)
ad un certo punto racconta:
“e così Comina dà inizio al suo
canto, gonfia di scodelle di mariconda”.
Ecco la minestra servita in scodelle.
E allora? Come si può avvicinare Messisbugo con la
cucina popolare di Folengo. Evidentemente ci sta, come spesso accade in cucina,
un po' di confusione: c’è chi vorrebbe che un piatto avesse sempre una nascita
nobile, che lo circondasse un alone di mistero, che l’inventore fosse un dignitario
di corte come appunto Christoforo da Messisbugo alla corte estense. Un po’ di
confusione non guasta, le citazioni storiche, spesso sbagliate, (Ercole II si
sposò in Francia nel 1528 con Renata di Francia) le mariconde alla ragonesa le
mette nel menu l’anno seguente e Isabella d’Este (che avrebbe portato la
ricetta a Mantova) non era presente a quella cena. È quindi, come diceva
Bartali, tutto da rifare? No, certo.
Si tratta di cose diverse perché la cucina dei
principi non è quella del popolo, anche se prima o poi si incontreranno (la
pizza della regina Margherita) come dimostra la predilezione di tanti cuochi di
ristoranti fine dining per le frattaglie, la trippa, il panino, epperò gourmet,
ecc.
Quindi torniamo alla cucina di principi e di popolo,
come veniva detta la cucina mantovana perché è tra Mantova, Cremona e Brescia
che si possiede la paternità gastronomica di questo piatto. Lasciamo stare i
quarti di nobiltà e affrontiamo l’argomento seriamente: si tratta di una
versione che alla sua base ha la cultura del riuso, del recupero o se vogliamo
dell’avanzo della mensa. La materia prima è il pane, che non si butta mai per
rispetto vuoi religioso (Cristo spezzò il pane e ne diede agli apostoli) vuoi
per rispetto della fame altrui. Così nascono ricette per il suo riutilizzo come
gli gnocchi di pane, i canederli. i casoncelli della Bassa, il ripieno della
gallina e la nostra minestra mariconda. Da noi si usa più la versione povera,
mentre nel Cremonese e nel Mantovano usano aggiungere all’impasto carne lessa tritata
di pollo o manzo e quindi un altro recupero. Chiudiamo con una citazione a
proposito di recupero di una canzone poco conosciuta (La dieta) di Luca
Barbarossa:
“---Pe’ fà la picchiapò ce vò er
bollito
Taiato a fette arte mezzo dito…”
16 aprile 2023
Da leggere:
Christoforo da Messisbugo: Banchetti
e compositione di vivande; Ferrara 1549
Agostino Melega La tradizione del
cibo salvato; sul web
Roberto Morelli La mariconda; Appunti
di Gastronomia n. 56; Biblioteca Alma, Colorno (PR)
Nelle immagini: Il libro di Messisbugo; la rivista Appunti di gastronomia; il mio libro sulla cucina bresciana che riporta la ricetta cercate la seconda edizione poiché questa è esaurita.
.
lunedì 16 gennaio 2023
CASONSÈI
non solo pasta ma anche evoluzione
Se c’è una preparazione gastronomica
che lega fortemente le provincie di Bergamo e di Brescia questa si chiama
casonsèi. Non casoncelli, come si usa dire, che è bruttino, una forzatura verso
la lingua nazionale inutile, sarebbe come chiamare pagliata la pajata dei
romani o salsa calda la bagna càoda dei piemontesi che si pronuncia cauda.
Ora è inutile
cercare battesimi e anni di nascita di queste paste ripiene nate dall’esigenza
di usare o riusare, come si dice oggi, degli avanzi della cucina e dei pasti precedenti.
Se non c’era niente, e un tempo era spesso così, allora pane e formaggio, con
un po' di erbe selvatiche sopperivano alla carenza di prodotti.
Contrapporre
quindi Bergamo e Brescia sul tema “patria dei casoncelli” mi sembra fuorviante.
Molto più utile indagare sulla loro evoluzione, sul cambiamento dei gusti e
sulle innovazioni avvenute nei secoli. Guardiamole bene queste due provincie
simili nella conformazione orografica salvo dimensioni differenti e molto più
ricca di acque quella bresciana. Noi sappiamo però che le proposte
gastronomiche si formano attorno ai prodotti che ha generato nel territorio.
Troveremo
allora la presenza di patate in montagna, verdure di campo in pianura, formaggi
in tutto il territorio, sapori secondo il gusto di ognuno, e condimenti secondo
le possibilità.
La prima
distinzione è la pasta, più o meno spessa, più o meno ricca di uova. La prima
ripartizione è dovuta a sensibilità gustative di ogni zona e di opinioni più o
meno convincenti: masticabilità sensazione di appagamento fisiologico,
preferenza della pasta rispetto al ripieno.
La seconda
distinzione riguarda il ripieno chi lo preferisce ricco di carni, chi apprezza
l’equilibrio di sapori dolce-salati, chi lo vuole semplice per ritrovare gusti
antichi e poveri, chi ricerca nuove sensazioni gustative.
La terza
distinzione sta nel condimento c’è chi lo vuole ricco di sapori con pancetta o
altri salumi, chi invece apprezza una semplice combinazione di burro cotto e
foglie di salvia.
Tutti però
concordano che i casonsèi siano un piatto da riservare alle feste con ospiti.
Il motivo è
stato spiegato in un convegno, svoltosi anni fa alla presenza di Giovanni Rana,
la pasta ripiena gode di una reputazione alta nel fatto di poter svolgere un
ruolo gastronomico nella proposta del pasto di buon livello, superiore cioè a
una semplice pastasciutta o minestra e nel motivo, lampante, di poter essere
somministrata in pochi minuti.
Oggi allora
dobbiamo considerare tradizionali molte di queste offerte gastronomiche, ne è
più ricca la provincia di Bergamo o quella di Brescia. Troviamo il quesito
inutile e poco rispettoso di due territori consimili che hanno, ognuno per loro
conto, disegnato piatti di genere consimile ma con gusti diversi. A noi invece
interessa leggere la loro evoluzione, perché, per chi conosce le due cucine,
potrebbero essersi intrufolati nuovi piatti di casonsèi, con nomi magari di
fantasia, con forme nuove, con ripieni e condimenti assolutamente innovativi.
Questo il
compito che ci siamo dati per voi. Per facilitarvi nella conoscenza, per
stimolare nuove emozioni gustative, per aggiornare il vostro bagaglio culturale
in proposito.
I casoncelli dei bergamaschi e dei bresciani
Bergamo
1. Bertù di
Rovetta o di San Lorenzo
2. Caronsèi di
Cadelfoglia
3. Casoncelli
del Colleoni
4. Casoncelli
della Valle Imagna
5. Casoncelli
di Ambivere
6. Casoncelli
di Cornalista e Roncaglia
7. Casoncelli
di Isso
8. Casoncelli
di Locate
9. Casoncelli
di Prezzate
10. Casoncelli
di Zogno
11. Casoncello
di Ambivere
12. Casoncello
dolce
13. Casoncello
storico
14. Casonsèi co
i urtighe
15. Casonsèi de
la bergamasca
16. Casonsèi de
Spinù
17. Creste
scalvine
18. Ravioli di
Marne
19. Ravioli di
Sant'Alessandro
20. Raviolo
Nostrano di Covo
21. Scarpinòcc
Brescia
1. Cadunsèi
col manubrio Piazze d'Artogne
2. Caicc o
ravioli di Breno
3. Calsù di
Pezzo
4. Calsù di
Ponte di Legno
5. Calsù di
Villa Dalegno
6. Calsù di
Zoanno
7. Calsù o
casoncelli di Lozio
8. Canünsèi de
Sant'Antone di Casterlcovati
9. Casoncelli
di Barbariga
10. Casoncelli
di Erbanno
11. Casoncelli
di Longhena
12. Casoncelli
di Monno
13. Casoncelli
di Ono San Pietro
14. Casoncelli
di San Giacomo di Borgo S. G.
15. Casoncelli
di Sant'Andrea di Nuvolento
16. Casoncelli
di Sant'Antonio di Pontoglio
17. Casonsèi de
Cegnà o Signà di Cignano
18. Casonsèi di
Flero
19. Pi fahacc
Artogne
20. Tortelli di
zucca di Gottolengo
1.
Camisocc Gandino Emanuela Caleca Sagra
locale
2.
Capèl dè Monega Valle Brembana Ludovico
Pozzi e Andrew Regazzoni
3.
Casoncelli al Branzi Trattorie Valle
Brembana
4.
Casoncello gelato Bergamo Gelateria
Marianna
5.
Castoncelli Monesterolo del Castello
Sagra locale
6.
Chioccioncelli Carobbio degli Angeli
Roberto Rovetta Azienda di allevamento lumache
7.
Moscovado di Scanzorosciate Francesco
Gotti Festa del Moscato di Scanzo
8.
Rustichini Val Gandino Ivana Bosio
Pastificio locale
9.
Tosèi di Rovetta in Valseriana Pastificio
locale
Novità BS
1.
Casoncelli 2.0 Istituto Dandolo Bargnano
di Corzano 2018
2.
Casoncelli al bagòss Trattorie di
Bagolino
3.
Casoncelli della Fonte di Mompiano
Istituto Mantegna Brescia 2022
4.
Casoncelli estivi Brescia Marino Marini
2001
5.
Casonsèi scapacc Brescia Trattoria
Licinsì km zero 2018
6.
Ganèi Darfo Boario Terme Alessandro
Amoruso Istituto Alberghiero Darfo B.T. 2019
7.
Tortelli ai formaggi di Tremosine
Cooperativa Alpe del Garda
8. Tortelli di San Vitale Castegnato Cascina Cattafame Ospitaletto (antica ricetta 1904)
Come avete
visto in tanti secoli di strada ne è stata fatta si è passati dal semplice
ripieno, quello della gallina, che all’occorrenza poteva miracolosamente
trasformarsi in polpette, involtini di verza ripieni quelli che chiamiamo
capunsèi un po' per l’assenza del cappone un po' per il suo ripieno e così
complice l’obbligo di rispettare il digiuno imposto dalla religione, la
preparazione dei casoncelli era semplicemente farina, poche uova, e quel che la
madia riservava. Il risultato un casoncello trasparente che mostrava il
contenuto dello scrigno goloso, un fagottino rigonfio, un cassonetto di bontà
secondo i parametri del tempo regolato sulla fame. E qui, tra queste parole sta
l’origine del nome: calzoncino, rigonfiamento (vedi i fiadoni derivati da enfiat,
gonfio), cassoncello, o, ma questo lo riferiscono coloro che hanno studiato, da
caseus il nome latino del formaggio.
Comunque sia la fantasia e il
gusto ci portano all’oggi che vede tra le nostre due provincie accavallarsi
montagne di casoncelli che offrono un piatto gustoso e veloce da prepararsi le
differenze sono molte e oggi stiamo assistendo a un rinnovato interesse e le
amministrazioni locali cercano di tutelarne le peculiarità come la Camera di
Commercio di Bergamo che ha definito dei disciplinari su alcune tipologie
tradizionali, o qualche comune che ha invece preferito scegliere la
Denominazione Comunale (De.Co.) altri ancora hanno richiesto l’inserimento nei
Prodotti Agroalimentari Tradizionali (PAT). Sta di fatto che il supporto
maggiore è dato dalle tante sagre che da molti anni (quella di Bottonaga a
Brescia ha più di 40 anni) fanno dei casoncelli il loro piatto bandiera.
Bergamo con il riconoscimento europeo cosiddetto East Lombardy ha dato il via a
manifestazioni a sostegno di questa pasta ripiena; Brescia nel 2018 ha
organizzato il Concorso provinciale dei casoncelli a Orzinuovi che ha visto
nascere nuove proposte, specialmente nel settore giovanile. Nello spazio, nuovi
ripieni delle tabelle chiamato novità vediamo alcune nuove idee ma anche
recupero di casonsèi dimenticati.
Ci piace sottolineare l’idea
dell’Istituto Alberghiero Mantegna di Brescia che guidati dagli insegnanti e da
un tecnico hanno inventato uno stampo per casoncello richiamando le forme e gli
archi della Fonte di Mompiano, hanno anche deciso che il ripieno sarà composto
da prodotti bresciani così come le farine sono di ti
C’è del buono all’orizzonte e i
casonsèi, bresciani o bergamaschi che siano ne saranno protagonisti.
Note: nelle immagini il casoncello tradizionale, la sagra di Pontoglio, quella di Barbariga, i camisocc di Gandino e il casoncello della Fonte di Mompiano
domenica 1 gennaio 2023
QUATTRO FRATTO DUE UGUALE...
- Chi ha ancora ricordi scolastici che vagano per la mente se lo ricorderà il quesito matematico. Certo, discorrendo di 5/4 la matematica si spreca. Ma non si sprecano quelle parti che non sono propriamente nobili, dette così, quest’ultime, perché le consumavano, principalmente i ricchi, da distinguersi dalle parti povere… un po' come la corte alta e bassa. Molte cose vanno chiarite perché non si capisce l’uso del quinto-quarto oggi così diffuso nei ristoranti di alta gamma.Intanto si dicono frattaglie e rigaglie perché erano destinate a dividersi (fratto significa dividere, scomporre, frantumare) tra i poveri o coloro che avevano macellato l’animale, fosse vitello, bue, maiale, cavallo o solo un cappone, un’oca o una gallina. Si è giocato molto sul termine rigaglie e regalie, ma non confondiamoci non regalie perché destinate al re ma, al contrario era il re che, bontà sua, concedeva al villano di tenersi le budella e le altre interiora. Solo qualche buongustaio raffinato per giustificare che mangiava volentieri le frattaglie ne discuteva con sussiego dando loro valore gastronomico assoluto: cose che voi umani non conoscete! Si nasconde dietro questa moda anche un po' di ipocrisia, specialmente tra i ristoratori al top, che spesso enfatizzano solo perché devono giustificare un prezzo elevato a fronte di un basso costo. Ma ci sono cuochi o cuoche come Valeria Piccini a Grosseto, nella Maremma, che ne è maestra.Dal dizionario ricaviamo chebassa corte s.f. dal francese basse-cour che indicava il cortile di servizio dei castelli, in contrapposizione con la cour d’honneur, cortile di rappresentanza. Il termine bassa corte stava appunto a sottolineare la differenza tra gli animali considerati privilegiati come cavalli, utilissimi alla corte, cani, gatti, o animali di compagnia e animali utili solo nel campo alimentare, tendenzialmente sporchi e causa di fetori, come appunto maiali, galline, polli, ecc.frattàglia s.f. [derivato del latino fractus, part. pass. di frangĕre «spezzare»]. – Di solito al plurale, frattaglie, le interiora degli animali macellati (soprattutto bovini, ovini e suini): fegato, cuore, milza, polmoni, ecc. e per estensione insieme di cose inutili, inservibili, malconce.rigaglia s.f. (regionale regaglia) sono le interiora e la cresta dei polli e altri uccelli commestibili e per estensione si usa anche come avanzo, rimasuglio, ritaglio (di stracci) o ancora ciò che rimane dal bozzolo dopo aver ricavato la seta pura.Ma la gastronomia, la cucina, sommate alla fantasia sono altra cosa e le nostre donne e uomini di fornello s’industriano a rendere buone queste parti anatomiche, ci mettono la loro anche i macellai i pollivendoli, e come vedremo anche i pescivendoli, tutti esperti che conoscono bene la materia.Cominciamo a conoscerle per nome queste parti anatomiche, per i bovini si distinguono leinteriora bianche: trippa. animelle, budella, cervello;interiora rosse: fegato, polmone, cuore, rognone, milza, lingua;ma abbiamo anche il diaframma, la coda, il midollo, i filoni, le guance, la testina, le mammelle, i testicoli e altre parti intime. Per quanto riguarda la trippa occorre distinguerne le parti.Prestomaci:Rumine (detta anche Ciapa, Croce, Larga, Panzone) è la parte più grande dello "stomaco" è anche quella più spessa e grassa.Reticolo la parte più importante (detta anche Beretta, Cuffia, Nido d'ape) è la parte più spugnosa.Omaso (detto anche Centupezzi, Foiolo, Libretto, Millefogli, Centopelli) che ha una struttura lamellare con pieghe bianche.Stomaco:Abomaso (Caglio, Francese, Frezza, Lampredotto, Quaglietto, Ricciolotta) il vero e proprio stomaco del bovino la parte obbligatoria per fare il famoso Lampredotto. L'abomaso è formato da una parte magra, la gala, e da una parte più grassa, la spannocchia. La gala è caratterizzata da piccole creste (dette gale) di colore viola e dal sapore forte e deciso. La spannocchia invece ha un colore più tenue ed un gusto più morbido.La trippa è la protagonista delle osterie dal nord ( Milano detta busecca) al sud più o meno brodosa fino alla versione parmigiana completamente asciutta fino a giungere a Madrid con i callos.La milza entra nei crostini dei toscani o nel panino ca’ meusa dei mercati palermitani.Il rognone ha una copertura di grasso non indifferente che una volta sciolto si può usare per i fritti e per altri usi. Anche se i francesi cucinano il rognone alla coque direttamente nel suo grasso.Con le budelline del vitello da latte a Roma si fanno i rigatoni con la pajata, a Brescia una minestra in disuso come la minestra di coda di bue andrebbe recuperata, la stessa protagonista dell’oxtail soup degli inglesi e della coda alla vaccinara dei romani; con la mammella i valdostani preparano un salume il teteun. Mentre la lingua subisce un trattamento speciale: la salmistratura e diventa subito un piatto da intenditori tanto da finire sopra il Savarin di riso di Mirella Cantarelli.Ma alcuni piatti meritano di essere elevati alla massima potenza perché raccordano i due mondi delle frattaglie e delle rigaglie come il cibreo dei toscani e la finanziera dei piemontesi. Sul palcoscenico sono altre due grandi preparazioni italiane: il gran bollito misto piemontese, lombardo, veneto, emiliano e qui entra un altro protagonista: la testina; e poi il gran fritto piemontese dove molti dei suoi componenti fanno parte di questa famiglia di cui stiamo ragionando. E, infine, un ultimo lo troviamo a Napoli con ‘o pere e ‘o musso, il piede del maiale e il muso del vitello.Del maiale non si butta via niente e infatti con le budella si confezionano i salami, con le zampe gli zamponi, la cotenna entra, oltre che nel cotechino e nel musetto dei friulani, nelle minestre invernali in compagnia dei fagioli o nella trionfante cassoeula, poi la reticella di maiale, la codina, il collo, il muso, la tempia dei minestroni milanesi, le orecchie e molti cucinano pure gli ossi che fanno il loro ingresso nelle “maialate”. Da non dimenticare le greppole, i ciccioli e i chicarrones venezuelani: delle chips fatte con le cotenne del maiale. A Parigi, non lontano dal Moulin Rouge dove un tempo c’erano i mercati c’è un ristorante famoso “Pied de cochon” che ci ricorda la sua specialità: un piede di maiale cotto, impanato e fritto golosa colazione degli avventori (io ho impiegato tre giorni a digerirlo) e i piemontesi con il loro batsoà tentano di imitarli aggiustando il tiro. Con il sangue raccolto subito dopo l’uccisione da noi si faceva la torta di sangue, in altre zone il biroldo della Garfagnana, il buristo di Chiusidino nel Senese, il mazzafegato umbro, la susianella di Viterbo, la mustardela piemontese, il sanguinaccio lombardo e U' sangùnét pugliese e la morcilla spagnola.Il fegato, anzi i fegati, i fegatini e i fegatelli hanno un loro trattamento particolare e diverse interpretazioni dal semplice fegato alla veneziana, il fegatazzo abruzzese grigliato o affumicato, ai fegatelli toscani nella reticella di maiale detta anche omento, il fegato grasso d’oca o di anatra che sublima nel foie gras e nei paté, molto più economicamente i lombardi ne facevano una versione padana con i fegatini del pollame da non disprezzareGli ovini hanno anch’essi nelle frattaglie i loro piatti tradizionali dalla trattalia e cordula dei sardiagli gnummareddi detti anche turcinelli o mugliatielli piatti che abitano dal Molise alla Puglia passando da Lucania, Campania e Calabria fino agli haggis un insaccato a base di interiora di pecora di origine scozzese.Infine, gli avicunicoli (uccelli e mammiferi) le cui rigaglie abbondano dalla testa di lepri e conigli, all’oca che, similmente al maiale non si butta via niente, neppure le penne (o il piumino) o il collo che spesso si fa ripieno o i magoncini (lo stomaco o ventricolo, ventriglio) di uccelli di passo (la masőla dei bresciani), della lepre ricordiamo che il sangue si versa nel civet per addensarlo, in alternativa il suo fegato tritato.Insomma, dalle lingue di fenicottero degli antichi romani, al quinto quarto odierno occorre passare dalla cucina, senza farsi infinocchiare da Chichibio del Decamerone e dalla gru con una gamba sola.E non è finita, per essere coerenti anche gli animali che vivono in acqua hanno il loro quinto/quarto, ricordiamo che per fare un fondo di pesce servono teste e lische di quel pesce, così come per bagnare un brodetto, una bouillabaisse, un risotto di mare, una vellutata di pesce. Anche il fegato di certi pesci come quello della rana pescatrice, del merluzzo ma anche le sue trippe e guance; il lattume di alcuni pesci o le loro uova per farne caviale, bottarga. Del tonno il fegato, il cuore, la carne delle lische detta buzzonaglia, il sanguinaccio detto ficazza, le guance di alcuni pesci come i merluzzi e altri. Anche qui gli antichi romani ci furono maestri con il loro garum di cui troviamo traccia nel Rinascimento, ripulito e ribattezzato cisame come scriveva Bartolomeo Scappi, il più grande cuoco dell’epoca “cisame de pesse quale tu voy” e, ancora oggi, sul lago di Garda ne troviamo traccia nel sisam di aole.Chiudiamo con una raccomandazione se gli animali sono trattati bene e mangiano bene anche le loro interiora saranno sane. E per chi avesse ancora delle remore ricordiamo con Leonardo Romanelli che: “È più immorale ammazzare un manzo per mangiare solo il filetto che esaltarne ogni singolo pezzo”
- Marino Marini 1° gennaio 2023
lunedì 28 novembre 2022
Lo spiedo bresciano è
Prodotto Agroalimentare Tradizionale
Lo abbiamo detto e proposto qualche mese fa alla Regione
Lombardia e oggi è stato riconosciuto ufficialmente. Lo ha annunciato lo stesso
Assessore Rolfi con il quale ci eravamo incontrati. Lo spiedo bresciano è
ufficialmente un Prodotto Agroalimentare Tradizionale della Regione Lombardia.
Un altro passo avanti nel riconoscere le nostre tradizioni, adesso occorre un
ulteriore sforzo perché siano riconosciute altre eccellenze bresciane come il
bossolà, la persicata, il pirlo e il biscotto bresciano. Per il bossolà c’è grande fermento dopo che è stato pubblicato il libro sul Bossolà di
Brescia che trovate in libreria e in edicola in questi giorni. Un altro piccolo
passo. Si sta così delineando la nostra strategia che è semplicemente quella di
far emergere le possibilità, anche economiche di molti prodotti bresciani
eccellenti. Lo stiamo facendo con le farine, di cui vi abbiamo parlato anche
all’Ottobrata (che ha avuto grande successo), proseguiremo con il lancio del
progetto Via Lattea Bresciana e faremo ancora altre sollecitazioni su altri
prodotti della nostra provincia. Chiediamo alle istituzioni di essere attente e
sollecite nell’interesse dell’intera comunità bresciana. Ricordiamo ai
ristoratori che per inserire nello spiedo gli uccellini cacciati occorre
procedere con le indicazioni dettate dalla recente legge lombarda. La
tradizione bresciana è salvaguardata in toto nelle case private dove non ci
sono divieti nell’uso di uccellini, salvo consumare solo quelli permessi dalla
legge sulla caccia.
Nelle immagini: il bossolà di Brescia, il biscotto bresciano, la persicata e il pirlo.