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martedì 21 aprile 2020


Fare la cosa giusta

            Qualcuno mi ha chiesto, dopo i due articoli suoi cuochi di ieri e di oggi, di disegnare il futuro che aspetta queste nuove generazioni, è un compito arduo ma tento di illustrare le problematiche e le possibili scelte, ognuno deciderà poi secondo i propri orientamenti e le proprie capacità e sensibilità.

            Stiamo vivendo un periodo particolarmente difficile, noi e il nostro pianeta. Stiamo rischiando di perdere il filo della storia, invasi da troppe sollecitazioni, non sempre in buona fede. La storia della gastronomia è percorsa oggi da contraddizioni stridenti. La finanza predomina nelle nostre vite, determina le nostre scelte, anche in cucina, nel ristorante, nell'albergo. Occorre esserne coscienti se non si vuol rischiare di trovarsi ai margini della società economica, bisogna tornare a essere protagonisti del nostro futuro. Si spendono oggi molte parole in favore di un futuro prossimo di consapevolezza. I temi da affrontare sono tanti e di spessore culturale importante, occorre adesso dare le gambe a tutte quelle affermazioni che sentiamo, occorre tradurre in pratica quotidiana le prese di coscienza che si annunciano. La gastronomia contemporanea deve muoversi in un contesto che non può escludere la conoscenza delle problematiche ambientali e sociali, essere cuoco, pasticciere, sommelier, professionista di sala o manager non esime dalla conoscenza dello stato di salute del pianeta.

  • Consumare suolo, ad esempio, significa sottrarre spazio all'agricoltura e obbligarla a concentrarsi in spazi agricoli di tipo intensivo.
  • Significa anche modificare il paesaggio rendendolo sterile ambientalmente e culturalmente.
  • Sprecare acqua significa impoverire il pianeta di una risorsa fondamentale.
  • Acquistare prodotti destagionalizzati significa perdere il gusto della materia prima che si esprime al meglio nella stagione propizia, ma significa anche favorire il mercato dell’agricoltura intensiva e a basso prezzo.
  • Consumare esclusivamente alimenti raffinati vuol dire perdere, in gusto e in proprietà nutrizionali, parte del nostro fabbisogno energetico.
  • Scegliere prodotti del territorio vicino a noi, serve a ridurre l’inquinamento dato dal trasporto, spesso inutile, di merci di altri paesi.
  • Acquistare la materia prima dai produttori e artigiani locali significa tutelarne e difenderne il futuro.

            Non necessariamente il cuoco deve fare il pane, coltivare l’orto, allevare animali, pescare i pesci; affidarsi a ottimi artigiani, allevatori, coltivatori, pescatori rivela una concretezza verso il territorio e la sua economia di sussistenza e ne garantisce continuità. Acquistare prodotti, sani, biologici, di varietà antiche, vuol dire esprimere sensibilità verso quei prodotti a rischio di scomparsa. Cucinare, fare accoglienza vuol dire occuparsi degli altri; la cucina e i materiali, mobili e immobili, siano scelti con attenzione e nel rispetto dell’ambiente, il cibo sia sano e leggero, comprensibile la lavorazione, le scelte spiegate con cura, i materiali siano sostenibili con un impatto minimo verso l’ambiente. La cura di sé, del luogo di lavoro, del territorio, siano parte integrante di scelte personali e collettive consapevoli che questa terra ci è stata affidata perché ne avessimo cura non per sfruttarne senza senso né misura le abbondanti riserve.

Questo pianeta ritroverà la sua pace quando anche gli uomini vivranno in pace con sé stessi e gli altri. Quando si alzerà lo sguardo oltre l’orizzonte del quotidiano e del personale, quando insomma si rispetterà quello che ci è stato affidato. Il ruolo che rivestono oggi gli operatori dell’accoglienza, a tutti i livelli, sono molto più avanzati rispetto al passato, chi esercita queste professioni deve essere preparato tecnologicamente e culturalmente. Il suo sguardo professionale deve comprendere sì il ruolo precipuo per il quale si è preparato ma anche assumersi responsabilità più ampie.

      Al cliente non ci si limiti a somministrare cibo e servizi ma si sottolinei anche le bellezze, naturali, artistiche, produttive del territorio in cui si opera. Si diventi uno strumento promozionale delle occasioni sociali e culturali che la zona in cui si lavora, piccola o grande che sia, offrono. Oggi le parole d’ordine sono: consapevolezza, rispetto, conoscenza, cura e compassione. Non sprecare cibo né altro, rispettare l’ambiente e il paesaggio avendone considerazione, studiare abitudini e sapienze antiche, proporre visioni contemporanee senza troncare le radici con la società, è un compito arduo ma necessario per un futuro da nuova generazione di cuochi. Fosse solo per smentire quello che affermava James Joyce: Dio fece il cibo, ma certo il diavolo fece i cuochi”.

Le immagini: Terra Madre e i mille cuochi, le mani della terra, Marchesi e Parisi il cuoco contadino, il panettiere, trasporti alimentari, Chef Sacco e i pescatori, mangia italiano. 










sabato 18 aprile 2020

Il cuoco ieri e oggi (seconda parte dal Novecento a oggi)

             In questo secolo l'Artusi farà scuola ma stimolerà anche la nascita di altri ricettari (Olindo Guerrini scriverà “L’arte di utilizzare gli avanzi della mensa”) e numerose riviste. “Rivista italiana d’arte culinaria” (1905); ”La Cucina Moderna” (1908); “La Cucina Moderna Illustrata” (1911); “Preziosa” diretta da Ada Boni. Nel 1929 vedremo l’uscita de “La cucina italiana” di Umberto e Delia Notari con tanto di commissione di assaggio. Vi scriveranno, negli anni, intellettuali e cuochi, come F. T. Marinetti, l’ideatore del Futurismo, e il cuoco di Casa Savoia, Amedeo Pettini. Nel frattempo, sull'onda dei grandi ricettari francesi di Urbain Dubois e Jules Gouffé, tradotti anche in italiano, un gastronomo il dott. Alberto Cougnet nizzardo, pubblica “L’arte cucinaria in Italia” poderoso manuale in due tomi dove si cerca di scrollarsi di dosso la cucina francese e trovare una via italiana alla gastronomia. I Savoia, lo racconterà proprio il Cougnet, decidono di abbandonare la lingua francese dei loro menu (siamo nel 1908) e si rivolgono all’Accademia della Crusca per trovare le giuste traduzioni, scrive il re Vittorio Emanuele III:

“L’Italia ha una lingua propria, ricca e melodiosissima; per quale ragione dobbiamo,
per un malinteso criterio della moda, ricorrere a idiomi stranieri?”

così per il termine menu, dopo mesi di discussioni, apparvero le prime proposte: lista, nota, elenco, lista cibaria, gastronota, vivandonota, elenco, distinta. Dopo una lettera di Olindo Guerrini al Giornale d’Italia anche i Savoia si convinceranno ad usare per le liste cibarie semplicemente: pranzo, colazione, cena, convito. Rimarranno alcune curiosità come Poncio allo sciampagna e così via. A proposito del vino francese la regina Elena si rifiuta, per il varo di una nave, di usare lo champagne ma chiede un vino italiano.

Saranno ancora i territori a segnare il tracciato. A Roma un cuoco-poeta Adolfo Giaquinto direttore del “Messaggero della cucina” una rivista per cuochi e massaie, scriverà alcuni libri sulla cucina e molti di poesie e canzoni in dialetto romanesco. A Milano Giuseppe Fontana, cuoco del Savini, darà alle stampe la “Cusinna de Milan” ricette in dialetto meneghino. In Sicilia Enrico Alliata Duca di Salaparuta, darà alle stampe il suo “Cucina vegetariana e naturismo crudo”. Ada Boni, nipote di Giaquinto pubblica nel 1925 “Il talismano della felicità” a cuci seguiranno “La cucina romana” e “La cucina regionale italiana”. Nel 1930 appare il “Manifesto della cucina futurista” a cura di Marinetti e Fillia, farà scalpore e provocherà un grande dibattito il loro grido “contro la pastasciutta”. Anche i marinettiani proporranno un adeguamento dei termini gastronomici stranieri ed ecco che il cocktail diverrà polibibita, il bar quisibeve, il panino tramezzino e il dessert peralzarsi.  Tra le due guerre, per necessità, appariranno dei libri su come provvedere alla mensa quotidiana in tempi difficili, di privazioni e sanzioni, nasceranno così molti surrogati per sostituire burro, carne e alimenti costosi e introvabili. Un bresciano inventerà Lanital un filato ottenuto dalle proteine del latte.

Il dopoguerra segnerà, finalmente il risveglio, la voglia di rifarsi porterà molta gente in trattoria, esploderanno le pizzerie e le trattorie toscane, specie in città come Torino e Milano. Sono gli anni del cosiddetto boom economico, numerosi film realisti raccontano del bisogno di cambiamento dal “maccherone, m’hai provocato e io me te magno” fino alla “Grande abbuffata” di Marco Ferreri dove la noia, l’inedia, l’assenza di progetti di vita, naufragano nell’ingordigia e nel sesso, fino a morirne. In TV approda Mario Soldati che nel suo “Viaggio sul Po, alla ricerca dei prodotti genuini” fissa i canoni della tradizione gastronomica e delle nuove industrie che si mostrano sul mercato. Nel 1956 appare la guida Michelin, ancora monca poiché si fermerà fino a Siena, ma dal 1957 coprirà l’intero territorio italiano. Dal 1959 la prima stella ai nostri locali   (80) e 10 anni dopo la seconda (11), scopriamo così alcuni locali straordinari come La Santa di Genova con il cuoco Nino Bergese, Sabatini di Firenze, Fini a Modena, Villa Sassi a Torino, 12 Apostoli a Verona; Arnaldo Clinica Gastronomica a Rubeira (RE) la detiene, quasi ininterrottamente dal ’59 a oggi. Nel 1972 due giornalisti francesi Henri Gault e Christian Millau stilano 10 comandamenti che denominano Nouvelle Cuisine, in realtà già lo chef francese Menon nel 1742 aveva dato alle stampe un volume con lo stesso titolo e anche Antonin Carême il secolo successivo chiamava così la sua cucina. Il movimento trova subito dei seguaci, in Francia Fernand Point e Michel Guérard e in seguito Paul Bocuse e molti altri abbracciano questa novità. In realtà già si sentiva da anni il bisogno di alleggerire i piatti, inondati da salse e da panna, marinature cotture lunghissime, in cucina, negli anni ’60 del secolo scorso, in un angolo c’era sempre un pentolone in lenta ebollizione, lo chef lo chiamava remouillage, un bagno di qualsivoglia materiale di scarto della cucina: ossi, pelli, bucce, perfino corde dell’arrosto, sempre in piccolissima ebollizione era destinato a diventare salse e fondi di cucina.

In Italia sarà Gualtiero Marchesi ad abbracciare questa novità dopo i suoi stage dai fratelli Troisgros a Roanne, Nel suo ristorante milanese ottiene la prima stella nel 1978, l’anno successivo la seconda e nel 1986 la terza stella lo classificherà primo cuoco in Italia a ottenere questo ambito riconoscimento internazionale.

Ma la cucina degli anni ’80 e ’90 esprimeva altri grandi cucinieri. La prima fra tutti: Mirella Cantarelli in Samboseto (PR) che con il marito Peppino facevano una cucina moderna utilizzando i prodotti locali. Sarà proprio Mario Soldati nel 1958 ad aprire la porta di questo spaccio alimentare-tabaccheria-trattoria-posto telefonico pubblico e a farla conoscere al grosso pubblico, chiuderà definitivamente nel novembre del 1982. A pochi km stava un altro straordinario personaggio Franco Colombani, uomo di sala e di cultura esercitava a Maleo (LO), qui consumò l’ultima sua cena Gioann Brera, il grande giornalista padano. Dall'altra parte dell’Emilia, un gruppetto di cuochi capitanati da Igles Corelli gestivano il Trigabolo di Argenta (FE) in cucina dei ragazzetti Marcello Leoni, Bruno Barbieri e altri. A Venezia Giuseppe Cipriani nel suo Harry’s Bar negli anni ’50 inventa i Carpaccio per una sua cliente straniera. A Costigliole d’Asti Guido Alciati e sua moglie Lidia deliziano la clientela con gli agnolotti del plin e una rivisitazione del vitello tonnato che dimostra come le novità abitino anche in Langa. In Milano Aimo e Nadia Moroni, lui proveniva dalla Toscana e a pranzo era una mensa per operai, la sera si trasformava in grande ristorante con porcini, ovoli, scampi e tante buone cose che entusiasmavano Luigi Veronelli. Sempre a Milano uno chef di Gualtiero Marchesi di origine svizzera, Pietro Leemann compie il grande salto. E’ da sempre attento ad una cucina innovativa dove la carne e il pesce devono lasciare il posto a verdure e frutta, negli anni, dopo lunghi viaggi in Oriente, sterza decisamente verso una cucina vegetariana prima e vegana poi. Il livello è altissimo e la clientela e la critica lo premano. A Pieve d’Alpago, nel bellunese strabiliava Enzo De Prà che aveva lavorato presso i più grandi da Marchesi a Troisgros. Sulle rive dell’Oglio, siamo a Runate di Canneto sull’Oglio, un pescatore offriva il suo “raccolto” ai clienti, alla griglia, in frittura, poi il figlio Antonio Santini e la moglie Nadia iniziano a interessarsi del locale e nel giro di 20 anni lo portano al vertice della ristorazione, oggi i figli stanno prendendone il timone ed è di buon auspicio. A Firenze un sommelier, Giorgio Pinchiorri e la moglie francese Annie Féolde aprono con grande successo l’Enoteca Pinchiorri con una immensa proposta enologica. Al Sud, nel paradiso che sta tra Napoli e Amalfi, due giovani Alfonso Iaccarino e la moglie Livia decidono di sfidare la sorte e abbandonando l’albergo che gli Iaccarino conducevano, aprono il loro ristorante: Don Alfonso 1890, negli anni saranno loro a guidare la truppa di cuochi meridionali che conquisteranno le vette della ristorazione: Caputo, Esposito e tanti altri. Sul lago Trasimeno un cuoco, burbero quanto preparato, lancia le sue innovative proposte, è Gianfranco Vissani che trasforma la sua trattoria in “Casa Vissani” dove il ricordo del padre a cui lui deve molto è ancora oggi presente.

E a Brescia? Per qualche anno Brescia stenta a decollare ma all'orizzonte spuntano nuove stelle della ristorazione: Gino Gavazzi al Gambero di Calvisano, Franco Martini al Leon d’Oro di Pralboino, Alvaro Cerri alla Casa di Bedizzole, Graziano Cominelli alla Piazzetta di Sant'Eufemia, Pierantonio Ambrosi alla Vecchia Lugana di Sirmione, Emanuele Signorini all’Esplanade di Desenzano, Riccardo Camanini a Villa Fiordaliso di Gardone Riviera, Danilo Filippini alla Tortuga di Gargnano. Nel 1981 il capostazione di Iseo, Vittorio Fusari, il ferroviere Mario Archetti detto Archie, l’insegnante Giorgio Sgarbi vogliono diventare osti e aprono, trasformandolo, un vecchio negozio nel centro di Iseo. Inizia così la storia del Volto, un luogo magico dove si gioca a carte, si beve un calice di vino, ma all'ora di pranzo o di cena avviene il miracolo: si cucina! Diverrà con il tempo un locale cult che farà il paio con Le Maschere aperte da Vittorio Fusari e Roberto Gozzini di fronte, in un vicolo chiuso. Nel 1987 “sbarca” a Brescia un giovane bretone, si chiama Philippe Léveillé vuole lavorare come cuoco da Vittorio Fusari alle Maschere, dopo qualche altra esperienza approda nella cucina di Mary la mamma di Mauro Piscini che da qualche anno si sono trasferiti a Concesio. Qui impara la cucina del territorio e poi, lentamente, prende possesso della cucina, sposa Daniela sorella di Mauro. La sua cucina evolve in senso positivo fino a raggiungere le due stelle Michelin. Il Miramonti l’altro è ormai un punto fermo nella nostra ristorazione. All'orizzonte vi sono oggi dei nuovi cuochi che stanno lavorando molto bene come Stefano Baiocco, Stefano Cerveni, Nadia Vincenzi e altri. C’è speranza.

La prossima volta affronteremo un tema contemporaneo dove deve dirigersi la cucina del futuro?

Di seguito: Pellegrino Artusi, Alberto Cougnet, Ada Boni, Mirella e Peppino Cantarelli, Gualtiero Marchesi









giovedì 16 aprile 2020


Il cuoco ieri e oggi (prima parte dai Greco-Romani al Novecento)

Oggi trattiamo di una figura indispensabile per la nostra sopravvivenza: il cuoco (o la cuoca, cuciniera, resdora, come volete). Vi sono stati alcuni momenti nella storia dove questa figura subiva gli alti e bassi della situazione economica e cultural-religiosa del tempo. Indubbiamente è cuoco (usiamo il maschile per comodità, mentre ci rendiamo conto che, per millenni, ai fornelli ci stavano le donne) colui che sa preparare manicaretti deliziosi ma anche chi si limita a scopiazzare ricette altrui (chi non ha mangiato i famigerati risotti alle fragole o al kiwi, le pennette alla vodka, i tortellini alla panna, il carpaccio con grana e rucola). Ma veniamo alla Storia.
Nei secoli si sono succeduti migliaia di cuochi famosi: nell’antica Roma troviamo iscrizioni “pubblicitarie” nel Foro, dove venivano affittati i cuochi più in voga: Clodius, Antiochus, cocus tuscus, Marcius Faustus libertus, cocus optimus. Pare che i migliori venissero dalla Magna Grecia, in particolar modo dalla Sicilia dove era stata organizzata una scuola di gastronomia. Chi non ricorda la figura del cuoco nel Satyricon dove Trimalchione riprende severamente il cuoco che non aveva eviscerato il maiale, lo stupore sarà nel vedere uscire dal corpo dell’animale colombe in volo seguite da salsicce e altre leccornie, di questi tempi un cuoco poteva costare come un cavallo.

Nel Medioevo nascono i primi ricettari di cucina dominati dalle regole della Scuola Salernitana voluta da Federico II di Svevia (detto Stupor Mundi ma odiato dal papa perché dimostra di poter avere Gerusalemme senza fare la guerra), in questo periodo nascono i primi ricettari arabi, italiani, lusitani e poi francesi. Da questi libri si enuncia la tipologia di cucina più diffusa dove a predominare sono le spezie, lo zucchero, il miele, naturalmente per chi se lo può permettere. È qui che incontriamo Maestro Martino Rubeis (o De Rossi) ticinese ma conosciuto per secoli come Maestro Martino da Como che sarà l’ispiratore per il bibliotecario del Vaticano, Bartolomeo Sacchi detto il Platina, che con il suo De honesta voluptate et valetudine inonderà le corti europee, le ricette sono di Maestro Martino le prescrizioni dietetiche, igieniche, etiche, del Platina.

Sarà però il Rinascimento a darci i primi grandi cuochi, uno sopra tutti: Bartolomeo Scappi, famose le sue tavole dove vediamo l’organizzazione della cucina del suo tempo ma anche le conoscenze agroalimentari di un grande cuoco, la descrizione dei pesci è illuminante per completezza: stagione, luogo, utilizzo. L’Opera (questo il titolo del suo famoso manuale) resterà nei secoli a ricordarci il fasto del Rinascimento e con Cristoforo da Messisbugo scalco a Ferrara (mentre lo Scappi stava dal papa), si raggiunge l’apice dell’organizzazione del banchetto.

Con il Seicento ci si avvia al decadimento, le composizioni diventano più scenografiche da manieriste a barocche, si punta più a mostrare lo sfarzo che non la qualità degli ingredienti. Bartolomeo Stefani alla corte dei Gonzaga ci spiega che: con buoni cavalli e buone borse, tutto puoi portare in tavola. A Parma, dai Farnese c’è il palermitano Carlo Nascia, presso la Serenissima il romano Cesare Evitascandalo. Le raccomandazioni dell’Accademia Agraria fanno breccia in Vincenzo Tanara bolognese che pubblica: “L’economia del cittadino in villa”. Verso la fine del secolo Antonio Latini con “Lo scalco alla moderna” traccia le linee della cucina del secolo successivo tentando una concorrenza alla cucina francese ormai dilagante.

Nel Settecento un cuoco piemontese si vanta di essersi perfezionato a Parigi. Nel regno di Napoli i cuochi si chiamano con un chiaro gallicismo: monsù. Francesco Leonardi, romano, ma con esperienze europee di grande rilievo (Caterina II imperatrice di tutte le Russie), pubblica una ponderosa opera in sei volumi: “L’Apicio moderno”, una risposta alla nouvelle cuisine dei francesi. Da Napoli l’abate Vincenzo Corrado e il suo “Cuoco Galante” rispondono decisamente alle esigenze del nuovo che avanza, evidenziando le produzioni particolari del territorio partenopeo.

L’Ottocento vede avanzare, se pur timidamente, la cucina dei territori italiani (non delle regioni, che non esistono), di alcune città, i cuochi come Vincenzo Agnoletti alla corte di Maria Luigia, romano, attribuisce ad alcuni piatti parmigiani e piacentini le loro provenienze. A Napoli Ippolito Cavalcanti, duca di Buonvicino, al suo “Trattato di cucina teorico-pratica” unirà, verso la fine, ”Le quattro settimane secondo le stagioni della vera cucina casareccia in dialetto napoletano”. Questo secolo vedrà, timidamente, apparire ricettari locali, come quelli di Genova (Rossi e Ratto), di Milano (Luraschi) e innumerevoli cuochi locali anonimi, compreso quello bresciano del 1822. Sono i primi segnali del tentativo di riappropriarsi della cucina di casa, del proprio territorio, i termini usati sono ancora gallicismi, alla corte dei Savoia i menu sono in francese, bisognerà aspettare l’Unità d’Italia e la svolta del secolo prima che si abbandoni la lingua francese per adottare quella italiana. I Savoia si rivolgeranno all’Accademia della Crusca di Firenze per le corrette traduzioni e ne usciranno delle belle!

Siamo allo scadere del secolo, nel 1891 Pellegrino Artusi dà alle stampe “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene”, lo pubblicherà per vari anni a sue spese, le ricette iniziali sono 475, con la seconda edizione se ne aggiungeranno altre cento, per arrivare all’ultima e definitiva, del 1911, con 790 ricette. La cucina è regionale con così dovuta precisione e un linguaggio accattivante che ci fa capire che l’autore è un uomo di cultura, il libro, con gli occhi di oggi, mostra alcune carenze, non troveremo ad esempio, il pesto alla genovese e i pansotti, la pizza napoletana è un dolce, non vi è traccia di parmigiana di melanzane (che l'Artusi chiamava petonciani), non vi sono piatti siciliani o sardi, né la tiella pugliese ecc. Le cause le ha spiegate bene Alberto Capatti, i trasporti del tempo non erano agevoli, Artusi viaggiava perlopiù in treno o in carrozza. Prima della morte dell’autore, 1911, uscirà un libro del dottor Vittorio Agnetti: La cucina delle specialità regionali: Piemontesi, Liguri, Lombarde, Venete, Emiliane, Romagnole, Toscane, Romane, Napoletane, Siciliane e Sardegnole. Siamo nel 1909, l'Agnetti non usa certo il linguaggio forbito del banchiere di Forlimpopoli, le sue sono solo ricette ma rimedierà alle carenze della Scienza in cucina inserendo il pesto genovese, la pizza napoletana, rivalutando la fonduta piemontese che l’Artusi aveva sdegnosamente relegato a piatto di rimedio, la caponata e il baccalà che Artusi aveva segnato come indigesto e olezzoso.

Prima che vi addormentiate ci fermiamo qui, siamo ai primi anni del ‘900 e l’alta cucina italiana è alle portene parleremo nella prossima puntata.

Di seguito: Bartolomeo Scappi, la sua cucina interna, e quella da campo, Bartolomeo Sacchi detto il Platina, banchetto rinascimentale dipinto da Paolo Veronese.













mercoledì 15 aprile 2020


Un po' di nostalgia: le osterie di un tempo

Abbiamo un po' di nostalgia, certo, ma non siamo nostalgici, ci rendiamo conto che i tempi sono cambiati ma permetteteci, in questi tempi di riflessione, di ricordare quei posti di grande socialità che erano le osterie.

L’osteria non è solo quel luogo dove andare a bere un bicchiere di vino, è qualcosa di più. Intanto il vino va bevuto con gli amici, mai da soli, questo indica un primo grado di socialità. Fondamentale in questo locale la figura dell’oste (maschio o femmina che sia), una figura complessa, capace di coinvolgere, far socializzare, ascoltare anche le più intime confessioni, che, se è di statura morale ben salda, terrà per sé. L’osteria, come il caffè, è anche lo specchio della società dove le contraddizioni sono evidenti, e nell’osteria come nel caffè, possono nascere alleanze politiche e sindacali. Legami tra coloro che sono scontenti delle istituzioni, del potere, dell’usurpatore possono diventare nell’osteria compagni di cordata e alleati. Sono nati spesso sui tavoli dell’osteria piani di ribellione ai potenti, Tito Speri ha progettato i suoi piani insurrezionali antiaustriaci in numerose osterie, anche bresciane. 

Jacques Le Goff ricorda: “Nella città come nel villaggio, la taverna è il centro sociale per eccellenza. Siccome si tratta generalmente di una taverna banale, appartenente al signore, dove il vino o la birra sono per lo più da questi forniti e tassati, il signore ne favorisce la frequenza. Il curato invece tuona contro questo centro del vizio, dove il gioco d’azzardo e l’ubriachezza hanno libero sfogo e fanno concorrenza alle riunioni parrocchiali, alle prediche, alle funzioni religiose”. Gli avventori e frequentatori abituali erano guardati con sufficienza dai nobili e dai borghesi, le differenze di classe erano evidenti. L’osteria quindi è il luogo della cultura operaia e artigianale, transito dell’emarginazione e della criminalità, sede offerta alla politica del lavoro e all’eversione, è, per chi vi opera come per chi se ne tiene lontano, la scena di ogni dramma sociale. I socialisti erano detti “ciucialiter” d’altronde l’unico locale disponibile ad ospitare una sezione politica proletaria era l’osteria. Dopo la Grande Guerra uno slogan di Filippo Turati, socialista, era “libro contro litro”, per arginare un fenomeno diffuso.

Osteria è storia. L’anagramma di Gianni Mura è lì a ricordarcelo, qui trovano il luogo ideale i canti popolari, più o meno oltraggiosi, più o meno rispettosi, più o meno rivoluzionari. È la sede della tutela e propagazione del dialetto, della salvaguardia dei giochi popolari. Attraverso il dialetto si sono espressi tanti letterati di estrazione borghese o popolare ricordiamo solo i bresciani Angelo Canossi, Aldo Cibaldi e Angel Albrici. Fra qualche decennio ci sarà ancora qualcuno che saprà giocare a briscola o a tressette utilizzando quei segni di motilità facciale che usavano i nostri nonni? Si giocherà ancora alla morra o alle bocce? Il duro lavoro dei campi, delle miniere, della cave era stemperato con l’energica partita a bocce che aiutava egregiamente anche la digestione dello spiedo.

Ecco, il cibo, anzi il cibo e il vino. L’osteria non è certo la sede ideale per una mangiata principesca, anche se “Alle chiaviche” di Borgo Poncarale si potevano incontrare nobili europei e arabi con le loro odalische come racconta Paolo Pietta. Renzo Tramaglino si accontenta di poco, il Gatto e la Volpe invece sono più voraci. Io ricordo ancora un ottimo coniglio arrosto consumato in un’osteria del Carmine. In provincia, specialmente in Franciacorta e in Valsabbia, la domenica era di rito lo spiedo. Sentite l’Albrici:

“Sö le brase gira ’l spét,
che bun’aria profömada
nissü i passa per la strada
che resiste a vègner dét,
miga sul che per la sét”.

Hans Barth nell’epilogo del suo libro “Osteria, guida spirituale delle osterie italiane” del 1909 così esordisce: “Questo libro è un camposanto seminato di croci.  Un camposanto di illusioni e di… osterie”. Noi che apparteniamo a una generazione (ahimè) che ha visto all’opera gli osti e le ostesse, ha frequentato i licinsì come Cà d’Abramo e Genio a Mompiano, abbiamo consumato gli spiedi di Anna alla Campagnola di Salò, quelli del “Neghèr” di Gussago o di Graziella a Treviso Bresciano. Noi, dunque, sappiamo che all’osteria non ci sono solo gli spiedi ma anche i pesci dei laghi di Garda e d’Iseo, con grandi fritture di aole (alborelle) trote di lago e quei carpioni di cui piangeva, nel 1828, Heinrich Heine:

Restare senza carpioni è una disgrazia, la più grande dopo quella di perdere la coccarda nazionale. Ahimè, a che serve il lauro quando è scompagnato da carpioni?”.

La miseria, la fame sono rispecchiate bene nell'osteria che diventa un bacino di raccolta delle lamentele, spesso accorate come questa di Berto Barbarani poeta veronese:

" Fulminadi da un fraco de tempesta,
l'erba dei prè par 'na metà passìa,
brusa le vigne da la malatia
che no lassa i vilani mai de pèsta;
ipotecado tuto quel che resta,
col formento cha val 'na carestia,
ogni paese el g'à la so agonia
e le femene un pelagroso a testa!
Crepà la vaca che dasea el formaio,
morta la dona a partorir 'na fiola,
protestà le cambiale dal notaio,
una festa, seradi a l'ostaria
co un gran pugno batù sora la tola:
"Porca Italia" i bastiema: andemo via!”

Allora è tutto perduto? Un giorno di marzo del 1990 a Samboseto (PR) un gruppo dirigente di Arcigola si ritrova ai tavoli della più grande trattoria italiana, ormai chiusa da anni, e di fronte a Peppino Cantarelli, il vecchio titolare, dibattono sul tema “Osterie”. Ci si accorge che quei locali che noi settentrionali abbiamo in testa corrispondono, con altri nomi, ad altri di tante zone italiane. C’è chi la chiama cantina, chi fiaschetteria, hostaria, bottiglieria, taverna, bettola, crotto, grotta, bàcaro, furàtola, magazeno, trani, malvasia, pizzeria, mescita, gargotta, ma anche bistrot, brasserie, gasthaus, pub, ecc.
Nomi diversi con lo stesso obiettivo, rinfrancar lo spirito, dove, per noi italiani, lo “spirito” era il vino. I partecipanti alla riunione si rendono conto che indagare il fenomeno “osteria” poteva essere un riscatto identitario e se in quel luogo ci fossero prodotti locali, cibi e vini, di riconosciuta tradizione e qualità, allora bisognava assolutamente prendersene carico. Parte la ricerca e a novembre il risultato è un elenco di 800 locali per cui vale la pena soffermarsi. Inizia da qui “Osterie d’Italia, sussidiario del mangiarbere all'italiana una “guida” che riscuote ancora oggi tanto successo.

E a Brescia? Chi, come me ha molti anni sulle spalle, ricorda le due osterie che dividevano in fazioni i bresciani: la Grotta e il Frate. Di qua i ragazzi del Classico, di là quelli con l’eschimo. Di qua il Lacryma Christi, di là i fagioli con le cipolle. Poi ancora l’Antica Lelia, il Cantinone del Carmine, la Buca della stazione, in collina Citrìa (“ci trìa lei dottore, ci trìa lei che io non ci vedo” così si racconta l’origine del nome), il Brentatore. Il Pappagallo e il Pappagallino, Topolino, il Bianchi (la sua trippa), l’Osteria del Gas, il Zuavo, le Due Stelle (che baccalà, ragazzi). In provincia la Rossa a Desenzano, il Cantinone (ricordato anche da Barth) e la Crocetta di Salò, gli Angeli di Gardone Riviera, la Stella a Montichiari, l’Artigliere a Gussago, la Gina e il Sindic a Rovato, il Sole a Clusane, la Colombina a Gambara (regno del Clinto), il Miramonti a Caino (che spiedi!). Ora raramente ritroviamo quel clima, ma alcuni si sforzano di riproporre l’ambiente (oggi più pulito) e i piatti di un tempo. Lo spiedo davanti al camino lo troviamo ancora all’Antico Sole di Botticino, le polpette da Maurizio alla Villetta di Palazzolo, il pesce di lago, anche il carpione talvolta, alla Locanda Benaco di Salò, le erbe di montagna da Lamarta di Treviso Bresciano, i casoncelli alla Stella di Longhena e via sperando.
Chiudiamo fiduciosi con un “Ci vediamo da Mario, prima o poi”.

A seguire: il gioco delle osterie bolognesi di Metelli (XVII sec.), interno di osteria, l'Osteria del tempo perso ai Castelli Romani, un'osteria della Bassa Bresciana





La polenta dei bresciani

Approfittiamo di queste, ultime speriamo, giornate freddine per scaldarci con quell’impasto che da alcuni secoli imperversa sulle nostre tavole: la polenta. Dal ‘600 quando le nostre genti capirono che questo alimento poteva sopperire alle carenze alimentari quotidiane, tutti i giorni, mattina e sera, fu polenta. Poeti e medici furono portatori sani di questo manicaretto, poesie, canzoni, consigli e ricette, riempirono le nostre dispense e dei nostri vicini soprattutto veneti, ma non solo, poiché tutto l’arco alpino ne fu invaso. Nacque prima il sostantivo, che la ricetta odierna, come ci ricorda Agostino Gallo nel 1569 con questo recipe:

“Vi prego Scaltrito mio che mi diciate l’ordine che si tiene nel fare questa polenta.
[…] A farne per tre persone si piglia tre libre fin quattro di farina di miglio per la mattina, ed altrettanta per la sera (lasciando sempre quella di frumento per non far così buona polenta, ed anco perché si digerisce facilmente) ponendola nel caldarino che bolle al fuoco con cinque o sei libre d’acqua; facendovi due tagli in croce con un bastone, acciocché ella maggiormente possa passare la farina sino in cima, lasciandola poi bollire finché si gonfia, e si distacca dal fondo…”

Ecco alcune poesie celebri, Antonio Buccelleni emulo di Cesare Arici e come lui traduttore dell’Eneide:

… La manca stringe del paiuolo il curvo
Ferreo sostegno; indi la destra afferra
Ramo rimondo e schietto, e la tenace
Pasta convolge, e la rovescia, e preme
Alle pareti dell’ignito vaso
Insin che pura esca la canna; e tolta
D’insù la brage e capovolta versa
In bianco lino la ritonda massa.

Agostino Basco, 1801:

“Canto la gloria della gran Polenta
(Messiù, Madam, Nobiltà riverita)
Canto la gloria della gran Polenta
Pietanza eccellentissima squisita,
Ch’empie la panza, e ognun sazia e contenta,
Che ognun ne ingolla, e léccasi le dita;
Delle pietanze Domina e Regina
Fatta al foco, con sal, acqua e farina…”

Elogio della polenta di Clemente Bondi poeta parmigiano:

“Cresce nei nostri campi un seme eletto,
che grosso e lungo ha il gambo, ampia la fronda;
dal paese natìo “granturco” è detto,
e mette al maturar pannocchia bionda…”

E infine, La Canzone della Polenta, musica di Luigi Denza, che definisce il territorio di appartenenza:

¯Un bel dì fra l’Oglio e il Brenta
saltò fuori una polenta¯

Tutto bene, no! L’assenza, spesso o quasi sempre, di accompagnamento (verdure, formaggi, carni) favorisce la pellagra, una grave malattia da carenza vitaminica e proteica. Numerosissimi furono gli studi sull’improvvisa malattia e alcuni notarono come in America questa malattia non esistesse: qual era il punto? Dove stava l’errore? La risposta arrivò quando la malattia comparve, ai primi del Novecento, anche in America e si comprese che la causa era stata l’introduzione di macchinari moderni che raffinano i semi e distruggono le vitamine del chicco, il che non succedeva usando l’antichissimo metodo dei nativi americani “entre dos piedras” (tra due pietre) usato fino allora. Oggi per fortuna la polenta è solo l’indispensabile accompagnamento di alcuni piatti bresciani come spiedi e arrosti; umidi, brasati e stracotti; baccalà; salmì vari; tinche e altri pesci ripieni; ai bambini piace versare il latte freddo nel paiolo con i residui della polenta appena fatta; gli adulti invece racchiudono all’interno della polenta pezzetti di formaggio grasso bianco o verde, formano una palla (la balòta) e la mettono sulla graticola finché i formaggi racchiusi all’interno non siano ben caldi e sciolti, quindi la dividono a metà e la portano in tavola. Con la polenta si sono inventate ricette di ogni genere chiamandole “pasticci”, dato che gli ingredienti variano a seconda degli avanzi di cucina o della fantasia della cuoca. La base è sempre la polenta avanzata e tagliata a fettine più o meno spesse; i condimenti sono, di volta in volta:

• ciccioli di maiale (grèppole) • salumi, lardo e formaggi• strati di stracchino e prosciutto cotto• strati di funghi al burro e rigaglie di pollame• besciamella, funghi trifolati, formaggio nostrano

Sul tipo di farina da usare, è bene rispettare le consuetudini dei territori che manifestano tradizioni diverse tra loro. Qualcuno preferisce la farina cosiddetta “bramata” (lo trovate scritto sul sacchetto) molata un po’ grossa. Altri preferiscono il “fioretto”, macinata fine, altri ancora mescolano tra loro le due farine. In alcune località si usa aggiungere alla farina gialla un pugno di farina di grano saraceno. Sta tornando in auge anche l’uso di farine integrali, macinate a pietra e di mais selezionati, di mais antichi. Insomma, la polenta è ancora protagonista del pranzo.

Con la polenta potete esercitare la fantasia o approfondire la tradizione di polente taragne o tiragne, pasticciate, fare degli gnocchi, dei nidi di polenta con uova e funghi, insomma da piatto quotidiano e un po' forzato a una prelibatezza, ma ricordate:

Per fare una polenta come si deve, occorrono le modalità e gli arnesi di un tempo, poi acqua salata, farina di mais e l’ingrediente principale: l’olio di gomito.

Di seguito: il paiolo, la polenta appena fatta, la balota ripiena, la polenta pasticciata

















Motti e proverbi della penuria alimentare, ovvero il “mangiarcattivo”

Di questi tempi potrebbe essere utile ripercorrere il nostro cammino alimentare, quello che nel passato era la quotidianità che oggi abbiamo dimenticato, ma che, per i più giovani, sarà un utile esercizio di riappropriazione di ciò che è l’essere umano e per ripensare a un futuro di consapevolezza.

Se oggi il diffuso benessere rende il cibo comunemente disponibile (oggi è tutto grasso che cola), non va dimenticato che fino a tempi non lontanissimi ad essere in voga era il “Menù di casa Pochètti: lü ‘l lèss töcc i dé, lé la soprèssa e ai gnari quater gnòc” (lèss=lesso,legge, soprèssa=salame,stira, gnòc=gnocchi,scapaccioni), e per molti il desinare era una penitenza, come ricorda la frase: “Se ulif fa penitènsa con mé…” (se volete gradire). Certo, la situazione era diversa tra città e campagna: spesso era soprattutto la città, e in essa naturalmente i poveri prima di tutti, a soffrire di carenza di materia prima. In campagna, invece, “èl paesà, o fé o pàia, ergóta ‘l maia”.

Per invitare alla “Diaeta Parca” (perché “sac vöt nó ‘l sta ‘n pé”, ma “sac pié nó ‘l sé piéga”) si escogitavano mille trucchi, come quello di disegnare un diavolo nel fondo della zuppiera: poteva capitare, allora, di “troà èl diaol sol fónd dè la basia” come monito dell’aver mangiato troppo, per cui si va diritti all’inferno. Un altro motto recita: “golusità dè bóca, pintìt tè tóca”, e ancora: “a osèl engùrd ghè sciòpa ‘l gós”. Il pane bianco era spesso un miraggio. Chi ne consumava usava produrlo con farine povere come la segale, ma si utilizzavano anche miglio, orzo, panìco, farro e perfino farina di fave e ceci ma anche patate, “èl pà del poarì èl gà trè gröste”. Per la polenta, importante era avere il tòcio, o almeno qualche accompagnamento, quali potevano essere il latte, gli avanzi di formaggio, l’aringa appesa ad un filo in mezzo al tavolo perché durasse di più (polenta e picà sö).

Se, specialmente la sera, ci fosse stata la minestra, questa avrebbe potuto essere stata fatta con brodo di fagioli o con quello del cotechino (“i sé lamènta dèl bröt gras”). La qualità del cibo, insomma, lasciava parecchio a desiderare. D'altronde: “chèl che l’è mia bù, èl va nèla masöla”. Per risollevarsi da queste cene “luculliane” si sostava all'osteria. Se non fosse stata proprio“a l’osteria dèl triilì, che no ghè gna pà gna vì”, si sarebbe dovuto, comunque, fare attenzione perché era risaputo che “èl vì fì nó ‘l ghè al licinsì”, e che “i ostér i è töcc èmbruiù, i mèsc-ia èl vì có l’acqua e lur i béf chèl bù”.

Qualche volta, certo, in occasioni importanti come i matrimoni, ci si permetteva di esagerare. In queste feste a prevalere era la gioia del desco, e si aveva così la rara opportunità di mettere in pratica una norma di dietetica popolare come: “Mangià come ‘n bò, beèr come ‘n àsen e pisà come ‘n cà, sè manté l’òm sà”.

Di seguito: il menu di Casa Pochètti, scarsezza e penuria dal dizionario, la vecchia contadina e la lavandaia di Giacomo Cerutti il Pitocchetto