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giovedì 11 novembre 2021

Un direttivo effervescente!

Ieri si è svolto presso l'Osteria dell'Angelo di Gussago il Direttivo della nostra associazione. Si sono dibattute alcune idee portate da Marino Marini. "L'accoglienza di queste novità è stata molto positiva", ha commentato la Presidente Emanuela Rovelli. Per cui siamo qui a rendervi conto di cosa abbiamo progettato per i prossimi anni.

1. L'abbiamo voluta chiamare G.IT.A. perché richiama  la voglia di uscire, stare tra gli altri e trascorrere in serenità una giornata particolare. Perciò chiediamo a gran voce in nome delle sofferenze provate a causa dell'epidemia, chiediamo che venga istituita la

"GIORNATA ITALIANA DELL'ACCOGLIENZA"

G.IT.A. appunto. Lo chiediamo alle istituzioni, in primis al ministro Patuanelli che, come il ministro Franceschini ha dichiarato il 24 ottobre Giornata Nazionale della Cultura, si proceda a riconoscere ai protagonisti della ristorazione e della ospitalità un pari riconoscimento. Proponiamo che questa giornata si svolga la seconda domenica di marzo di ogni anno. La data è stata scelta per ricordare l'inizio della pandemia con la chiusura dei locali pubblici ma anche l'imminente arrivo della primavera, della voglia di uscire, di ritrovarsi, di organizzare appunto una GITA. Sarà per noi occasione di mostrare la via italiana dell'accoglienza, prerogativa del nostro mestiere. Abbiamo già ottenuto il consenso di Slow Food Brescia ma presto si uniranno a noi i ristoratori bergamaschi e tutti gli operatori del settore. Questa richiesta non ha un costo economico che gravi sui cittadini ma un riconoscimento alle attività dell'ospitalità italiane, dai Bar agl Agriturismi, dalle Pizzerie alle Osterie, fino agli Alberghi e Locande italiani. Presto una conferenza stampa ne lancerà la proposta.

2. L'avevamo già accennato nei mesi scorsi, adesso lo ribadiamo: in accordo con le rappresentanze del territorio, Comunità montane e di pianura, Consorzi di tutela, Amministrazioni locali, Locali pubblici, Pro-loco, desideriamo dar vita alla

"VIA LATTEA BRESCIANA"

Un patrimonio che raggruppa centinaia di produttori (sono 40 i formaggi bresciani che hanno ottenuto un riconoscimento pubblico DOP, PAT, Presìdi Slow Food ecc.). Un settore, quello caseario bresciano, che vanta una storia antichissima e che deve essere una delle attrattive agroalimentari di forza della nostra provincia a partire dal 2023, Capitale della Cultura ma che proseguirà anche dopo dando alla nostra provincia una forza agroalimentare di forte attrattiva. Attorno a questa iniziativa si raccolgono attività commerciali e luoghi storici (pensate alle malghe, ai silter gli antichi luoghi di raccolta) che denotano le attività arcaiche del nostro territorio. Chiediamo di unire le forze con i cugini bergamaschi che hanno nel loro territorio identiche tradizioni tanto da essere indicati attraverso i loro formaggi Città Creativa della Gastronomia. Un patrimonio gastronomico storico che unisce l'ambiente al lavoro e alla produzione, ma che vuole sottolineare anche le bellezze naturali dei luoghi e le notevoli presenze artistiche. Si può pensare a un Distretto del Cibo, in questo caso la produzione casearia. ma anche, nelle zone riconosciute, al marchio Prodotto di Montagna un'attestazione, questa, pubblica a cura del Mipaaf. Anche in questo caso è indispensabile il supporto di Camera di Commercio, Provincia e Comune di Brescia e tutti gli operatori del settore caseario e dei locali pubblici che potranno diventare la vetrina del comparto.

3. Un decreto ministeriale MIPAAF (Ministero dell'Agricoltura) del 2017 a firma del ministro Maurizio Martina ha istituito l'Inventario Nazionale del Patrimonio Agroalimentare Italiano (INPAI) due finora i riconoscimenti: alla Pizza e ai pizzaiuoli napoletani e ai Pici e l'arte di appiciare del territorio di Montalcino (SI). Noi chiediamo e faremo apposita richiesta che venga riconosciuto come patrimonio agroalimentare italiano

"LO SPIEDO, L'ARTE DI SPIEDARE E CUOCERE SULLE BRACI"

Chiediamo che sia inserito nell'inventario nazionale il nostro piatto simbolo che coinvolge quasi tutta la provincia di Brescia e che è un nostro acclamato modo di cuocere le carni con l'aiuto di uno strumento antico di secoli per il quale si era attivato, con una sua proposta, perfino Leonardo da Vinci. Anche in questo caso la richiesta va supportata dalle istituzioni bresciane. Slow Food Brescia ha già dato il suo appoggio alla richiesta.

4. Ai ristoratori associati chiediamo di procedere alla stesura di un volume che abbiamo voluto intitolare:

"LA NOSTRA CUCINA BRESCIANA"

Non un semplice ricettario ma una rassegna dei piatti e delle proposte culinarie che i nostri associati dedicano alla loro clientela in forma tradizionale, innovativa o anche sperimentale. Nelle ricette dovranno essere presenti alcuni prodotti del nostro territorio in modo che il ricettario sia anche da traino per le produzioni locali che il ristoratore promuove. Il ricettario dovrà essere utile al cliente e consumatore e le ricette riproducibili anche nella propria cucina di casa. A noi spetterà il compito di renderle uniformi nel linguaggio e ai ristoratori chiediamo di sommergerci di ricette in modo che il lavoro sia di alto livello e di forte apprezzamento. Ogni ristorante che invierà le sue ricette vedrà queste  pubblicate in una o più pagine dove il suo locale troverà una scheda di rappresentanza con foto e le indicazioni di rito.

Speriamo di aver avuto la vostra attenzione e che queste proposte trovino presto attuazione nell'interesse non solo della nostra categoria ma del territorio tutto.

Nelle immagini: Il logo dell'Arthob, i Formaggi bresciani, il percorso della Via Lattea Bresciana.













lunedì 30 agosto 2021

 


Il sapere di una volta, quanto è affidabile?


        Al contadino non far sapere, quant’è buono il formaggio con le pere. Oppure: la maionese non si monta se giri il mestolo al contrario. Sono sedimenti culturali legati al cibo che derivano da secoli di esperienza/scambio ma anche di conoscenza relativa attorno alle trasformazioni degli alimenti attraverso la meccanica, la chimica, il calore. In realtà, nei secoli passati l’astrologia e l’astronomia venivano confuse e sovrapposte. I contadini erano influenzati dalla luna e dai suoi movimenti, perché le fasi lunari sono caratterizzate dall’esposizione del nostro satellite al sole e quindi dalla sua luminescenza. È proprio questo chiarore semmai a influenzare gli animali che vivono in natura, non certo l’uomo di oggi. Già al tempo degli antichi romani si consigliava di tagliare unghie e capelli a luna calante per rallentarne la crescita, ancora oggi sono in distribuzioni calendari lunari che insegnano il rispetto delle varie fasi. Il famoso detto: “gobba a levante, luna calante, gobba a ponente luna crescente” va spiegato nel senso che la “gobba” sunnominata è la parte scura della luna, mentre l’altra parte si chiama “falce”. Come vedete dall’immagine sottostante ponendo l’est alla vostra destra vediamo che la gobba, dopo la luna nuova lascia il posto alla falce, quindi, la luna “cresce” fino a raggiungere la fase di luna piena. Quando la luna si sovrapporrà al sole resterà completamente in ombra, alla nostra vista e la chiameremo nuova, perché inizia una nuova fase di crescita.

Queste supposizioni hanno dato vita e numerose credenze popolari riferite principalmente all’agricoltura e alla coltivazione delle verdure e alla cura della vite. Un sito web afferma perentorio:

“Diversi studi hanno evidenziato il fatto che nel periodo di Luna piena è molto maggiore l’incidenza di rapine, incidenti, omicidi, suicidi, ecc. rispetto ad altri periodi. Durante la Luna piena, inoltre, la gente è generalmente più agitata, più caotica, più nervosa, motivo per cui è molto importante comprendere e considerare questi cicli lunari e affrontarli in maniera cosciente. Per esempio, nelle 36 ore del periodo di Luna piena (18 ore prima e 18 ore dopo il momento massimo di Luna piena) è consigliabile evitare i viaggi, le escursioni, qualunque tipo di attività che implichi un certo rischio per la nostra vita o per la nostra salute”.

È entrato anche nel linguaggio comune definire “lunatica” una persona con repentini sbalzi di umore. Notoriamente anche il “lupo mannaro” appare con la luna piena.

        Anche il modo del cibo e del cucinare è stato influenzato da modi di dire che hanno poco a che vedere con la gastronomia, “la scienza dello stomaco” come diceva Brillat-Savarin. Si sommano qui credenze religiose, miti pagani, leggende più o meno metropolitane, paradossi, riti vudu fino ad arrivare alle famigerate “fake news”. Facciamo qualche esempio, mia nonna, mi rimproverava se lasciavo il pane rovesciato sul tavolo, era un segno di disprezzo verso il “corpo di Cristo” secondo gli uomini di mare invece il pane rovesciato era il simbolo dell’imbarcazione sfortunata, al pane si attribuiscono simbologie varie come il taglio a croce sulle pagnotte prima dell’infornata, secondo il fornaio serve a far cuocere e lievitare meglio il pane altri ne vedono un simbolo religioso.

Scrive il prof Giovanni Ballarini nel suo libro “La regina Margherita mangia il pollo con le dita”:

“In Italia, terra di tradizioni e credenze popolari, non mancano superstizioni, antiche e moderne, diverse delle quali riguardano gli alimenti, la cucina e la tavola. Soprattutto nella cultura contadina, la superstizione è una forma di interpretazione magica della realtà per valutare eventi, azioni o fenomeni, per cercare di prevederli e modificarli, negativamente o positivamente, serve a dar senso agli aspetti più oscuri e sfuggenti del mondo, della natura, della società e soprattutto aiuta a riconoscere e controllare le ansie, paure e insicurezze, dando loro un volto, una forma e persino un numero”.

Le fasi lunari coincidono con il ciclo mestruale della donna ecco allora la proibizione di fare la maionese, toccare il pane sennò non lievita e con un detto romagnolo: “se quand t’mez e’ porc la dona l’ha e’ su mes, mandla a spass par e’ paes”, (se quando ammazzi il maiale la donna e mestruata mandala a spasso per il paese).

Con la pigiatura dell’uva a luna crescente, la fermentazione del mosto è più rapida, con luna calante la fermentazione più lenta e regolare. Il travaso e l’imbottigliamento vanno fatti a luna calante. Con l’imbottigliamento effettuato a luna crescente, il vino non è stabile, può riprendere la fermentazione in bottiglia e il vino può intorbidire. Per un vino che sia e rimanga frizzante, bisogna imbottigliare a luna crescente. Sempre per il vino spumante vi è la leggenda metropolitana completamente falsa che un cucchiaio d’argento infilato nel collo di una bottiglia lo mantiene frizzante!

Dice un detto napoletano: “Essere superstiziosi è da ignoranti, non esserlo porta male”.

In cucina ho visto aggiungere nella pentola di cottura del polpo dei tappi di sughero, dicevano per rendere più tenero il polpo, in realtà il motivo era più semplice: il polpo era legato con lo spago al quale era collegato il sughero che serviva per ritirarlo a cottura avvenuta, un po' come si fa con il mazzetto guarnito o le verdure del bollito.

        Ci sono poi leggende metropolitane dure a morire di cui non si conosce la provenienza ma sono diffuse in gran parte del nostro Paese come il consiglio di non pulire mai la caffettiera convinti che la patina che si forma tenga lontano il sapore di metallo; in realtà a formarsi sono degli oli che a lungo andare irrancidiscono, quindi, meglio eliminarli con una pulitura dolce con detersivo delicato e abbondantemente sciacquata. Altra leggenda riguarda la Coca Cola che darebbe dipendenza. All’inizio era considerata un coadiuvante farmacologico e venduta in farmacia e il suo composto prevedeva piccole quantità di estratto di coca. Oggi non è permesso e quella che chiamano dipendenza è dovuta alla presenza di caffeina un eccitante che se consumato in forte dosi può causare eccitamento eccessivo e dipendenza. Da qualche anno è stato sfatato il mito del contenuto in ferro degli spinaci, nato attorno a una pubblicità che, complice Braccio di ferro, voleva spingere i bambini a mangiare più spinaci. Attorno ad alcuni cibi detti “afrodisiaci” si sono scritti numerosi volumi, stranamente quasi tutti favorevoli, forse perché scritti in prevalenza da uomini di una certa età. In realtà in alcuni alimenti si sono trovati ormoni androgeni e feromoni che potrebbero favorire l’attività sessuale ma sono pochi, non eccitatevi!

Attorno ai funghi si sono scatenati i consigli degli “intenditori” non seguiteli, portate i vostri funghi a un centro micologico per sicurezza, con alcuni funghi non c’è da scherzare. Anche i nostri innocui chiodini possono essere confusi e pure quelli buoni (famigliola buona) possono dare disturbi, il consiglio è di eliminare i gambi fino a un cm dal cappello, sbollentarli se volete conservarli in congelatore o cuocerli almeno trenta minuti e il problema è risolto.

Il primo aprile 1957 la BBC di Londra annunciava una eccezionale raccolta di spaghetti al sud del Canton Ticino con tanto di video delle signore atte a raccogliere gli spaghetti e portarli verso la cucina. Cercate il video su YouTube. Era, naturalmente, un “pesce d’aprile”.

Non è invece uno scherzo leggere su alcuni prodotti: latte di soia, tofu ovvero formaggio di soia, bistecche di soia, salsiccia vegana, gamberoni vegani ecc. Questo turlupinare il consumatore usando termini ambigui è molto diffuso come sono molto, troppo, diffusi nel mondo prodotti contraffatti che si definisce “Italian sounding”, il fenomeno consiste nell’uso di parole così come di immagini, combinazioni cromatiche (il tricolore), riferimenti geografici, marchi evocativi dell’Italia per promuovere e commercializzare prodotti – soprattutto ma non esclusivamente agroalimentari – che in realtà non sono Made in Italy.

Chiudiamo con una pratica contadina bresciana ma diffusa da secoli in tutta l’Italia. Per conoscere in anticipo il clima dell’anno nuovo, il 24 gennaio bisogna mettere fuori dalla finestra dodici spicchi di cipolla con sopra del sale e appoggiati sopra un tagliere di legno. Ogni spicchio rappresenta un mese dell’anno e da come varia il loro aspetto e colore, e da come assorbono il sale, si prevede il tempo di ciascun mese. Ma non basta occorre anche guardare al tempo che va dal 1° gennaio al 12 (ogni giorno corrisponde a un mese) e poi controllare, a ritroso, da dicembre a gennaio, il tempo che va dal 13 al 24. La mattina del 25, tra le 5 e le 6 si controllano gli spicchi di cipolla e, secondo il sale assorbito si conoscerà il tempo meteorologico di quel mese, il tutto va eseguito nel giro di 15, 20 minuti per non alterare l’oracolo.

Nelle illustrazioni: le fasi lunari, il lupo mannaro, l’albero degli spaghetti, il parmesan.








venerdì 23 luglio 2021



I surrogati e l’originale


        Trattando della storia di Lanital mi sono venuti alla mente, alcuni li ho citati, molti altri surrogati, per cui l’azione di surroga o surrogazione non è così comprensibile immediatamente a tutti. Occorre quindi distinguere tra surrogati alimentari e non. Molto sviluppato il settore delle fibre artificiali in sostituzione di quelle naturali animali (lana, seta) e a quelle vegetali (cotone, lino, canapa ecc.). La fabbricazione di queste fibre, più costose, era soggetta a rischi dovuti a malattie o a condizioni climatiche e ambientali, a situazioni geopolitiche, a guerra e così via. Iniziò così un’alleanza tra chimici e tessili che produsse nuovi tessuti, meno costosi, e quindi più commerciabili come il raion che prese il posto della seta, il lanital di cui abbiamo già raccontato in sostituzione della lana, alcune di queste come il fiocco si usava miscelarle a quelle naturali in qualche caso migliorandone le caratteristiche. Di sicuro la loro diffusione fu ampia, tessuti, vestiti, calze, fino a quel tempo prerogativa delle classi sociali più abbienti, fecero la loro apparizione negli armadi delle classi più povere che abbandonarono così i rozzi tessuti fino ad allora di loro tradizione. Alcune fibre artificiali diedero vita a nuove fibre come il cellophane usato nell’industria alimentare. In alcuni casi avremo fibre artificiali di origine animale (lanital) o vegetale (raion o rayon) e anche fibre di sintesi come il nylon scoperto nel 1937.

Fu soprattutto la politica autarchica, intrapresa dal governo dal 1936, a dare un notevole impulso al consumo di fibre tessili artificiali, agevolando anche lo sviluppo di nuovi impieghi. I filati artificiali, spesso mescolati alla canapa, sostituirono il lino e il cotone nella biancheria e vennero utilizzati in ampia misura anche nell'abbigliamento estivo. Nella produzione di abiti da uomo furono usati tessuti di raion, fiocco, lana e lanital. Per la cronaca: a usufruire maggiormente delle fibre artificiali o sintetiche furono gli ombrelli che da quegli anni non furono quasi più prodotti con fibre naturali come seta e cotone.

Durante la Prima guerra mondiale, la flotta della Triplice intesa impediva l'arrivo di trasporti via mare in Germania; nacquero così molti surrogati (ersatz, che divenne anche la parola inglese poi surrogate), come la gomma sintetica (Buna della società tedesca IG Farben, prodotta dal petrolio), il benzene per il riscaldamento, la nitrocellulosa e l’amianto per usi diversi.

Chi si ricorda la galalite, estratta dalla caseina del latte, una compatta e resistente simil-resina che sostituiva bene il corno naturale, l'ambra, l'avorio, la tartaruga e il corallo, di questo materiale erano fatti i bottoni, i telefoni, gli interruttori e tanto altro.

Carl Scholler negli anni Trenta riuscì infine ad ottenere industrialmente grandi quantità di alcool, lievito e tannino utilizzando i soli cascami del legno, con l'aggiunta di acidi diluiti in soluzioni zuccherine al quattro per cento. Somministrando un terreno di cultura di sali di potassio, azoto, magnesio e fosforo, i fermenti hanno modo di riprodursi, e in tal modo lo scienziato ottiene, da 100 chili di trucioli di legno, ben 25 chili di lievito secco alimentare, ricchissimo di proteine (56% di «albumine», come le chiamavano allora). I due terzi della legna secca dei boschi potrebbero essere trasformati in prodotti energetici di importanza strategica: zucchero alimentare greggio (poi convertito in glucosio raffinato) e foraggio. Anche le patate in quegli anni vengono sempre più trasformate prima in fiocchi secchi a prova di conservazione e poi in zucchero di sintesi e in alcool. Da qui la battuta: spirito di patata.

Due chili e mezzo di pezzetti di legno o di segatura grossa sostituiscono un buon litro di benzina. La cellulosa del legno veniva essiccata e imbevuta di lisciva di soda, e poi ridotta in una massa fibrosa dall'aspetto di segatura. Questa massa, mescolata con solfuro di carbonio dà lo xantogenato, che a sua volta sciolto in lisciva di soda diluita origina la viscosa, un liquido sciropposo che è filtrato e lasciato maturare per molti giorni prima di essere trafilato attraverso trafile di metallo. che contano da 50 a 800 fori. Boschi interi furono trasformati in calze di seta da donna, in cravatte e luccicanti vestiti da ballo. I primi pneumatici per automobili di caucciù artificiale, il duprene, apparvero sul mercato degli Stati Uniti nel 1934.

“Diffidare dalle imitazioni” avvertivano le etichette di certi prodotti affermati; ma in realtà l'industria e l'artigianato dell'epoca erano in grado di imitare un po' tutto, dall' aceto di vino al miele d'api, dai liquori al caffè, al vino d'uva.

Fu creata e diffusa negli anni Trenta in America (l’era del proibizionismo) la cosiddetta «birra di temperanza», dapprima pensata per quaccheri, musulmani e igienisti, poi indirizzata un po' a tutti come bevanda alternativa non alcoolica. Si scioglie in acqua un estratto sciropposo di malto d'orzo torrefatto, si aromatizza e insaporisce con estratto di fiori di luppolo e si rende più spumeggiante incorporando anidride carbonica. Questa birra, però, si altera con facilità se non viene pastorizzata.

Il burro di latte era surrogato da un miscuglio di sego bovino, strutto di maiale, burro di cocco, grasso di balena e margarine varie. Le margarine ebbero proprio in quegli anni la loro prima stagione d'oro. I grassi animali e vegetali incommestibili venivano idrogenati per renderli palatabili e commercialmente interessanti, corretti con tracce di latte inacidito, gelatina animale, caseina, sciroppo di glucosio, perché il surrogato schiumeggiasse e imbrunisse alla fiamma come il vero burro.

Dalle imitazioni del cioccolato e del caffè sa tutto anche l'epoca moderna. Il primo era ed è surrogato da farina di polpa di carruba, grassi vegetali e pasta di nocciole (tipo «Nutella»); il secondo da cereali misti tostati, radici (bardana, cicoria radicchio, rape, barbabietole), frutti (fichi datteri, carrube, arachidi e perfino fagioli arrostiti).

Scrive Giovani Ballarini sulla rivista dei Georgofili:

“I surrogati alimentari sono quei cibi che per somiglianza di sapori, apporto calorico, e proprietà organolettiche vanno a completare o sostituire una dieta tradizionale generalmente in situazioni di crisi alimentare. Alcuni esempi: al posto del tè, ovviamente di importazione inglese, si propone il karkadè, infuso importato dalle colonie italiane. Il caffè venne sostituito da orzo. Quando nel 1939 è vietata la vendita della carne per due giorni a settimana (tre giorni nel 1940) si invita la popolazione a mangiare pesce e in generale si promuove il consumo di coniglio. Per fare il pane si miscela la farina di grano, con quella di mais. Alla pasta si sostituisce il consumo di riso, anche in province dove non era abitudine consumarne”.

Potremmo chiamarli surrogati, imitazioni, succedanei, sofisticazioni, falsificazioni, termini che usiamo attribuire a quei Paesi che imitano i prodotti altrui, come la Cina ma non solo anche il Brasile, gli USA e tanti altri paesi. Lo chiamano italian sounding (suono italiano) perché a imitazione dei nomi italiani circolano nel mondo prodotti alimentari come: parmesan, parmesao, reggianito, Bordolino (bianco e rosso), Kressecco ecc. Ormai la produzione di questi alimenti supera quella degli originali.

Surrogato può essere interpretato anche in modo estensivo e figurativo, con riferimento a cose varie, anche non materiali, ciò che sostituisce un’altra cosa in modo imperfetto vediamone alcuni:

surrogati della moneta, nel linguaggio economico e commerciale, come le cambiali e i titoli di stato;

surrogare il mutuo, cioè passarlo a un altro istituto di credito a condizioni più favorevoli;

questa non è cultura, è solo un suo surrogato;

Il camper o la roulotte sono i surrogati di un’abitazione;

anche la maternità può essere surrogata;

le bambole o gli animali domestici possono essere i surrogati dei figli;

“scrivere era per lui un surrogato della forza vitale che infuriava sul mondo nei mesi del sole” scrive Pietro Citati.

Alla Fondazione Prada a Milano nel 2019 si è tenuta una mostra dal titolo: “Surrogati. Un amore ideale”. Attraverso una selezione di 42 opere fotografiche di Jamie Diamond (Brooklyn, USA, 1983) ed Elena Dorfman (Boston, USA, 1965), il progetto esplora i concetti di amore familiare, romantico ed erotico. Entrambe le artiste scelgono un aspetto specifico e insolito di questo tema universale: il legame emozionale tra un uomo o una donna e una rappresentazione artificiale dell’essere umano.

Diffidate dunque dalle imitazioni e preferite gli esemplari originali siano essi persone, cose, alimenti, denaro, pensieri e idee.

Nelle immagini; Riso italiano; Cucina autarchica; Non togliete il pane; Okebon; Fake Food; Il falso è servito; Bambola, Cane vestito, Prego italian sauce, Parmesan












sabato 17 luglio 2021

 

Vestirsi di latte di mucca e andarne fieri

                Ferretti Antonio Carlo è nato a Gavardo nel 1889, primo di 10 fratelli, il padre è stato per vari anni sindaco del comune di nascita della famiglia. Giovanissimo, a causa della malattia del padre, si trova a condurre l’azienda di laterizi. Con l’entrata in guerra nel 1915 si dovette poi reinventare le attività dell’azienda che trasformò in azienda bellica e meccanica per la fabbricazione di artiglieria terrestre e marina. Dopo la guerra il matrimonio e il trasferimento a Milano dove si fece notare per le sue notevoli capacità inventive e manageriali (mobili per ufficio, stoffe per cappelli, cascami di pelle rigenerata che passò poi a Pirelli). La grande richiesta di prodotti sintetici e artificiali, di surrogati di materie prime, scarse in Europa, mise all’opera il suo genio creativo. Nel 1924 si mise allo studio per ottenere sinteticamente una lana e individuò nella caseina del latte la base tessile, dopo un riscaldamento la indurì con formaldeide e ottenne la galalite, una materia plastica della consistenza dell’avorio. Da questo risultato passò alla progettazione del filato vero e proprio che brevettò e propose a Marinotti presidente di Snia Viscosa. La produzione, prima sperimentale, passò ben presto da 100 tonnellate nel 1937 alle 14.000 nel 1940. Alla Fiera di Milano la Snia Viscosa costruì un intero padiglione dedicato a quel filato sintetico che fu chiamato patriotticamente Lanital. L’Italia in quel periodo subiva le sanzioni internazionali dovute all’aggressione dell’Etiopia, Mussolini intravede subito le potenzialità propagandistiche del prodotto para-italiano e sollecita l’azienda a farne la dovuta propaganda nazionalistica. Marinotti lancia una forte campagna commerciale e chiede al poeta futurista Filippo Tommaso Marinetti una sua pubblicazione. Il poeta risponde pronto e chiede a Bruno Munari di illustrare il libretto che prenderà il titolo di “Il poema del vestito di latte. Parole in libertà futuriste”. al brevetto si interessarono molti paesi, da quelli di grande produzione lattiera, come Olanda e Danimarca, a quelli di grande controllo sulla produzione laniera come Gran Bretagna, Austria, Belgio, Canada, Cecoslovacchia, Francia, Germania, Giappone, Norvegia, Portogallo, Spagna, Svezia, Svizzera, Stati Uniti d'America. Dopo le vicende belliche della seconda guerra mondiale, fu ripresa la produzione col nuovo nome di merinova; le caratteristiche superiori delle nuove fibre sintetiche ottenute dai derivati del petrolio ne causarono la cessazione nel 1968. Ma ecco un saggio del poema di Marinetti:

“Tutti a ridere di gioia partecipando all’ebrezza di un filo di caseina

barcolla per la sganasciante ilarità nel mutarsi in nastro poi strilla

sono un latte che ritorna beatamente alla sua pura mammella

bobina bobina mia, mia, mia

T'impongo o sacro latte di stringere le maglie di una viscosità

re-si-sten- te”. 

            Conviene tornare un attimo alla sanzioni contro l’Italia. Da sempre il nostro paese è debitore verso altre nazioni di materie prime che da noi non ci sono o scarseggiano, come, ad esempio, il grano duro per la fabbricazione della pasta, alimento principale della dieta italiana, e tenero per il pane. Il grano migliore, al tempo era quello russo, scatta quindi il messaggio propagandistico di autarchia, cioè cerchiamo di fare da soli e produrre il massimo in proprio. Ecco così la “battaglia del grano”, il Concorso sul tema del pane, tra l’altro vinto da uno studente bresciano: Franco Tadini dell’Istituto Magistrale di Brescia. Dagli anni ‘25 ai ’30 dalla Russia si importano 20-25 milioni di quintali di grano, ancora prima delle sanzioni il problema agricolo di approvvigionamento era pesante. Si rilancia la produzione del riso e si invitano gli italiani ad abbandonare la pastasciutta, Marinett,i con altri intellettuali del tempo, si butta nella mischia al grido: “Abbasso la pastasciutta!” e si stampa, nel 1930, il Manifesto della cucina futurista (a cui seguirà due anni dopo un libro di ricette) che vedrà schierati molti personaggi del periodo. Certo non tutti sono d’accordo, nemmeno tra i fascisti, lo stesso Mussolini non si pronuncia, dalla Liguria giunge una supplica al senatore Marinetti: “Noi siamo d’accordo sul messaggio ma ci lasci, la preghiamo, le trofie, i pansoti, i mandilli de saea…” non sappiamo di proteste tra i napoletani ma forse avranno ignorato il consiglio; la Barilla pubblica sul Corriere una fotografia di Marinetti con la dicitura: “Marinetti dice basta, abolita sia la pasta, poi si scopre Marinetti che divora gli spaghetti!”.

Con le sanzioni la situazione si aggrava e sarà un proliferare di surrogati: cioccolato e caffè, burro e olio d’oliva, carne e pesce. Sarà il trionfo delle uova (per chi le ha), delle verdure e di polpette, polpettoni e ricette “a imitazione di” e le autrici del tempo come Petronilla, Ada Boni e le riviste femminili si prodigheranno in consigli: “per questi tempi eccezionali”.

Quindi torniamo al nostro ingegnere  gavardese la sua idea non si esaurisce con la chiusura della produzione di Snia Viscosa. Lanital fu acquistata da un marchio tedesco che ne fece un tessuto di alta moda e così, dopo vari passaggi di proprietà, oggi leggiamo:

“Dopo anni di ricerche, il team di DueDiLatte ha individuato nella fibra di latte quelle innumerevoli proprietà che contribuiscono alla creazione di capi di abbigliamento a basso impatto ambientale, senza però rinunciare all'estetica”.

Antonio Ferretti di Gavardo morirà a Milano il 4 novembre del 1955 con i titoli di Commendatore di San Giorgio, Grande ufficiale della corona e Cavaliere del lavoro, onorificenze all’ingegno bresciano.

Nelle illustrazioni: Lanital Snia Viscosa pubblicità; Fiera di Milano padiglione Lanital; Racconti di cose belle e buone dei bresciani; La cucina futurista; Marinetti e gli spaghetti; Ricette per tempi eccezionali di Petronilla; Due di latte modello.










mercoledì 14 luglio 2021

Questo non è un cuoco


        Si chiama con questo curioso e provocatorio termine una serie di iniziative e operazioni di tipo gastronomico. Fa parte delle attività di rilancio dell’Alleanza Slow Food dei cuochi, rese possibili da un bando del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali a cui l’associazione propose: “Slow Food in azione: le comunità protagoniste del cambiamento”. A questo progetto poi se n’è aggiunto un altro: “Eat Slow Be Happy” per aiutare giovani imprenditori nell’ambito della ristorazione in alcune città italiane. La base dei progetti si può riassumere con uno slogan lanciato da Carlin Petrini: “Think global and eat local”, ovvero con l’invito a ragionare in modo globale, soppesando le decisioni da prendere sulla base della consapevolezza della complessità del mondo, ma ad agire localmente, sostenendo ciò la produzione, il consumo, l’economia territoriale. Ecco alcune storie nate dall’interpretazione di queste idee.

        La Campanara osteria e locanda a Pianetto di Galeata (FC) in Romagna. Alessandra Bazzocchi e Roberto Casamenti, smettono i panni di insegnante (lei) e geometra (lui) per avviarsi verso altri modi di intendere la vita. “Noi ci sentiamo ambasciatori del territorio, in prima linea, una sorta di agenzia di viaggio. Da sempre scriviamo nel menù chi ci ha fornito ogni singolo ingrediente. Abbiamo fatto di Pianetto una tappa per il turismo enogastronomico, siamo fieri di poter affermare che le persone vengono per noi e poi tornano per il paesaggio, per lo spettacolo delle nostre foreste e montagne» racconta Roberto. “Quest’anno poi, visto che non si poteva viaggiare, c’è stata la riscoperta dei piccoli borghi italiani e ora possiamo dire che si è formato un bel turismo, innamorato della natura e della biodiversità agroalimentare che questa regione ospita». La Campanara: oltre l’osteria, la comunità cioè Pianetto è una frazione di 70 persone, tra cui 14 donne over 90. Vedove che, come racconta divertito Roberto, hanno dato vita a un bel movimento proprio intorno a La Campanara: “Davanti al nostro locale, c’era un circolo, la Lega delle cooperative, dove veniva cotto il tortello alla lastra, una sfoglia senza uova con ripieno di zucca e patate e proprio questo piatto è la nostra bandiera.

        Se sentite l’esigenza di una bella carica di energia e voglia di fare, il suggerimento è di incontrare i non solo cuochi Lorenzo Econimo e Claudio Zani. La loro è una vitalità contagiosa. “Diciamo che noi siamo la quota giovane della Condotta bresciana di Slow Food. C’è stata subito empatia, collaborare è stato più che naturale», racconta Lorenzo. “E poi diciamo che se c’è da lavorare chiamano noi» aggiunge sorridente Claudio, con il giusto orgoglio.

Lorenzo Econimo racconta la sua storia: “Sono molto fortunato perché ho potuto unire la mia passione per la cucina e la gastronomia all’impegno sociale. Ho sempre voluto fare il cuoco e da cuoco mi sono formato”. Inizia come operatore sociale e nel frattempo organizza laboratori di cucina per diversi enti (accoglienza immigrati, istituti di pena, case-famiglia e comunità). “Dopo sette anni di lavoro in Cooperativa abbiamo aperto il Bistrot popolare che ora è gestito anche da ragazzi che frequentano la cooperativa La Rete. Fare parte di questa rete ci apre nuove possibilità, nuove occasioni di confronto e di scambio. Perché favorisce l’incontro, eventi e situazioni devo posso confrontarmi con i colleghi senza remore e in piena libertà. L’Alleanza apre le porte del mondo: possiamo condividere idee, opinioni e sì anche ricette. Uno scambio non scontato, prima di farne parte il confronto con i colleghi era tutt’altro che scontato”.

Claudio Zani invece: “Io sono autodidatta, siamo partiti quarant’anni fa con mia moglie e mia cognata e abbiamo imparato facendo”. Dopo qualche via vai, un passaggio in Val Sabbia, c’è stato il ritorno nelle colline di Lumezzane in Val Trompia dove, con il figlio (che nel frattempo ha studiato alberghiera) oggi gestiscono la pizzeria Qbio a Sarezzo.

“Abbiamo aderito al progetto Ruralopoli e stiamo lavorando per dare vita a una CSA (comunità di sostegno all’agricoltura). All’interno di questo abbiamo lavorato alla promozione di un grano evolutivo a Rezzato coltivato da un giovane della zona che ha messo a dimora diverse specie di grano (fino a 500) che unite tra di loro hanno dato vita a un grano che bene si adatta al territorio”.

        Giovanni Milana è cresciuto in trattoria, a dieci anni già gironzolava tra i tavoli e la cucina della sua trattoria Sora Maria e Arcangelo di Olevano Romano, che vanta una storia lunga tre generazioni. “Sono un’integralista. Faccio con costanza e senza mai perdermi d’animo una ricerca approfondita sul mio territorio per ogni ingrediente che propongo in trattoria: farina, carne, prodotti ortofrutticoli, batto tutta la regione. Cerco sempre fornitori di prossimità, e ci tengo a conoscerli personalmente. Faccio anche parte dell’associazione Premiate Trattorie Italiane, sono 13 in tutta Italia [tra cui altre Chiocciole storiche di Osterie d’Italia, ndr] con cui ci confrontiamo, scambiamo opinioni, organizziamo eventi. Un tempo le persone scoprivano che cosa ci sarebbe stato nel piatto solo una volta sedute a tavola. Ora abbiamo la possibilità di fare una narrazione di cosa c’è dietro il piatto e dare così l’opportunità di scegliere”. Una scelta finalmente consapevole che il consumatore compie grazie a questi ristoratori preparati.

        “La Calabria io la definisco una terra ruvida, ma ricca. Ricca anche di sapori”“. Fabio Torchia, insieme a sua moglie, da dodici anni gestisce “La tana del ghiro”, ristorante a San Sosti, nel Parco del Pollino, in provincia di Cosenza. A Bianco, comune della Locride, da un paio di anni esiste una scuola di cucina per ragazzi gratuita, nata per volontà della famiglia Pratticò per ricordare la figlia e il nipote morti in un incidente. Si chiama “Uno chef per Elena e Pietro” l’hanno presa in gestione Fabio e la moglie ma conta anche sulla partecipazione di alcuni docenti dell’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo. La capra: è uno dei simboli di questo territorio, sia come carne sia come latte. Un tempo non c’era contadino che non ne avesse almeno una o due per mungere latte per la famiglia o per ottenerne la carne. All’osteria La tana del ghiro amano preparare la capra e la propongono alla feraiola, un piatto povero ma dal sapore gourmet.

        Uno ha appena compiuto 60 anni, l’altro ne ha 43. Sono Salvatore Toscano, chef dell’osteria Mangiando Mangiando di Greve in Chianti, e Cristian Borchi dell’Antica Porta di Levante, a Vicchio, nella valle del Mugello. Cuochi, certo, ma non solo: ad animarli è un forte attivismo, la consapevolezza cioè che il lavoro che fanno va oltre i fornelli, perché riguarda un territorio e un modo di intendere il mondo. Si sono ritrovati nella cucina del primo per preparare insieme i pasti destinati alle persone maggiormente in difficoltà, nel quadro del progetto chiamato Eat Slow Be Happy. “È stato un bel momento di condivisione e di scambio tra un giovane e un vecchio che parlano lo stesso linguaggio. Abbiamo potuto coinvolgere i nostri fornitori, che più che partner sono amici, e poi c’era una ragione benefica: speriamo di aver fatto gioire chi, normalmente, non ha occasione di mangiare questi piatti”.

Festina Lente, a Seregno in provincia di Monza-Brianza. È un bistrot letterario un po’ diverso dagli altri perché i libri, anziché essere sugli scaffali a disposizione degli avventori, finiscono letteralmente nel piatto. Che cosa significa “servire un libro”? . A raccontarci il progetto è Simona De Simone, ideatrice e anima insieme al marito il cuoco Omar Pezzotta. “Significa che non ci limitiamo a realizzare ricette tratte dai ricettari, ma trasformiamo in un piatto qualunque testo ci offra lo spunto di farlo. In altre parole, troviamo il collegamento tra i libri e il cibo, e chi lavora in cucina lo traduce nel piatto. Lo facciamo per tutta la nostra proposta, dalla colazione fino alla cena. E ai clienti, oltre alla pietanza, serviamo il passo che ci ha ispirati. Si mangia e si legge, insomma”. Il primo piatto ispirato da un libro? “Credo fossero gli spaghetti alla fumo negli occhi di Carofiglio, citati nel romanzo “Ragionevoli dubbi”. Il protagonista del libro, l’avvocato Guido Guerrieri, invita a cena una donna e, per far colpo su di lei, si improvvisa chef. In realtà, però, a casa non ha praticamente niente, così mette insieme un piatto con gli ingredienti trovati nel frigo”. Non è facile rispettare la stagionalità e proporre prodotti del territorio ma con un po' di fantasia ci si può arrivare e, a guardare dai risultati, pare proprio che l’idea piaccia molto.

        Si chiama “Qualità e Servizi”, è una società pubblica detenuta interamente da alcuni Comuni della piana fiorentina in Toscana (Sesto Fiorentino, Campi Bisenzio, Signa, Calenzano, Carmignano a cui, nel prossimo futuro, si aggiungerà Barberino di Mugello) e rifornisce 60 scuole e una RSA. “Le mense scolastiche sono una food policy, perché significa occuparsi della produzione di cibo e, in fin dei conti, della comunità”. Ad affermarlo è Francesca Rocchi responsabile di Slow Food sulle mense scolastiche. L’idea che sta alla base dell’ingresso della ristorazione collettiva nell’Alleanza Slow Food dei cuochi è proprio questa: far sì che, nelle scuole di ogni angolo del mondo, nascano e si sviluppino pratiche, menù differenti, che rispettino tradizione, usi e abitudini consolidate, materie prime, preparazioni, ricette legate alla cultura locale. Agire in questo modo non significa soltanto scongiurare il rischio di standardizzazione a ogni latitudine, ma fare politica nel vero senso della parola. “Nelle mense scolastiche questo avviene ogni giorno per nove mesi all’anno. Si tratta, insomma, di uno dei luoghi primari dove, come esseri umani, ci alimentiamo e cresciamo. Il cibo servito ai bambini non è soltanto nutrimento, ma anche un momento educativo. Se nel piatto si abituano ad avere cibi ultra-processati, ad esempio, con ogni probabilità conserveranno quello stesso modello alimentare anche da adulti”.

        “Il mio è un approccio “slow meat”, nel senso che cerco di lavorare tutto l’animale. Non trovo etico, rispettoso dell’animale farlo a pezzi e metterlo semplicemente in forno: in questo modo non si dà valore al sacrificio dell’animale, bisogna valorizzare al meglio tutte le parti dell’ovino con una cucina sapiente”. Siamo a Velo Veronese sui Monti Lessini in Veneto e ad affermarlo è Giovanni Caltagirone del ristorante 13 Comuni. La creatività del cuoco nasce della conoscenza dell’animale, dalla capacità di lavorarlo e dalla consapevolezza di quanto ti può offrire. Giovanni è uno di quei cuochi che intendono la cucina come un mezzo per trovare un senso, comunicare una storia e una cultura. Il risultato è memorabile, in particolare per la grande ricerca e valorizzazione fatta negli anni sulla carne di pecora brogna, recentemente riconosciuta Presidio Slow Food grazie al lavoro svolto dall’associazione di cui lui stesso fa parte.

Dopo questo rapido viaggio nel mondo dei cuochi dell’Alleanza possiamo assicurare che una visita o la partecipazione a eventi nei quali ci fosse qualcuno di loro non sarà semplicemente una cena o una “mangiata” sarà invece un arricchimento culturale e sociale che molti ricercano e tanti detestano, purtroppo.

Nelle immagini: il gruppo La Campanara; Lorenzo Econimo e Claudio Zani; trattoria Sora Maria e Arcangelo; Fabio Torchia; Toscano e Borchi; Simona di Festina Lente; mensa scolastica; i monti Lessini.


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lunedì 12 luglio 2021

 

Professionalità e intelligenza, ovvero il customer

             Il connubio del titolo non è scontato, non sempre i due termini viaggiano compatti e non sempre coincidono con una persona sola. Frequentare ristoranti, bar, pasticcerie, osterie e pizzerie ma anche uffici pubblici e privati che svolgano il cosiddetto front office richiede una serie di conoscenze che non tutti possiedono e qualcuno ne travisa il senso. In generale si chiamano diritti e doveri, e competono sia a chi svolge un servizio pubblico sia a chi ne usufruisce. L’obiettivo di tutti questi servizi è quello di soddisfare la clientela, limitando al massimo qualunque problema dovesse presentarsi. Dal lato opposto, quello dell’utenza, vi sono diritti e doveri che devono collimare con la funzionalità del servizio. Ad esempio: rispettare la coda negli uffici; evitare di alzare la voce o di parlare al telefono come se tutto il mondo debba venire a conoscenza degli affari vostri; parcheggiare in modo corretto senza intralciare niente e nessuno; prenotare sempre, quando è possibile, e aggiornare gli eventuali cambiamenti (aumento o diminuzione di partecipanti, annullamento della prenotazione, probabili ritardi); far notare, cortesemente, al/alla responsabile del servizio eventuali incongruenze; lasciare il bagno in condizioni più che accettabili (la nonna diceva: non lasciare mai segno del tuo passaggio, specialmente in cucina e nel bagno!).

         Al ristorante evitate atteggiamenti irrispettosi come ripulire le posate o i bicchieri con il tovagliolo; non lasciate scorrazzare animali e bambini, la responsabilità dei danni provocati da animali e bambini è esclusivamente vostra, non vi trovate né all’asilo, né al canile. Rispettate e sopportate la presenza degli altri avventori; non presentatevi avvolti in un alone di Chanel n°5 tale da far svenire i vicini; non mostrate la vostra ricchezza adornandovi a dismisura di pendagli, anelli, orologi da far schiattare d’invidia (o di pena oppure voglia di rapinarvi) gli altri avventori; rivolgetevi al personale con cordialità ma reclamate se qualcosa è andato storto usando la stessa cortesia; non fotografate i piatti senza il consenso del ristoratore; non atteggiatevi a super critico enogastronomico, al ristorante si va per stare in compagnia non per fare una degustazione professionale. Non alzate la voce, silenziate il cellulare e non uscite ogni tre minuti per fumare, godetevi la compagnia di chi vi sta accanto e permettete agli altri di fare lo stesso con voi. Non vestitevi in modo troppo appariscente o, peggio, lascivo e trasandato; non vuotatevi le tasche appoggiando tutto: chiavi, cellulare, foto dei bambini o dell’amante, sul tavolo. Non pubblicate recensioni sui siti web di recensioni tipo Tripadvisor che spesso servono solo ai loro interessi di visibilità e raccolta pubblicitaria approfittando del vostro narcisismo; se avete lamentele fatele con la dovuta cortesia al responsabile del locale che, se professionalmente preparato, ve ne sarà grato. Se avete bisogno di altri suggerimenti leggetevi un libro sul galateo aggiornato ai tempi moderni.

Vediamo ora cosa aspettarci dal ristoratore professionista. Le prime impressioni che riceve il cliente sono fondamentali per accreditarvi fra i locali da frequentare: il sorriso di accoglienza del personale di sala o addetto a questo compito; l’aspetto dei bagni; l’accuratezza con cui avete accolto la sua prenotazione. Una giusta distanza tra i tavoli serve a permettere l’adeguata privacy alla clientela. Se decidete di accogliere la clientela con uno stuzzichino accompagnato da un piccolo bicchiere di vino chiedetene il permesso, dite di cosa si tratta e, non mettetelo nel conto perché nessuno ve lo ha chiesto. Presentate le vostre proposte scritte sopra un cartoncino, anche semplice ma pulito oppure se ci tenete compilate e tenete aggiornato un menu più complesso e presentatelo al tavolo. Una carta dei vini può essere utile se continuamente aggiornata tale da non costringere il cliente a cambiare continuamente la scelta a fronte di un addetto ai vini che: “spiacente ma questo vino è finito, quest’altro è di un’altra annata” ecc. Non presentate una “bibbia” monumentale solo per dimostrare l’ampiezza della vostra proposta, sarebbe controproducente e non riuscireste a gestire con facilità la vostra cantina. Scrivete con chiarezza le vostre proposte in modo da evitare troppe e approfondite spiegazioni all’addetto/a al servizio di sala, ma nel caso che il cliente ne chiedesse siano fornite in modo preciso e possibilmente conciso. Fate in modo che sul menu prevalga il piatto, non il prezzo, per evitare che il cliente sia distratto da quest’ultimo aspetto. Se volete fate un menu uguale, di cortesia, senza prezzi, da presentare alla signora ma non è indispensabile. Prendete la comanda in modo da permettere alla cucina di organizzare il servizio, specialmente se il piatto è preparato “espresso”. Nel menu posizionate le vostre migliori proposte a media altezza e, se avete compreso il/la cliente, permettetevi qualche suggerimento, nell’interesse del cliente, non della cucina (se le due cose coincidono ancora meglio). Informatevi subito di eventuali allergie o preferenze. Non create imbarazzo in nessun modo, né con atteggiamenti, né con battutine, non ascoltate le conversazioni e mantenetevi a giusta distanza in modo da intervenire prontamente in caso di necessità- Di fronte a una lamentela cercate l’immediata soluzione, se possibile, o proponete qualcosa di alternativo senza metterlo nel conto e se per qualche motivo lo farete, avvisate subito il cliente evitando sorprese e recriminazioni. Se l’acqua San Pellegrino è salata (perché è salata!) dovreste averne un’altra tipologia da offrire in alternativa; se il vino sa di tappo la colpa non è vostra né del cliente, verificate e cambiate la bottiglia, vi rifarete poi sul produttore. È capitato pochi giorni fa in una grande pasticceria bresciana molto blasonata che si sia servita dell’acqua, richiesta dal cliente, non accompagnata dal relativo bicchiere. Chissà quale ragionamento ci fosse dietro non si è riusciti a capirlo ma è un errore grave. Anche quando servite la birra in bottiglia offrite sempre il bicchiere adeguato e spiegate, cortesemente, che la potranno gustare al meglio con la sua schiuma naturale. Evitate, se possibile (a meno che non vi troviate in Piemonte) di far trovare nel cestello i grissini confezionati, il risultato saranno buste vuote lasciate sul tavolo e poca propensione a gustare la vostra proposta rovinata dall’ingozzamento di grissini. Naturalmente se richiesti si porteranno, magari non confezionati e poco salati.

Se in sala avete un giornalista di critica enogastronomica evitate salamelecchi e sperticati ringraziamenti, il vero critico non si fa riconoscere (se possibile) e si comporta in modo da non intralciare il vostro lavoro.

I vini serviteli alla giusta temperatura, non troppo freddi i bianchi, non troppo caldi i rossi, specialmente quelli giovani  e spumeggianti (temperatura ambiente non vuol dire 35 gradi all’ombra). Se cade un tovagliolo affrettatevi a raccoglierlo e sostituirlo.

Giunti alla fine del piatto principale si può offrire (dopo aver liberato il tavolo da tutto ciò che ingombra: dessert significata togliere tutto) una carta dei dessert accompagnata da una proposta enologica adeguata. Il dessert non è composto da soli dolci ma anche da formaggi, se possedete uno o più carrelli appositi avvicinateli al tavolo per operare le scelte. Dimostrate, anche in questo caso professionalità e competenza, con consigli di consumo e di abbinamento.

Il caffè italiano comune è l’espresso ma organizzatevi anche per altre tipologie (americano, orzo o altro). Ricordate che assieme all’accoglienza al cliente rimane impresso anche il commiato.

Il conto sia preciso ed elencato con cura, evitate discussioni se ci fossero errori ma rimediate subito nel caso il cliente abbia ragione, non fatevi trovare con il POS fuori servizio, se succedesse avvertite la clientela all’ingresso del locale, offrite alternative di pagamento rintracciabile, il cliente non ha responsabilità delle vostre apparecchiature e non è tenuto ad avere molti contanti. Nel caso il cliente abbia pubblicato la sua opinione su siti web come Tripadvisor non fate polemiche e ringraziate della visita al vostro locale con l’augurio di averlo/i ancora ai vostri tavoli.

Insomma, tenete tutto sotto controllo e dimostratevi all’altezza del vostro mestiere, ne avrete benefici, guadagni adeguati e riconoscimenti professionali al di là e al di fuori di medaglie, stellette, cappelli, pensate alla clientela e alla vostra meravigliosa professione.


Nelle immagini: il libro di Roberta Schira; lo stile nella vita e a tavola; l’arte del servizio; l’arte della cucina e il piatto decorato; come apparecchiare la tavola.









 

    

 

   

 

 

 

sabato 29 maggio 2021

 

È l’ora del rilancio, adesso o mai più


            Finita, o quasi, l’emergenza pandemica (ma occorre usare ancora prudenza), bisogna pensare al rilancio. Inutile recriminare, bisogna rimboccarsi le maniche. L’Italia è uscita da tante guerre, uscirà anche da questa. Abbiamo un’occasione storica: Brescia-Bergamo città della Cultura 2023. Qualcosa si sta muovendo, Comune Bs, CCIAA Bs, ARTHoB, e qualche Comunità Montana. Non facciamo l’errore di muoverci in ordine sparso, qualcuno suggerisce di guardare a Parma. Io so come si sono mossi i parmigiani: hanno individuato le migliori menti locali sulla enogastronomia, turismo, cultura e creato una cabina di regia. Anche noi dobbiamo procedere in questo modo. Brescia ha bisogno di un rilancio turistico forte, denso di idee nuove, un portale dedicato. Il tema della enogastronomia, che mi è più confacente, mi solletica e mi dice di raccontarvi e lanciare alcune proposte che da anni sono sul tavolo. La mia esperienza a Parma racconta che là risultano aperti dal 2002 in poi ben 8 Musei del Cibo (Prosciutto di Parma, Parmigiano Reggiano, Pomodoro, Salame di Felino, Culatello di Zibello, Vino, Pasta, Fungo di Borgotaro). I musei sono tutti in rete e diretti a livello centrale e coordinati da un gruppo di lavoro. La mia esperienza mi dice che un buon lavoro da buoni frutti, e noi bresciani di buoni frutti ne abbiamo molti ma tendiamo a sottovalutarli. Non c’è bisogno di grandi studi per capire che l’attrattiva turistica più forte sono il cibo e il vino, anche solo perché con essi bisogna confrontavicisi almeno due volte al giorno. La provincia bresciana è ricca di prodotti di alta qualità ma fatica a mostrarli. I consorzi di tutela spingono per valorizzare l’intera filiera, faticano a distinguere gli apici della produzione. Nel nostro territorio svolgono la loro attività ben tre Consorzi DOP (Grana Padano, Nostrano Valtrompia, Silter) dedicati ai formaggi. e una serie ben nutrita di Consorzi Vinicoli. Svolgono la loro attività anche Associazioni di Agricoltori e Contadini, Slow Food, e altri con finalità diverse. Sopra tutti, le Istituzioni: la Camera di Commercio, la Provincia di Brescia, il Comune capoluogo con i suoi 200 mila abitanti. A queste possiamo aggiungere le associazioni sindacali di categoria Confesercenti, Confcommercio e Confartigianato e così via. Tutte associazioni che devono tutelare e lanciare o rilanciare le proprie categorie. Non si può di certo affermare che non si sia fatto nulla, anzi ho visto in questi anni molte attività e proposte di ogni genere, alcune anche molto intelligenti e curate. Manca però, secondo me, una cabina di regia, un centro propositivo, un luogo dove le varie attività siano incanalate in un progetto o una parte di un progetto più grande che permetta una visione d’insieme narrabile.

“Il settore dell'enogastronomia rappresenta ormai da tempo l'Italian lifestyle, è un vantaggio per i Paesi che imitano il nostro stile e le nostre produzioni ma anche un punto di forza per implementare l'attrattività turistica italiana”. Questo scriveva Erica Croce già dieci anni fa.

 Cosa abbiamo noi da mostrare dal punto di vista enogastronomico al turista e al food friend che spesso si sommano in un’unica categoria. La prima cosa che viene in mente a un bresciano è lo spiedo, in secondo luogo i casoncelli, il pesce se è gardesano o iseano, i formaggi se vive sulle valli.  E naturalmente i vini, dalla Franciacorta al lago di Garda, da Capriano alla Valle Camonica. Da qualche anno si sono organizzate le Strade del Vino: Franciacorta, Colli dei Longobardi, Vini e Sapori del Garda. Ebbene, è ora di fare il salto di qualità, organizzare dei percorsi che tengano in giusto rilievo l’arte, l’ambiente, lo sport, l’artigianato e l’enogastronomia.

Propongo alcuni percorsi con tipologie d’’intervento che possono essere diverse.

 La prima: Via Lattea Bresciana, un percorso tra produttori di pianura, di collina o di montagna e i loro formaggi, i loro pascoli, le loro malghe. Una serie di indicazioni, con la cartellonistica adeguata, dove trovare i formaggi, dove degustarli in iniziative ad hoc o in agriturismi, ristoranti, trattorie, osterie, botteghe, spacci. Visite guidate in malghe, caseifici, luoghi di produzione. Una rete di posti dove alloggiare. Una serie di consigli per escursioni nell’ambiente circostante. Le bellezze artistiche, architettoniche, naturalistiche, archeologiche da vedere. La provincia di Brescia, con la città, è sede di ben tre siti Unesco: le incisioni rupestri della Valle Camonica, i siti palafitticoli alpini nelle vicinanze del lago di Garda, i luoghi del potere dei Longobardi in città. Alla nostra provincia dalle Valli alla Bassa non mancano luoghi suggestivi, corsi d’acqua, parchi naturalistici, castelli, ville, giardini. Così come per gli appassionati di sport non mancano percorsi da compiere a piedi, in bicicletta o altro. Si tratta dunque di mettere a regime l’organizzazione, incrociando competenze e sostegno economico.

La seconda: Strada dello Spiedo Bresciano. Anche qui non mancano i riferimenti alle nostre tradizioni, la caccia e l’industria armiera. Senza ipocrisie: questo è il nostro percorso storico durato molti secoli. Non solo i bresciani hanno consumato animali cacciati, pensate ai toscani o ai sardi, ai veneti e agli abruzzesi, tutti i popoli erano costretti per fame a procurarsi in qualche modo il cibo. È nata, da noi, la cultura dello spiedo, un metodo antico come il mondo che da noi ha avuto un’evoluzione anche artigianale. Pensate agli artigiani (quasi degli orologiai) che costruivano le macchine da spiedo ispirati anche da Leonardo da Vinci con la sua macchina a fumo e contrappesi. Sgomberando il campo dalla presenza o meno degli uccellini, possiamo sostenere tranquillamente che la tradizione non è morta con il divieto di consumo in luoghi pubblici, perché il cacciatore corretto, può consumare tranquillamente il frutto della sua caccia con la famiglia e gli amici. Dello spiedo la cosa più importante è la capacità di unire carni diverse e portarle a cottura alla perfezione, lentamente e con le braci di legna. Questa peculiarità e sapienza artigianale vanno tutelate non l’evoluzione naturalistica e ambientale del prodotto. La capacità di scegliere le carni giuste, i volatili tagliati alla perfezione, le eventuali patate secondo la zona, il dosaggio delle braci, la salatura, il condimento e un tempo di cottura adeguato, la posizione delle stecche sulla macchina, la distanza tra le carni e il calore. La capacità di capire la differenza tra una cottura in un tamburo o davanti al camino, qui sta la sapienza del cuoco o della cuoca. Promuovere lo spiedo in quelle zone che storicamente lo propongono è promozione di territorio esattamente come la Via Lattea Bresciana. L’insistere sulla qualità delle carni, delle patate, del burro e di quello che si usa nella cottura significa promuovere una rete di produttori di qualità. Lo spiedo non è tale se non è accompagnato da un vino bresciano, così il cerchio gastronomico si chiude. La proposta non vuole sollevare perplessità ma sottolineare una peculiarità tutta bresciana.

La terza: è il piatto della festa per eccellenza, i casonsèi bresà. Anche qui le varie zone della provincia hanno espresso la loro visione e il loro gusto. Credo che poche provincie possano vantare una varietà di paste ripiene come quella bresciana. Solo i nomi fanno girare la testa da qui alla Sardegna:

Vogliamo parlare della loro composizione, o dello spessore della pasta, o del condimento o, se preferite della forma. E’ un caleidoscopio gastronomico che tocca tutta la nostra provincia. Ebbene, nel 2018 alla in occasione del 70° della Fiera di Orzinuovi è stato lanciato il Concorso Provinciale dei Casoncelli Bresciani. La partecipazione è stata ampia nelle tre categorie proposte: giovani, privati e professionisti e il risultato dell’assaggio dei prodotti partecipanti ha dimostrato la vitalità di un piatto molto sentito dai bresciani e protagonista di tante Sagre del nostro territorio, dalla Bassa alle colline, dal lago alle Valli abbiamo potuto constatare le peculiarità e la differenza nelle varie interpretazioni. Inutile dire che anche con i casoncelli si toccano produzioni di materie prime di qualità, dalle carni ai formaggi, dal burro ai vari ingredienti proposti. Riprendere il concorso, portarlo nell’ambito cittadino e dedicargli una manifestazione mi sembra d’obbligo se teniamo alla nostre tradizioni culinarie.

Chiudiamo con l’auspicio che “chi di dovere” accolga queste proposte e le usi per un rilancio della nostra bella provincia, e buna fés.

Nelle illustrazioni: Via Lattea Bresciana, Strada dello Spiedo Bresciano, tipologie di casoncelli, i casoncelli bresciani