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martedì 19 settembre 2023

La cucina italiana esiste o no?

       In una discussione pacata come si usa tra persone intelligenti, si è aperto un dibattito ispirato da Massimo Montanari sull’esistenza o meno della cucina italiana e regionale. Spesso queste discussioni tendono a inglobare secoli di storia, se non millenni. Il primo problema dunque nasce dal contesto storico che stiamo indagando. Perché se è evidente che l’Italia è una nazione giovane (1861) il territorio è stato diviso a partire dalla caduta dell’impero romano d’occidente (476) in tanti stati e staterelli che hanno frammentato e diviso una nazione che sulla carta appare omogenea, con il mare che la circonda e le Alpi che la proteggono. A stabilire le caratteristiche di una cucina sono vari elementi: le popolazioni, il suolo e le acque, la provenienza degli abitanti. Sarà la somma di queste coordinate a stabilire una linea gastronomica, se poi a tutto questo aggiungiamo il naturale scambio di prodotti e nozioni che avvengono nei luoghi della socialità, il mercato, le osterie, gli incontri più o meno programmati ecco che si aggiungono ulteriori elementi. Gli Itali erano una popolazione che abitava quella che oggi noi chiamiamo Calabria, parlavano la lingua “osca” adoravano il vitello da cui anche “vitalia” (a loro si unirono bene presto i lucani, i campani, i sabini ecc.) e da loro deriva il nome della nostra patria.
Questa frammentazione ha dato origine a molte cucine locali più o meno omogenee, ricordiamo che anche all’interno di luoghi affini e strutturati politicamente possono coesistere tradizioni diverse, nelle comunità di origine franco-p e rovenzale o greca, ad esempio, le cucine dei popoli alpini come i cimbri e i mocheni, i walser e i valdesi, gli arbëreshë nel sud Italia. Sono enclave di popolazioni arrivate secoli fa con usi costumi e religioni diverse dalle nostre ma oggi completamente integrate. Un altro aspetto sulla conformazione sono le tradizioni gastronomiche locali, che spesso di allontanano da una banale associazione. Se guardiamo la nostra provincia, ad esempio, possiamo notare una sostanziale differenza dalla cucina camuna e quella gardesana, dalla cucina delle valli Trompia e Sabbia da quella della Bassa Bresciana. E’ logico a fare la cucina locale sono i prodotti che si trovano facilmente sul quel territorio, ecco perché in Valle Camonica troviamo spesso il perüch (buon-enrico) e nella Bassa i loertis (luppolo), sui laghi i pesci e nelle zone interne rane e lumache. La formazione di una cucina è lastricata di tante, moltissime, varianti. Come si può pensare a una cucina emiliano-romagnola senza distinguere l’Emilia dalla Romagna, la cucina pugliese è tutta omogenea o i fornelli brindisini stanno a quella tarantina? C’è una cucina lombarda? Cosa c’entrano i valtellinesi, gastronomicamente parlando, con i mantovani? In Italia di questi esempi se ne possono fare, come direbbe Veronelli: millanta e millanta. Quindi com’è possibile denominare con l’aggettivo “regionale” una cucina, anche perché, banalmente, le regioni sono nate nel 1970 e la Lucania si trasformò in Basilicata, gli Abruzzi incorporarono il Molise per poi separarsi, il Trentino l’Alto Adige, il Friuli, la Venezia Giulia, l’Emilia, la Romagna.
In questa discussione poi emerse anche il futuro della nostra cucina e quel caro amico afferma che il destino della cucina locale è passato nelle mani degli osti, delle trattorie perché, parole sue: “la cucina di casa è sbrigativa” forse pensava ai quattro salti in padella come sembra nel manifesto del ministero a supporto della cucina italiana (vedi). La cucina, quella vera è tutt’altro che sbrigativa, si pensi alle lunghe cotture degli stufati, dello spiedo, del manzo all’olio. Si pensi alle ore che servono per preparare casonsèi, caicc, e calsù, le nostre principali paste ripiene. Si pensi alle ore che servono per fare il bossolà di Brescia. Potremmo continuare per pagine. Quindi, oggi la cucina di casa va tutelata e questo doveva fare il Ministero, non presentare all’Unesco un cuoco con i gemelli al polso, mancino, che tratta l’Italia come fossero quei quattro salti in padella o come l’ultimo spot, rivolto a noi italiani, dove una squadra sportiva si butta pacchi di pasta (rompendola e rendendola ottima per la minestra maritata) e dove si insegna agli italiani come cuocerla, a noi, avete capito bene.
Quindi la tutela della nostra cucina, che non è totalmente nostra: se pensate a un piatto di spaghetti al pomodoro e basilico, dove a seccare la pasta filiforme, furono gli arabi in Sicilia, l’olio proviene dalla Grecia, il basilico dall’Oriente e il pomodoro dalle Americhe, solo l’acqua e il sale sono nostri. Ma la cucina è un derivato del savoir-faire, e della sapienzialità delle nostre donne (e uomini, pochi). Pensare che a tutelare la cucina locale siano le trattorie è come chiedere di tutelare la scrittura a mano ai maestri di scuola. Senza ricordare che lo scrivere a mano aiuta la mente a pensare, aumenta la comprensione del testo, ci consente di allenare la memoria e, se usiamo la “bella calligrafia”, si diventa anche un po' artisti. Chiudiamo quindi con l’affermare che la cucina locale deve tornare ad essere protagonista delle nostre tavole, si deve tornare al pollo arrosto con patatine della domenica, allo spiedo del nonno (con o senza uccellini), alle lunghe cotture con la teglia di terracotta. L’alternativa si che è banale: quattro salti in padella o “apri il frigo e vediamo cosa c’è… azz, il frigo è vuoto”, prosit!

Nelle immagini: gli arrosticini abruzzesi, il manifesto del Ministero, il focolare domestico