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venerdì 26 giugno 2020


Brescia e la civiltà dell’acqua

La pesca è un’attività importante nel panorama economico della provincia bresciana. Si pensi che la superficie dei tre maggiori laghi bresciani (Garda, Iseo, Idro) occupa una estensione di circa 450 Kmq. A questo punto aggiungete i fiumi come l'Oglio, il Chiese, il Mella e innumerevoli torrenti e rogge e avrete un’immagine di quanto, la "civiltà dell’acqua", sia importante per questa provincia. Nei due laghi principali era, fino a pochi anni fa, redditizio esercitare l’attività di pescatore. L’incuria dell’uomo, la rivoluzione industriale, il turismo di massa, hanno provocato, ognuno per la loro parte, l’abbandono quasi totale della pesca come professione. Antichissimi rinvenimenti ci fanno sapere che la pesca nei laghi bresciani è di origine lontanissima. Ami, fiocine, trappole, nasse e bertovelli, gli strumenti usati dai pescatori. In seguito, comparvero le reti che subirono una lunga evoluzione per operare in superficie appese a galleggianti o sul fondo. Di cotone colorate con il tannino delle bucce di castagne, fatte bollire in appositi pentoloni, costruite artigianalmente dai pescatori in ore di paziente lavoro. Fino a non molti anni fa si distinguevano nei tipi: a strascico, a catino per circondare il pesce, a tre ordini di maglie per fare la "sacca". La rete volante di pesca era chiamata "rematt" e quella fissa di filo di seta "scarolina". Naturalmente, data l’abbondanza della materia prima, il pesce, era l’alimento consumato dalle popolazioni locali come cibo quotidiano e preparato in mille modi. Anche la pesca era regolata da leggi severe: in special modo era proibita la cattura di alcuni pesci pregiati nel periodo della fregola, quando cioè i pesci depongono le uova nei bassi fondali. Abbiamo sicure notizie che già nel 1464 le autorità veneziane intervennero per salvaguardare la pesca. In particolare, il carpione (Salmo trutta carpio) era ritenuto il pesce di eccellenza superiore, per la bontà delle sue carni ed era esportato in tutta l’Europa del ‘500. Il carpione è presente solo nel lago di Garda; il tipo xentil è apprezzato per la particolare gentilezza e delicatezza e può pesare fino a 400 grammi, il tipo trèp, dall'omonima località del lago più profondo (346 m), di dimensioni maggiori. Giuseppe Michiel, rettore veneto, così relazionava al Senato nel 1617:

Nelle Ville (dodici di Gargnano) che sono su la riva del lagho hanno copia di barche grandi et piccole, de quali si servono nel pescare ed in particolare di carpioni, essendo particolarmente il nervo di detta pescaggione nel mezo del golfo, per mezo di dette terre, in luoco detto Trep, sopra la qual pesca de’ carpioni vivono et si mantengono più che uomini cinquecento con le loro famiglie.

  I pescatori, grazie all'esperienza accumulata nei secoli, sanno distinguere il Carpione nei seguenti tipi: "la stella" perché sul dorso porta delle macchie a stellina, le sue carni sono rosate ed è la specie commestibile più pregiata; "il moro" per via del colore bruno della livrea, carne rosa, squisito; "il liscio o argentato" carne chiara, meno soda, quindi non pregiato come gli altri. Oggi è quasi scomparso, si sta cercando di rimetterlo nel lago e Slow Food ha attivato un Presidio. Approfittiamo qui di spiegare che la carne rosa dei pesci e della trota cosiddetta salmonata, deriva esclusivamente dall'alimentazione dei pesci a base prevalente di crostacei, questo vale sia per i pesci "liberi" che per quelli in cattività, dove il cibo è fornito dall'uomo.

"Restare senza carpioni è una disgrazia, la più grande dopo quella di perdere la
coccarda nazionale. Ahimè, a che serve il lauro quando è scompagnato da carpioni!"

così si lamentava nel 1828 il poeta tedesco Heinrich Heine: che intendesse alludere al metodo usato dai pescatori di esportare il carpione fritto, spruzzato di olio e avvolto in foglie di lauro? Non ci è dato sapere. Certo è che nel 1892 di carpioni ne furono pescati 200 quintali! Naturalmente non si pescavano solo carpioni. La fauna lacustre comprende anche: trota lacustre, iridea e fario; coregone lavarello; anguilla; luccio; persico reale e sole; tinca; carpa; bottatrice; agone; alborella; cavedano e barbo. Oltre a qualche specie minore per un totale di trentasei specie. Non tutte le specie sono originarie, alcune sono state introdotte dall'uomo per incrementare la fauna (come il coregone), altre sono giunte dai fiumi e dai laghi collegati al Garda come il persico sole ed il pesce gatto. E, per dirla con Emilio Sereni, se gli italiani, ora conosciuti come "mangiamaccheroni" erano un tempo i "mangiafoglie", i gardesani erano i "magna aole".

Anche sul lago d’Iseo le attività della pesca sono molto sviluppate. Ancora oggi esiste la tradizione di preparare in molti modi il prodotto pescato. In particolare, Clusane, oggi frazione di Iseo, ha sviluppato un discorso gastronomico attorno alla tinca, tanto da scrivere sui cartelli stradali, indicanti la frazione: Clusane paese della tinca al forno. Le barche, sul lago d’Iseo sono chiamate "naèt", sospinte a forza di remi o da strette vele latine, erano di legno: alcune a fondo piatto e con due punte, altre con chiglia, prua e poppa. Naturalmente non solo tinche si pescano sul lago d’Iseo, ma anche coregoni, anguille, persico e un pesce particolare detto "bosa", ma che in italiano fa bottatrice per qualcuno, e ghiozzo (o chiozzo) per qualcun altro, oggi, la maggioranza degli esperti, lo chiama “scazzone”.  Ad esempio, il Melchiori, nel suo Vocabolario Bresciano-Italiano del 1817 lo definisce "piccolo pescatello senza lische e di capo grosso"; questo pesce viene catturato ancora allo stadio di avannotto, attraverso la deposizione di fascine di legna collocate a circa un metro sotto il pelo dell’acqua, questi pesciolini daranno la famosa "torta di bosine" la versione bresciana dei "gianchetti" genovesi. Sul lago d’Iseo accanto alla pesca si sviluppano stabilimenti per la fabbricazione delle reti che serviranno non solo per i laghi bresciani, e saranno esportate in tutta Europa. Sul lago, data la presenza di uccelli acquatici, si esercita anche la caccia che fino al ‘92, era permessa con il capanno in movimento, cioè fissato sulla barca, oggi invece deve esservi solamente il capanno fisso. Le specie permesse sono in prevalenza folaghe e germani che qui trovano una interpretazione culinaria eccellente. Monte Isola, stupenda località al centro del lago e vietata al traffico a motore, tra l’inverno e la primavera, sono essiccate al sole, su particolari graticci, le sardine di lago (gli agoni) e le alborelle (aole); uguale abitudine (per questi ultimi pesciolini) vi era sul lago di Garda, dove c’era una piccola industria detta delle "aole secche" che poi erano messe in salamoia per dare un po’ di condimento a una semplice pastasciutta.
In “sisàm” è un antico metodo derivato dal "cisame de pesse" (l'incisamen latino parente del garum di Apicio), testimoniato fin dal XIV secolo. Si applica alle alborelle che vengono prima asciugate al sole o sui muretti, poi cotte sulla griglia, tagliuzzate e passate in padella con cipolle, vino bianco, aceto e poco zucchero, si cuocerà lungamente e poi finirà su fette di pane o di polenta. Oggi, vi è una grande scarsità di questi pesci sia sul lago d’Iseo sia sul lago di Garda per la presenza di anatre, cigni che si nutrono di alghe, le quali servono a depositare le uova di questi pesciolini, occorre intervenire per ritrovare il giusto equilibrio tra uccelli e pesci.
La fantasia e l’arguzia dei semplici pescatori faceva nascere proverbi o modi di dire legati all’ utilizzo del pesce lacustre.

Bòse frite, pulintina, formai vècc e vì dè spina
Nei fiöm grancc sè pesca i pès gròs
Fiòca, fiòca le sardene va à la Ròca

Ogni piatto aveva, naturalmente, la sua stagione, e allora: "tènca en camisa; lusso en pelissa”; “trota dè Nedal; anguila en carneàl". "Lac da sardene" è quando il lago è liscio come l’olio e i branchi affiorano in superficie. Ancora un consiglio culinario: "co
l’oio e co’l limù, èl cogo l’è padrù"
a indicare che, per il pesce non serve altro. Infine, c’è la memoria dei "ronconi" o spinarelli (uno dei pochi pesci che fanno il nido intrecciato con vegetali e una speciale secrezione gelatinosa prodotta dai suoi reni) per una croccante frittura. Dei "ronconi" è rimasto purtroppo soltanto il ricordo in qualche vecchio pescatore. Un ricordo e una lode vanno a Vittorio Fusari che con i suoi “tagliolini di lago” omaggiava, a modo suo, la sua terra.


Sotto: barche sul Garda; naèt sul lago d'Iseo; le reti di Monte Isola; il carpione; il coregone; le bosine, la trota di lago; le sardine di Monte Isola ad essiccare








venerdì 19 giugno 2020

Pesto, pisto e pestello


Nella speranza che arrivi l’estate e arrivi presto come da calendario, con piogge abbondanti, ma non frequenti, questa volta racconteremo di pesto e pestate. Molti di voi penseranno subito, com'è giusto, a quello genovese con il basilico di Prà. Il metodo di pestare i cibi, prima di tutto i cereali per farne farina, è antichissimo e noto in tutto il mondo abitato. Dai cereali poi si è passati alle erbe per estrarne i principi aromatici e medicinali. In quest’ultimo campo dobbiamo molto ai conventi e al loro “Orto dei Semplici”. “Simplicium” era detto, nel Medioevo, il principio curativo della singola pianta, e compositi al contrario i farmaci ottenuti miscelando sostanze diverse. In cucina arrivarono in conseguenza dei loro aromi e con l’abbinamento ad altri alimenti come pasta o riso ma anche pesce, carne, verdure, l’uomo rinascimentale ha notato un gradevole abbinamento e la cucina mediterranea ne produce di notevoli, in qualità e quantità. 

Gli ingredienti per il Pesto Genovese, non “alla genovese” che è un’altra cosa ed è l’escamotage trovato dall'industria alimentare per far affluire sul mercato pesto con anacardi, pinoli stranieri, ricotta e altre stregonerie. Quello vero è composto da 7 ingredienti: basilico genovese, aglio (uno spicchio ogni 30 foglie), parmigiano e pecorino (in proporzione di 3 a 1), olio d’oliva ligure, pinoli italiani (sono ammesse noci in alternativa) e sale grosso. I navigatori genovesi al ritorno dei loro viaggi facevano tappa a Trapani o a Napoli. I trapanesi conobbero così il pesto genovese e ne fecero una loro variante sostituendo le mandorle ai pinoli e aggiungendo il pomodoro, che chiamarono alla trapanese. A Napoli invece osti genovesi portarono il loro tocco, un piatto di carne con cipolle, ancora oggi chiamato dai napoletani “la genovese”. Pestando (i meno capaci useranno il frullatore è un peccato mortale ma fate come potete, importante è non surriscaldare la salsa), pestando potete ottenere tante salse da usare nel modo che più vi piace, sostituendo il basilico con la menta, con la rucola, con erbe aromatiche miste, eliminando i pinoli e usando mandorle o noci, capperi (o i cucunci, cioè i frutti del cappero). Sempre in Liguria troviamo un’altra salsa tradizionale: la salsa di noci, qui potete scegliere se tritare o pestare. Le noci dovrete pelarle (non usate il guscio) immergendole per due minuti in acqua bollente, in commercio le trovate anche già sgusciate e pelate ma ve lo sconsiglio in quanto provengono da paesi lontani e non sono chiare le procedure e chi le ha raccolte (spesso bambini). I componenti della salsa, oltre le noci, sono i pinoli (che potete anche arrostire leggermente in un padellino), mollica di pane bagnata nel latte e strizzata, aglio, parmigiano, sale fino, olio extravergine. I liguri la usano per condire i pansoti, voi la potete utilizzare per i casoncelli bresciani di magro. Non scandalizzatevi troppo, tra noi e i liguri c’è molta affinità, Brescia è stata fondata dai Galli Cenomani ma prima era abitata dai Liguri (Cidno, da cui Cidneo, era il re dei Liguri). Non è difficile neppure fare il pesto di olive, utilizzando olive mature, anche sottolio e ridurle finemente per poi coprirle di olio, oppure potete sconfinare in una tapenade provenzale a base di capperi, olive e tonno o acciughe. È di moda il pesto di rucola, per farlo userete rucola, mandorle, aglio, parmigiano e pecorino e olio d’oliva, fate attenzione che la rucola non è la ruchetta, i sapori sono diversissimi, la prima è coltivata, la seconda è selvatica, la prima tende all'amaro, la seconda al piccante, regolatevi di conseguenza. Allo stesso modo ma sbollentando le foglie, potete fare un pesto alle ortiche, o al buon-enrico, il péruch dei camuni. Una grande specialità veneziana è il baccalà mantecato, la ricetta è semplice: occorre mettere a bagno lo stoccafisso (che noi come i veneti chiamiamo baccalà) per tre giorni al terzo giorno pulire il pesce e cuocerlo con due bollori in acqua con mezzo limone e due foglie di alloro, scolare e frullare il pesce unendo olio di oliva e sale fino ad ottenere un prodotto spalmabile su crostini o polenta gialla o bianca. Con un salto nel Ponente Ligure troviamo un piatto simile al mantecato veneziano: il brandacujun, nome curioso che deriva dal provenzale brandade de morue, dove branda sta per sbattere vigorosamente e la seconda parte significa, vedete voi, il pirla di turno che si sobbarca l’onere di sbattere. Il pesce ammollato (qualcuno usa quello salato) è cotto a pezzi in acqua con l’aggiunta di qualche patata, una volta scolato si uniscono aglio e prezzemolo, olio del Ponente Ligure, sale e pepe e inizia l’opera di sbattimento. E ora il dessert. Il pisto napoletano è un mix di spezie tipico della tradizione partenopea, utilizzato per le ricette di numerosi dolci classici, tipici soprattutto del periodo di Natale, come i roccocò, i mostaccioli, i susamielli, ecc. Il sapore e l'aroma del pisto è qualcosa di inimitabile, che risulta indispensabile per la preparazione di queste ricette della tradizione, così che se volete anche voi provare a fare in casa i grandi classici della pasticceria tradizionale partenopea delle feste, dovrete assolutamente munirvene, servono: chiodi di garofano, anice stellato, semi di coriandolo pestati nel mortaio, poi aggiungete le polveri di cannella, pepe e noce moscata, quando avrete ottenuto un polvere fine conservatelo in un barattolo. Quando vorrete servirvene per il vostro dolce scaldatelo dolcemente in una padella antiaderente.

Se invece di pestare vi metteste a tritare potreste ottenere delle salse, delle misture tra erbe e frutti, come melanzane (magari grigliate) o pomodori (crudi o grigliati) componendo salse fredde estive ottime per la pasta, i casoncelli, il riso freddo. Un altro modo per avere appetitosi antipasti o contorni e l’arte dello schiacciamento, potete così schiacciare (con una pietra o un batticarne) delle olive verdi e nere calabresi, pugliesi, liguri, gardesane o di Gaeta (né nere, né verdi) solo dovete avere un’accortezza: se partite da olive verdi, appena raccolte, dovete immergerle, velocemente, in acqua fredda che andrete a cambiare per qualche giorno. Più facile partire da olive in salamoia o al forno (famose quelle di Ferrandina), alle olive potete aggiungere aromi come semi di finocchio o finocchietto fresco, origano, maggiorana, basilico, timo, aglio, peperoncino, cubettini di formaggio ecc. Un piatto estivo sono i casoncelli ripieni di melanzane e ricotta. Le melanzane, grigliate e tritate, mescolate con la ricotta e legate con un uovo saranno il vostro ripieno, mentre il condimento sarà un trito di pomodori freschi lasciati a macerare in olio, aglio, erbe aromatiche abbondanti per due ore, il condimento, a temperatura ambiente, lo verserete sui casoncelli caldi eliminando, aglio ed erbe. Visto che avete a disposizione il frullatore non mancate di prepararvi la salamoia bolognese detta aglione o sale bolognese servono: 500 g di sale grosso, 40 g di rosmarino, 40 g di salvia, 1 foglia di alloro, 2 spicchi d’aglio, qualche grano di pepe nero. Lavate le erbe e asciugatele, mettete tutto nel frullatore e riducete in polvere, stendete ad asciugare in forno e poi, una volta freddo, invasate. Vi servirà per gli arrosti, per le carni grigliate o le patatine fritte. Infine, una polvere esotica molto in voga: il curry. Curry non significa niente: è una mistura di spezie che, come faceva Marchesi, potete personalizzare. Le spezie più usate sono: coriandolo, cumino, peperoncino, cardamomo, pepe nero, fieno greco, senape nera, un cucchiaino ciascuna la dose consigliata, poi ½ cucchiaino di curcuma, chiodi di garofano, noce moscata e zenzero, una punta di cannella. Potete acquistarle in polvere o ridurle in polvere da voi con il macina caffè. Fatele tostare tutte assieme in un padellino antiaderente per qualche minuto, senza bruciarle, lasciate raffreddare e poi invasate.

Un altro modo di pestare è il battuto di coltello. In questo caso il risultato sarà un trito, un po' grossolano di carne, pesce, salume o altro. Da noi il più famoso è il pestöm, il pesto del salame, la prova che in cascina si fa per vedere se il futuro salame sarà buono, i mantovani lo chiamano tastasal. Con questo pesto, sgranato e scaldato in padella potete condire casoncelli, fare risotti come quello alla pilota, polpette e altro. A Modena invece chiamano pesto modenese o cunza un battuto di lardo che viene poi mescolato a un trito di aglio e rosmarino, il tutto condito di sale e pepe. Serve per accompagnare le crescentine che tutti chiamano tigelle confondendole con lo strumento per cuocerle. Nulla ci vieta di spalmarle su fette di polenta abbrustolita o pane grigliato. A Brescia la nonna usava un battuto di lardo, che lei chiamava "sfrizidä" per condire gli gnocchi quando il burro non c’era, la raccomandazione era, ed è valida ancora oggi: “scalda il coltello sulla fiamma del gas”. Buona pestata a tutti.

Sotto: pesto genovese, pesto trapanese, salsa alle noci, la cunza modenese, il pisto napoletano, il curry e il tastasal.

























venerdì 12 giugno 2020


Scrivere una ricetta

Dopo aver scritto il menu, molti cuochi chiedono come si scrive una ricetta. Questi tempi di invasione cucinaria hanno decretato “scrittori” molti cuochi che fino a ieri non avevano scritto mai, e qualcuno perfino letto poco. All'improvviso ci troviamo invasi da libri scritti da chef televisivamente onnipresenti, leggendo questi libri, alcuni piacevoli, altri meno, ci ritroviamo a scorrere numerosissime ricette. Vi chiederete: ma quando cucinano, se stanno sempre a scrivere? Non abbiate paura vi sono degli ottimi ghostwriter che scrivono per loro.
Il sostantivo ricetta deriva da latino recepta e dal verbo recipere: prendere, da qui l’imperativo recipe, prendi, così iniziavano le prescrizioni mediche antiche. Con il tempo il termine è passato alla cucina. L’esercizio dello scrivere ricette è vezzo antico, il modo di scrivere è maturato nei secoli e ha seguito alcune regole segnate dal tempo. I primi testi risalgono ai Greci e ai Romani, Apicio e Archestrato da Gela (riportatoci da Ateneo) sono i primi a raccontarci la loro cucina ma ci vorranno secoli per trovare un linguaggio comprensibile e altri secoli prima di trovare una formula indicativa di dosi e procedimenti. I primi testi in lingua sono scritti principalmente da cuochi che si rivolgono ad altri cuochi e quindi le indicazioni sono stringate e danno per scontata la conoscenza delle dosi e di alcune procedure. Vediamo alcuni esempi.

Libro di cucina del secolo XIV di Anonimo

Cisame de pesse quale tu voy

Toy lo pesse e frigello, toy zevolle e lessale un pocho e taiale menude, po’ frizelle ben, poy toli aceto et aqua e mandole monde intriegi, et uva passa, e specie forte, e un pocho de miele, e fa bolire ogni cossa insema e meti sopra lo pesse.

Opera dell’arte del cucinare di Bartolomeo Scappi, 1570

Per fare un’altra sorte de di pasta piena di polpa di pollo

Battansi con li coltelli dui petti di capponi, che prima siano stati allessati, o arrostiti allo spedo, giungansi con essi quattro oncie d’amandole ambrosine monde piste nel mortaro, oncie due di mostaccioli Napoletani, & quattro oncie di cascio grasso, & otto rossi d’ova crudi, un’oncia di cannella, & un poco di zafferano, & d’essa compositione facciansene ciambellette overo facciansene fiadoncelli, & frigghisino nello strutto.

Trattato di cucina, pasticceria moderna, credenza e relativa confettureria di Giovanni Vialardi, 1854

Sogliola alla veneziana

Avrete 4 belle sogliole, levate la pelle d’ambe le parti, sventratele, lavatele, ponetele in tegame con 1 cipolla trita, un po' di prezzemolo, un bicchiere di vino bianco, sale, pepe, un po' d’acqua, cotte bollendo 12 minuti. Fate cuocere un po' di butirro con un po' di farina, versate la cottura tramenando, finchè formi una salsa, più mezzo bicchiere di fior di latte, fate cuocere a salsa ristretta, disposti i pesci sul piatto, versate sopra la salsa e servitele calde.

La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene di Pellegrino Artusi, 1891

Sformato di piselli freschi

Piselli sgranati, grammi 600.
Prosciutto grasso e magro, grammi 50.
Burro, grammi 30.
Farina, grammi 20.
Uova, n. 3.
Parmigiano, una cucchiaiata.

Fate un battutino col prosciutto suddetto, una piccola cipolla novellina e un pizzico di prezzemolo. Mettetelo al fuoco con olio e quando avrà preso colore versate i piselli condendoli con sale e pepe. Cotti che siano passatene una quarta parte e il passato unitelo a un intriso composto col burro e la farina indicati e diluito sul fuoco con sugo di carne o brodo. Poi mescolate ogni cosa insieme, il parmigiano compreso, e cuocete il composto a bagnomaria in uno stampo liscio col foglio imburrato sotto.

Come vedete il modo di scrivere si è affinato sempre più, si sono usati aggettivi appropriati e il linguaggio semplificato ma pur sempre godibile. Una famosa rivista italiana di cucina, nata nel 1929, ha sin dal primo numero dato molta importanza allo scrivere la ricetta, tant’è che fino agli anni ’60 scriveva “ciliege” e solo dopo quest’epoca decise che sarebbe stato meglio scrivere “ciliegie” e da lì non è più tornata indietro. Oggi abbiamo normative che ci impongono di usare sigle stabilite a livello europeo, ma nelle ricette spesso queste regole sono ignorate quindi possiamo leggere “grammi” in molti modi: g; gr; gr., e 200 grammi, 200g; 200 g; 200 gr; 200 gr.; la regola dunque qual è? Basta leggere il DidiSi, il Dizionario di sigle, abbreviazioni e simboli, per sapere che grammi si scrive solamente g senza né r, né punto. Altrimenti dovremmo, per coerenza, scrivere chilogrammi kgr o kg.; per quanto riguarda la grammatura 200 grammi si deve scrivere 200 g poiché lo spazio tra il numero e la sigla è obbligatorio. La cosa più infelice che si legge in questi ultimi anni è olio EVO o evo, al posto di olio extravergine di oliva, non è questione di risparmio di tempo è questione di non massacrare una delle più belle lingue al mondo.
La ricetta è composta da due parti: gli ingredienti e la procedura. Nelle riviste vi si aggiunge, qualche volta, i materiali occorrenti e le chilocalorie. Secondo me sono indicazioni abbastanza inutili la prima, i materiali si possono ricavare leggendo la procedura, la seconda, le chilocalorie, è una informazione relativa e fuorviante perché estratta dal contesto di un pasto e di tutta una giornata di lavoro e, a meno che siate a stretta dieta, non serve sapere che 100 g di lievito comportano circa 105 kcal o Cal se è fresco e di birra, se è secco invece ne ha 325.
Quindi, tornando alla ricetta, nella prima parte si elencano gli ingredienti e qui vi sono più scuole di pensiero: c’è chi li elenca in ordine decrescente dal più importante (1 kg di fesa di manzo) al meno significativo (sale e pepe q.b.); chi invece li elenca in ordine di apparizione (tagliate un cipolla sottile); chi in ordine sparso secondo l’estro. Voi sceglierete quello che più vi piace con una raccomandazione: siate coerenti e date sempre le informazioni precise del relativo peso evitando i pizzichi, i cucchiai e cucchiaini (da tè, da caffè, da minestra rasi e colmi) e tazze o bicchieri, l’imprecisione, e le cups, lasciatele agli americani.
Nella seconda parte è d’obbligo invece seguire la procedura, l’esecuzione, anche qui alcuni suggerimenti: se scrivete la ricetta della pasta e fagioli e suggerite i fagioli secchi, iniziate con l’indicare la messa a bagno dei fagioli stessi. Allo stesso modo l’eventuale marinatura della carne con verdure e vini o altro. Lo stesso vale per la preparazione di brodi o fumetti che deve premettersi alla esecuzione vera e propria della ricetta. In ossequio alla riduzione degli sprechi segnalate sempre un diverso utilizzo degli scarti. Scrivete in modo chiaro e semplice evitando francesismi, anglismi e latinismi se è possibile, naturalmente. I tempi che indicate siano precisi, nei secoli passati Scappi indicava il tempo che serviva per un’avemaria o un paternoster, ma lui lavorava presso il pontefice, oggi siate più laici. Anche per le temperature siate precisi perché il forno caldo o tiepido non dice niente ma 180 °C è una temperatura controllabile e precisa (e quella C usatela che sta per Celsius che la differenzia da °F che sta per Fahrenheit). Ricordiamo le parole di Marco Guarnaschelli Gotti:


“Oggi si fa strada un modo più razionale di scrivere la ricetta, in cui le quantità sono indicate secondo i limiti del buon senso, senza dimenticare che gli elementi non sono sempre uguali a sé stessi e che la dose deve essere una indicazione di massima, non una costrizione. Le ricette vanno quindi lette con attenzione e assunte come punto di partenza, ma, quando si è padroni delle basi, ci si deve sentire autorizzati se c’è l’estro, anche a modificare e a inventare, che poi è il fascino della cucina.


Ecco, volevo a mo’ di esempio passarvi una ricetta della famosa rivista ma mi sono accorto che la lingua italiana è diventata una specie sconosciuta anche lì:


Potete poi deciderli di cuocerli in padella, bagnando con del vino bianco, oppure dentro un bel sugo con il quale poi potrete condire la vostra pasta. Ancora più facili i calamari ripieni potete cucinarli al forno, circondati da qualche pomodorino, basilico e aglio: basteranno 20 minuti a 180 °.


Tocca a voi trovare gli errori, buona scrittura a tutti. Per chi volesse divertirsi consiglio di leggere “Come preparare un uovo sodo” di E. Jonesco o “Risotto patrio. Rècipe” di C. E. Gadda e, infine, “Il risotto romagnolesco” di G. Pascoli.











venerdì 5 giugno 2020


Scrivere di cibo, ricette e menu

Nel nostro girovagare tra le cucine e i cuochi ne abbiamo viste e lette di tutti i colori. Saper scrivere un menu da presentare al cliente è una cosa seria. Certo, direte, non è il mio mestiere e così lo faccio fare a qualcun altro. Sicuramente si può fare, ma l’altro deve essere un professionista serio e deve saper comunicare l’estro e l’originalità ovvero, al contrario, la grande tradizione della tua proposta. Qualche giorno fa un amico, grande chef, mi fece notare che qualche ristoratore usa malamente il singolare e il plurale, ho letto, mi disse: “spaghetto alla garibaldina, aria di prezzemolo e cozze tarantine”. Ma lo spaghetto nel piatto non va mai da solo, quindi è più corretto “spaghetti”. La mia risposta, un po' ironica, fu: “neanche il pisello lo servi mai da solo”. Ironia a parte vi sono delle regole che indicano molto chiaramente come si deve scrivere un menu. Basta leggere il libro di Auguste Escoffier “Le livre des menus” per venire a conoscenza dei principi a cui attenersi. Il grande cuoco francese fa molti esempi, ma per completarne la conoscenza serve leggere anche “Il gastronomo moderno” di Ernesto Borgarello, il capitolo “Le liste cibarie” in “L’arte Cucinaria in Italia” del dott. Alberto Cougnet e il “Lessico di cucina” di Riccardo Hering e Ferruccio Andreuzzi. Con questi libri potete affrontare il vostro menu l’unico ostacolo è che sono stati pubblicati dal 1904 (Borgarello) al 1960 circa (Hering e Andreuzzi) quindi non introvabili ma sicuramente costosi.
Menu è un sostantivo che ha due significati ben distinti. Il primo si riferisce a quando la parola serve a indicare l’insieme delle pietanze e delle bevande che entrano nella composizione di un pasto: è insomma il programma del pranzo o della cena. La stessa parola “menu” (che potete scrivere anche con l’accento, menù) indica però anche il cartoncino, più o meno grande, oggi anche un Tablet o una lavagna, sul quale il programma è trascritto, e un esemplare del quale è posto accanto al piatto, davanti a ciascun commensale o, nei ristoranti, viene presentato al cliente dal personale. La prima cosa da conoscere è l’ordine di presentazione e di servizio delle vivande. Tradizionalmente si intendeva seguire quest’ordine:

Antipasti freddi
Antipasti caldi
Minestre asciutte o in brodo
Crostacei, molluschi e pesci
Piatto di mezzo
Contorni e legumi
Piatto di carne
Formaggi
Dessert
Frutta

Oggi l’ordine potrebbe cambiare, ma in realtà si tende a semplificare e ridurre le portate. Alcune regole però sono fisse e spesso ovvie: non si devono ripetere gli stessi alimenti (vellutata di piselli e piselli al prosciutto), alici nell'antipasto e acciughe nel piatto di pesce, non ripetere i carboidrati: pasta e fagioli e risotto agli asparagi sono ammessi, come carboidrati, solo il pane e i dolci, naturalmente.
Scrive Escoffier: Il primo dovere di noi cuochi è quello di conformarci ai desideri dei padroni di casa o dei clienti” oggi si tende, al contrario, a far prevalere il concetto del cuoco rispetto al cliente. Quelle che Escoffier chiamava “aberrazioni del gusto restano tali anche oggi, facciamo un esempio servire un piatto di antipasto all'italiana composto, solitamente, da salumi e posto in questo ordine, cioè come antipasto, è un’aberrazione del gusto, in quanto i salumi, pur buoni che siano, collocati all'inizio sono un errore gastronomico, ma la tradizione italiana lo impone, quasi. Ho cenato molte volte con Gualtiero Marchesi a Parma e noi due abbiamo sempre chiesto che i salumi, straordinari quanto volete, ci fossero serviti come secondo piatto. Adesso occupiamoci di ortografia, sembrerà strano ma sul menu appaiono spesso degli errori clamorosi.

Singolare e plurale
Il sostantivo si scrive al singolare quando l’oggetto a cui si riferisce non si serva che come unità, es.: fegato alla veneziana, testina di vitello, lepre in civet, sella di vitello, coniglio alla cacciatora, gelato, sorbetto, torta…
Si scriveranno sempre al plurale quei sostantivi di cibi che non si possono servire come unità es.: lumache alla valtrumplina, sardine di Monte Isola, piselli alla normanna, fagiolini dell’orto, le uova anche uno solo.
Naturalmente vi sono sostantivi che possono essere adoperati al singolare o al plurale es.: sogliola alla Colbert o filetti di sogliola alla Colbert, quaglie alla toscana, ortolani alla francese, ma filetti di pesce persico.

Maiuscole e minuscole
L’obbligo della maiuscola è riservato al sostantivo in capo alla frase, quindi: Spinaci alla panna, Asparagi alla birbante, ma non all'interno della dicitura come Sogliole alla Normanna, ma Sogliole alla normanna. Naturalmente è d’obbligo la maiuscola per i nomi di persona o di località Salsa Roberto, Tartufi del Piemonte, invece Brasato alla piemontese. Un’altra cosa da evitare, quando è possibile, è l’attribuzione del piatto. Mi spiego meglio, scrivere Pollo alla Marengo pare corretto, invece no, corretto sarebbe Pollo della battaglia di Marengo, perché fino a quel giorno quel piatto non lo conosceva nessuno, quindi è più corretto scrivere: Pollo Marengo. Anche enfatizzare il proprio piatto è di cattivo gusto e l’uso improprio delle maiuscole lo evidenzia ancora di più, si scrive minuscolo perfino il re e il papa. Leggiamo spesso piatti del genere: Risotto al Prezzemolo, con Coriandolo fresco e Zenzero Altoatesino. Un altro vezzo è collocare l’articolo all'inizio come: “Il Risotto alla Piemontese della Zia Rosina” o “La pasta all'amatriciana come la vedo io” che sfiorano il ridicolo. Un altro ancora è dare al proprio piatto non il titolo ma quasi la ricetta intera:

“Pancia di vitello cotta a bassa temperatura,
aria di pomodoro e polloni di silene,
crema di tabacco al fumo di abete
e olio essenziale di pino mugo”

Il trucco, lo diceva Marchesi, sta nella semplicità sentite i suoi piatti: Riso, oro e zafferano; Raviolo aperto; Seppia al nero; Filetto alla Rossini secondo Gualtiero Marchesi; Dripping di pesce; Piramide di riso Venere; Da Kiev a Kiev; Quattro paste, Spaghettini al caviale; Rosso e Nero e così via. Per ultimo, mi raccomando, i vini: leggete le etichette e riportatele uguali: il Bracchetto non è un vino è un cane, il termine champenoise è proibito, usate metodo classico, whisky se uno, whiskie se due o più come ci insegnavano a scuola, invece ora le parole straniere restano al singolare quindi brioche non brioches. Qualcuno qui si stupisce sempre ma è una regola europea, ecco perché si dice gli euro e non gli euri.

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