Stimolato dall’amico Francesco Spacagna di Brescia nel Piatto, circa l’origine delle mariconde e accantonate le frasi rubiconde che vi circolano attorno, ho provato a delinearne le origini. Compito non facile dato che Mariconda è il nome di una nobile famiglia del Meridione d’Italia almeno fino al XVIII secolo e titolare di vie rioni e borghi da Scafati a Pompei (921 i cognomi in Italia).
Le prime citazioni di mariconde come piatto mangereccio risalgono al XVI secolo con i grandi protagonisti del tempo: Teofilo Folengo o, se preferite, Merlin Cocai e Christofaro da Messi Sbugo direttore delle vicende gastronomiche alla corte degli Estensi di Ferrara. Orbene, costoro citano la voce mariconda in due modi l’uno opposto all’altro. Folengo ne parla come minestra sostanziosa, Messibugo come un apparecchio da mensa, una sorta di pastume, vuoi come copertura, oppure come guarnizione e accompagnamento d’altro. Quest’ultimo, ne fa risalire l’utilizzo comune alla regione aragonese spagnola, l’altro ne fa notare la diffusione popolare degna dei suoi poemi maccheronici.
Da qui in poi, tra gli
storici, la confusione regna sovrana. Pronti a imboccare la strada nobiliare i
mantovani, che attribuiscono a Isabella d’Este moglie di un Gonzaga la
diffusione del piatto. Stranamente però questa preparazione non è mai citata da
Bartolomeo Stefani cuoco dei Gonzaga.
Bartolameo questa Arte tua gentile
Ha reso confusione infra i palati.
Mentre, con tuoi cibi delicati
Fatto hai, col’Arte tua Natura vile.
Questo cuoco di origine bolognese, fu protagonista delle feste dei Gonzaga e attento alla cucina del popolo tanto da utilizzare per far minestra i torsoli d’indivia e di lattuga, la zucca in molte preparazioni ma di mariconde, neppure l’ombra. Eppure, i mantovani giurano che le mericonde, come le chiamano loro, siano state introdotte da Isabella d’Este con una ricetta ripresa dal pranzo di nozze tra Ercole d’Este e Renata di Francia. In realtà compaiono, con questo nome l’anno successivo, il 1529, chiamate “mariconda alla ragonesa” . Come spiega bene Roberto Morelli in Appunti di gastronomica, 56 già Maestro Martino segnalava questa preparazione chiamandola “manfrigo o manfrigoli” e anche lo scalco Giovan Battista Rossetti anch’esso alla corte estense, dopo Messisbugo cita la mariconda, ma non si tratta mai di minestra bensì di una farcia vuoi per riempire fiadoni, vuoi per modellare a forma di cappesante come accenna lo stesso Messisbugo.
RAFFRONTO TRA LA RICETTA ORIGINALE
DI MESSISBUGO
E QUELLA DIVULGATA DA
TACCUINI STORICI
PER FARE DIECI PIATTI
DI MARICONDA ALLA RAGONESA
Banchetti… ediz. 1549 - p.
124 anastatica di Neri Pozza, 1992
Togli di formaggio grasso
libbre 3, di formaggio duro libbra una grattato, e d’uva passa monda libbre 2,
e torli di uova trenta, e libbra una di zuccaro, e libbra una di butiro fresco,
e oncia una di cannella fina pista e un pan bianco grattato, e pista bene ogni
cosa insieme nel mortaio.
E poi piglia detto pastume,
e ponilo in una stamegna, ed esprimilo in un torchietto più che sia possibile,
e quando sarà ben espresso fuori il succo, non potendo avere altrimenti quel
che resta dentro, tagliarai la stamegna intorno.
E poi lo detto pastume
tagliarai in fette, grandi o picciole come a te piacerà.
Poi le friggerai in libbre 3
di butiro fresco. Poi imbandendole gli porrai sopra oncie 6 di zuccaro.
Di questa vivanda te ne puoi
servire invece d’uva passa, ed è buona par empir cappe di San Giacomo e
fiordeligi o altre cose di pasta.
NOTE:
1 libbra= g 346
1 oncia= g 21-28
Zuccaro= zucchero
Butiro= burro
Pastume= composto
Espresso= spremuto
Stamegna= stamigna, panno per passare i brodi
Imbandendole= servendole
Cappe di San Giacomo= cappesante o conchiglie di San Giacomo, pettine
Fiordeligi= florilegio, composizione di cose miste
Come abbiamo visto non è una minestra (non c’è brodo), ma un impasto di
formaggio, pangrattato, uova e aromi, anche dolci (uva passa e zucchero)
tagliato a fette poi fritto nel burro, quindi zuccherato. Lo stesso Messisbugo
suggerisce di usarlo in altri modi come ripieno per cappesante o altre
composizioni varie miste, e suggerisce per queste di eliminare l’uva passa.
TACCUINI STORICI, OGGI GASTROSOFICI
Mariconda alla ragonese
Pane raffermo, latte, burro, uova, grana, noce
moscata, brodo di carne, sale, pepe
Preparazione
In un recipiente sbriciolate della mollica di pane
raffermo e ricopritela di latte, lasciandola riposare. Sciogliete del burro in
un tegame, aggiungete il pane ben strizzato dal latte, ponete sul fuoco, e fate
asciugare avendo cura di mescolare il tutto. In una terrina mettete il pane,
delle uova, grana grattugiato, noce moscata, sale e pepe, amalgamate bene il
composto e lasciate riposare coprendo con un canovaccio. Scaldate del brodo di
carne, quando alzerà il bollore prendete il composto a mezzo cucchiaio alla
volta, e gettatelo nel liquido fino ad esaurimento. Cuocete per pochi minuti,
travasate la minestra in una zuppiera, e servitela immediatamente con a parte
del formaggio grattugiato. (In origine questo era un piatto dolce, nell’impasto
del quale entravano zucchero, uvetta e cannella.)
NOTA:
Dove abbia preso l’autore di questa ricetta il brodo,
il latte, che non compaiono nella ricetta originale. Poi ancora: chi ha detto
mai di cuocere l’impasto nel brodo, non certo Messisbugo. È questa una versione
diversa di qualche secolo dopo adattata a minestra nella logica evoluzione
della cucina popolare che intravede l’utilizzo di pane avanzato, o hanno
convissuto nel panorama gastronomico tante versioni con nomi simili?
RIFLESSIONI STORICHE E GASTRONOMICHE
Iniziamo con i nomi incontrati: maricondarum, manfrigo,
manfrigoli, mariconda alla ragonesa, marangole, mericonde, maricùndule,
minestra mariconda, mariconde alla campagnola…
Dallo Scaramella: mariconde, mericonde: 1° piatto a base di pane; - alla campagnola
Dal Melchiori: nessuna voce
Dal Pinelli: nessuna voce
Qualcuno sostiene che deriva:
la prima parte dal Marì, il caldanino che non è però un recipiente di cucina ma
un aggeggio per scaldarsi le mani, la seconda dal “tragitto” che porta il cibo
allo stomaco: condeot=condotto. Supposizioni fantasiose, sicuramente.
Nel Novecento molti autori citano un piatto di nome simile: il più illustre è: “L’arte cucinaria in Italia” con la ricetta: Mericonde del dottor Alberto Cougnet (1910) che però sono talmente raffinate da sembrare degli gnocchi alla parigina o dei bignè bolliti nel brodo vista la presenza di lievito. Ne scrive anche Petronilla (1947) nel suo primo libro e altri autori consimili copiati tra loro. Se la mariconda di Messisbugo (1529) assomiglia più a dei fiadoni, di cui Brescia era famosa (basta leggere Ortensio Lando, 1554) le marangole di Giovanni Felice Luraschi (1853) sembrano delle palline di pasta reale diffuse sui deschi della Padania tra Lombardia ed Emilia. Camillo Pellizzari riporta sul suo “La cucina bresciana” (1972) due ricette: Minestra mariconda e Mariconde alla campagnola,
A convincerci è, al solito, Teofilo Folengo, monaco di
origine mantovana ma vissuto 25 anni tra Brescia e Lonato. Nel suo Baldus (1552)
ad un certo punto racconta:
“e così Comina dà inizio al suo
canto, gonfia di scodelle di mariconda”.
Ecco la minestra servita in scodelle.
E allora? Come si può avvicinare Messisbugo con la
cucina popolare di Folengo. Evidentemente ci sta, come spesso accade in cucina,
un po' di confusione: c’è chi vorrebbe che un piatto avesse sempre una nascita
nobile, che lo circondasse un alone di mistero, che l’inventore fosse un dignitario
di corte come appunto Christoforo da Messisbugo alla corte estense. Un po’ di
confusione non guasta, le citazioni storiche, spesso sbagliate, (Ercole II si
sposò in Francia nel 1528 con Renata di Francia) le mariconde alla ragonesa le
mette nel menu l’anno seguente e Isabella d’Este (che avrebbe portato la
ricetta a Mantova) non era presente a quella cena. È quindi, come diceva
Bartali, tutto da rifare? No, certo.
Si tratta di cose diverse perché la cucina dei
principi non è quella del popolo, anche se prima o poi si incontreranno (la
pizza della regina Margherita) come dimostra la predilezione di tanti cuochi di
ristoranti fine dining per le frattaglie, la trippa, il panino, epperò gourmet,
ecc.
Quindi torniamo alla cucina di principi e di popolo,
come veniva detta la cucina mantovana perché è tra Mantova, Cremona e Brescia
che si possiede la paternità gastronomica di questo piatto. Lasciamo stare i
quarti di nobiltà e affrontiamo l’argomento seriamente: si tratta di una
versione che alla sua base ha la cultura del riuso, del recupero o se vogliamo
dell’avanzo della mensa. La materia prima è il pane, che non si butta mai per
rispetto vuoi religioso (Cristo spezzò il pane e ne diede agli apostoli) vuoi
per rispetto della fame altrui. Così nascono ricette per il suo riutilizzo come
gli gnocchi di pane, i canederli. i casoncelli della Bassa, il ripieno della
gallina e la nostra minestra mariconda. Da noi si usa più la versione povera,
mentre nel Cremonese e nel Mantovano usano aggiungere all’impasto carne lessa tritata
di pollo o manzo e quindi un altro recupero. Chiudiamo con una citazione a
proposito di recupero di una canzone poco conosciuta (La dieta) di Luca
Barbarossa:
“---Pe’ fà la picchiapò ce vò er
bollito
Taiato a fette arte mezzo dito…”
16 aprile 2023
Da leggere:
Christoforo da Messisbugo: Banchetti
e compositione di vivande; Ferrara 1549
Agostino Melega La tradizione del
cibo salvato; sul web
Roberto Morelli La mariconda; Appunti
di Gastronomia n. 56; Biblioteca Alma, Colorno (PR)
Nelle immagini: Il libro di Messisbugo; la rivista Appunti di gastronomia; il mio libro sulla cucina bresciana che riporta la ricetta cercate la seconda edizione poiché questa è esaurita.
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