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giovedì 31 dicembre 2020


Le tradizioni del Natale Bresciano


            È Natale, un Natale particolare, per molti doloroso, niente però vieta di recuperare l’intimità familiare che questa ricorrenza suggerisce. Nessun divieto fermerà la voglia di stare insieme, di raccogliersi e di recuperare il vero senso di questa festa, siate voi laici o cattolici, guelfi o ghibellini o di qualsivoglia religione o credenza.

            Sono state diffuse, fino a pochi decenni fa, alcune tradizioni che si condividevano con altre popolazioni vuoi montanare, vuoi contadine. La cucina era il luogo di aggregazione, assieme alla stalla, per il caldo emanato dal camino o dalla stufa (nella stalla invece erano gli animali con il loro corpo a scaldare l’ambiente).

            Avvicinandosi il Natale venivano attuate alcune tradizioni come quella di accendere un ceppo che doveva durare dodici giorni (dalla notte di Natale fino all’Epifania). Carbone e cenere del fuoco ritenuto benedetto venivano usati, ci racconta Gabriele Rosa nel 1870: “qual talismano contro le procelle”.
Oltre al ceppo, prima di andare a letto, venivano disposte attorno al focolare due sedie perché, passando nella notte, la Madonna e S. Giuseppe potessero sedersi, riposarsi e scaldarsi. Assieme al ceppo (di solito di rovere, èl sòch dè rùer), venivano bruciati rami e fronde di ginepro e di lauro il cui aroma si riteneva preservasse dalla corruzione ed era emblema di immortalità. Al suono della mezzanotte tutti uscivano per strada per ascoltare e cantare “le pastorelle” e per osservare i grandi fuochi accesi sulle alture. Fino agli anni Cinquanta, a Pezzaze e altrove venivano sparati mortaretti, altri scaricavano i fucili.

            La Vigilia è tradizionalmente di magro, dopo l’Avvento che ha visto anche giorni di digiuno. Nella Bassa è usanza consumare l’anguilla, in Città erano d’obbligo l’anguilla e i pesciolini marinati, la cotognata o la mostarda di Cremona. In Valcamonica la Vigilia è assoluto digiuno ma l’antivigilia è riservata alla gnochéra una scorpacciata di gnocchi, perché:

Chi nó disüna la Vigilia dè Nedal, nó conós né bé, né mal

            Il Natale era ed è ancora, fra le solennità più sentite dal popolo bresciano. Particolarmente frequentata la Novena, accompagnata da zampognari o pìa baghècc con melodie ripetute all’infinito (piva, piva, l’olio d’oliva!). Molto diffuso dalle notti precedenti il Natale fino all’Epifania il “Canto della stella”, con un particolare rito che variava da paese a paese, ma che sostanzialmente consisteva nel percorrere da parte di un gruppo di canterini le vie del paese suonando e cantando nenie natalizie portando in alcuni luoghi sopra una pertica una stella illuminata da candele.
Negli ultimi giorni della Novena, specie nella pianura, vigeva l’usanza del caidù (probabilmente dal francese “cadeau” = dono) per la quale, chi appena era in grado, costruiva nel cortile o sull’aia una catasta di pezzi di legna, alla quale potevano attingere i poveri per procurarsi legna per l’inverno, senza essere osservati. Dall’abitudine di formare queste cataste, nasce l’uso (o l’accettazione) dell’albero di Natale, diffuso dapprima nel Nordeuropa, approvato da Martin Lutero perché l’abete, sempreverde, era presagio di primavera, di nuova vita, così come il vischio e l’agrifoglio sono simboli di vita.

            Particolare significato aveva in Valtrompia l’acqua attinta a mezzanotte, ora in cui era stato lavato il Bambino Gesù, dopo la sua nascita. A Natale qualcuno mette via un pane. Lo avvolge in un panno bianco e lo conserva. A Sant’Antonio, dopo aver portato le bestie sul sagrato della chiesa, farà benedire quel pane per darlo in pasto alla vacca partoriente e proteggere il vitellino nascituro. Alcune previsioni del tempo del giorno di Natale: se il cielo fosse stato sereno i raccolti sarebbero stati buoni, in caso contrario si preannunciavano sciagure e malattie.

A Nedàl èl dé èl sè slonga èn pas del gal

E adesso a tavola: ecco cosa si mangia.

La Vigilia:
Pesciolini e Anguilla marinati, sottolio e sottaceti casalinghi, varù (vaironi) èn consa.
Chi volesse approntare una cena:
Casonsèi de puina (di ricotta), i malfacc, evitate in questo periodo, di chiamarli strangolapreti.
Tinca di Clusane al forno con polenta, oppure spiedini di anguilla con verdure e polenta tiragna.
Insalata del Preòst (Prevosto) per farsi perdonare qualche misfatto.
Niente dolce sarebbe troppo e trasformerebbe l’attesa in un giorno di festa troppo grande.

Il Santo Natale:
Salumi nostrani di vario genere, salame, pancetta, coppa, òs de stòmèch (osso dello stomaco un salume particolare di Lonato).
Minestra di Mariconde o Casoncelli di carne al burro e salvia ma anche Tagliatelle con il sugo d’anatra. Gallina con l’empiöm (ripieno) o una tacchinella ripiena di castagne o l’anatra con castagne e prugne se non l’avete usata per le tagliatelle. Verdure bollite miste. Mostarda mista di Cremona.
Marù dè la nef. Persicata. Marronata. Torrone.
A merenda si può servire una fetta di Bossolà bresciano con brodo di giuggiole o salsa inglese o zabaione.

Ancora qualche consiglio: vista la situazione economica del 2020 cercate, il più possibile, di aiutare la nostra economia acquistando prodotti locali i nostri vini e i nostri meravigliosi formaggi. Niente di più buono, in tutti i sensi, sarà veder portare in tavola un assortimento di formaggi bresciani, ne facciamo per tutti i gusti: Bagòss, Silter, Nostrano Valtrompia, Grana Padano, Fatulì, Casolet, Formaggelle delle Valli, Gorgonzola, Tombea, Sabbio, Conca, Salva Cremasco, Robiole, Caprini, Ricotte con Burro di malga e Mascarpone, tutti accompagnati dai vini della Franciacorta e di Cellatica, del lago di Garda e della Lugana, di Botticino, della Valcamonica, di Capriano del Colle…

Chi teme per la dieta si ricordi che non s’ingrassa da Natale a Capodanno ma da Capodanno a Natale.

El mangià no ‘l tè fa mal, se tè set bù dè misüral.
Buone Feste a tutti!

Sotto: Buon Natale, il Canto della Stella, il ciocco, la gallina ripiena, la mostarda di Cremona, il Bossolà di Massari. 

  

 







 

giovedì 24 dicembre 2020

 Le fonti bresciane

    Quando si tratta di analizzare la storia bresciana, anche quella alimentare e gastronomica, le fonti vanno ricercate con cura poiché i bresciani hanno sempre dato poco peso alle cose relative al cibo. È anche vero che gli storici o gli appassionati come il sottoscritto hanno trascurato una serie di documenti che stanno, probabilmente, nascosti negli archivi pubblici, religiosi e privati. Io sono sicuro che esistono documenti e carteggi che raccontano


di pranzi, cerimonie e feste svoltesi nel nostro territorio nei secoli passati. A nostra disposizione da qualche decennio abbiamo alcuni testi come la citatissima “La massera da bé” di Galeazzo dagli Orzi pubblicata nel 1554 molto interessante l'edizione di Grafo del 1978 con i commenti del prof. Giuseppe Tonna parmense ma docente a Brescia. 

   Fonte importante anche le “Vinti giornate dell'agricoltura” di Agostino Gallo uscito nel 1570 dopo una serie precedente sempre aggiornata con aggiunte da 10, 13 e infine 20 giornate, nel quale troviamo tra dialoghi e consigli anche ricette. Con gli anni si sono appalesati altri testi sulla caccia, sull'agricoltura e sulla pesca. Tutti questi documenti hanno permesso a molti autori, storici, letterari, gastronomi di evidenziare questo o quell'aspetto della cultura, delle abitudini e dei modi di essere dei bresciani.

    Un altro testo importante sono i “Ricordi d'agricoltura” di Camillo Tarello del 1557 agronomo gavardese che, nella sua tenuta La Macina sperimentava le sue tecniche. La rotazione dei terreni, il maggese sono sue rielaborazioni di antiche tecniche agricole ormai superate e spiegate scientificamente. Pare fossero gli inglesi i più sensibili al suo approccio, vista la debole accoglienza locale.

    Una persona straordinaria per il suo contributo speciale alla storia e alla cultura bresciane è stato sicuramente monsignor Antonio Fappani che da poco due anni ci ha lasciato. La sua opera più invidiata (e anche criticata, spiluccata da malintenzionati e acrimoniosi) è sicuramente l’"Enciclopedia Bresciana", non che il “don" non avesse prodotto altro: Massimo Tedeschi, che ha accompagnato per anni don Fappani, enumera in 1618, sì, avete letto bene, le opere attribuite a monsignor Fappani. Tornando alla nostra enciclopedia questa è comparsa nel 1972 come inserto della “Voce del Popolo" per un paio di volumi da rilegare, poi comparvero i primi volumi in libreria, fino al settimo del 1987. Un’interruzione di quattro anni poi la ripresa, l'ultimo volume, il 22° nel 2007 per un totale di 51.324 voci. Dal 2015 la Fondazione Civiltà Bresciana ha proceduto alla digitalizzazione dell'intera opera giunta ad oggi al XVII° volume con oltre 40.000 voci disponibili. In questa monumentale opera le voci relative all'argomento enogastronomia sono numerose dai protagonisti dell'agricoltura bresciana come Pastori, Bonsignori e tanti altri, alle voci localistiche di luoghi dove son accaduti fatti legati a vicende che in qualche modo toccano il mondo enogastronomico e agroalimentare come la firma della cosiddetta “Pace di Bagnolo nel 1484” avvenuta all’Osteria delle Chiaviche (oggi Quattro Camini) a dimostrazione dell'esistenza della suddetta osteria e testimoniata da una pietra scolpita e posizionata nel lato nord del locale. Questo fatto porta quelli come me a credere che se questo locale è stato scelto per la firma della pace, doveva essere molto conosciuto e quindi precedente a quella data il ché mi porta a supporre che questo locale si possa collocare tra i più antichi del mondo, tuttora aperti al pubblico, e mettere in dubbio il record detenuto dall'Osteria Al Brindisi di Ferrara. 

    Altri elementi si riscontrano nella descrizione del singolo comune che, oltre a conoscere i vari parroci e sindaci succedutisi, sappiamo anche l'economia del paese, le feste e le sue tradizioni anche gastronomiche. Troviamo così abitudini di consumare questa o quella preparazione: sono spesso casoncelli, spiedi, carni, pesci e altro. Interessanti anche abitudini di consumare o usare erbe selvatiche, vuoi per usi comuni di cucina ma spesso per curare fastidi e malattie. L'enciclopedia è una fonte d'inaudita conoscenza su prodotti, coltivazioni, modi di pescare, di trattare gli alimenti, conservarli: i pesci, le carni, le verdure e tutto ciò che viene poi portato in tavola. 

   Un'altra fonte, più recente, si fa per dire, nata nel 1984, è “AB Atlante Bresciano”, fondato da Roberto Montagnoli e poi diretto da Carlo Simoni, poi Ugo Ronfani e oggi l'ottimo Nicola Rocchi. Da questa rivista patinata vi chiederete cosa trovare oltre alle belle fotografie. Nossignori passato un periodo,  diciamo così, paesaggistico, negli anni ’90 inizia a emergere la consapevolezza che il cibo aveva una sua dimensione anche ambientale, oltre che tradizionale, storica, letteraria. Si consulterà dapprima Giorgio Sbaraini, eppoi il sottoscritto. Alla fine del millennio, nel 1999, uscirà: “Saperi e storie della cucina bresciana" un allegato al trimestrale tra i più apprezzati del magazine bresciano. Dagli anni ’90 appaiono i primi approcci al cibo, al desco e alla gastronomia a firme varie, compresa la mia, si tratterà di abitudini, tradizioni, spiedo (in un numero del 2011 si delinea la strada dello spiedo bresciano) idee, suggerimenti di intervento poco raccolti da istituzioni disattente. Interessanti comunque, racconti di esperienze di agricoltori, ristoratori, esercenti e varie esperienze da seguire. Da questi lavori, lunghi di secoli, sto raccogliendo, assieme alle voci dell'Enciclopedia, di vari dizionari bresciano-italiano dal Melchiori in poi, i dati, le voci e le curiosità, per poter produrre un dizionario gastronomico bresciano dove le nostre abitudini, vezzi, tradizioni trovino lo spazio adeguato. Spero di farcela. Buon anno nuovo, che l’annus horribilis scompaia per sempre. Mai come quest'anno abbiamo sperato nel cambiamento, che questa brutta esperienza ci abbia ci abbia insegnato qualcosa è nell'animo di tutti gli uomini di buona volontà. Auguri!

Ecco i testi citati
















venerdì 11 dicembre 2020


Il piatto di Santa Lucia 


        La notte fra il 12 e il 13 dicembre arriva l’asinello di Santa Lucia, una tradizione lombardo veneta ma che “emigra” fino al Trentino e al ducato di Parma e Piacenza. È una santa siracusana molto venerata in mezza Europa, specie nei paesi scandinavi dove all’inizio dell’inverno la luce del sole viene a mancare e allora si prega santa Lucia che, almeno a primavera la riporti. A lei sono attestati numerosi miracoli legati a carestie e malattie perniciose. A Siracusa durante una di queste non rare carestie, i fedeli raccolti in chiesa il 13 dicembre videro una quaglia annunciare l’arrivo di un bastimento carico di frumento. Il grano miracolosamente giunto in porto non fu macinato ma consumato bollito: e lo chiamarono cuccìa in onore della santa. Ancora oggi la cuccìa è un dolce tipico siciliano, a base di grano bollito e ricotta di pecora o crema di latte bianca o al cioccolato. Viene guarnito con zuccata, cannella, pezzetti di cioccolato e scorza di arancia grattugiata, ed è tradizionalmente preparato e consumato in occasione della festa di Santa Lucia. È una tradizione in particolare del palermitano e del siracusano, diffusa nel resto della Sicilia, anche in versione salata. 

        Una leggenda di Verona vuole invece che intorno al XIII secolo, in città, in particolare tra i bimbi, era scoppiata una terribile ed incurabile epidemia di “male agli occhi”. La popolazione decise allora di chiedere la grazia a Santa Lucia, con un pellegrinaggio a piedi scalzi e senza mantello, fino alla chiesa di Sant'Agnese, dedicata anche alla martire siracusana, posta dove oggi c'è la sede del Comune, Palazzo Barbieri. Il freddo spaventava i bambini che non avevano nessuna intenzione di partecipare al pellegrinaggio. Allora i genitori promisero loro che, se avessero ubbidito, la santa avrebbe fatto trovare, al loro ritorno, tanti doni. I bambini accettarono ed iniziarono il pellegrinaggio; poco tempo dopo l'epidemia si esaurì. 

        Nella città di Brescia ed in tutta la sua provincia Santa Lucia è molto amata, soprattutto dai bambini, che da lei ricevono i regali desiderati. Qui la santa svolge sostanzialmente le veci di Babbo Natale. Come la leggenda popolare racconta, durante la notte tra il 12 ed il 13 dicembre, Santa Lucia passa per tutte le case con un carretto trainato da un asinello, facendo risuonare un campanello d’argento, e distribuisce ai bambini buoni dei doni e dolciumi. Per ricevere i doni i bambini devono scriverle una letterina la settimana prima del suo avvento e la sera prima preparare del latte per la santa e della paglia per l’asinello da disporre sotto la cappa del camino, dal quale la santa scenderà. Poi devono andare subito a letto, chiudere gli occhi ed addormentarsi immediatamente, perché la santa non vuole assolutamente farsi vedere. Se i bambini cercheranno di scorgerla, la santa gli butterà della cenere negli occhi secondo alcuni. Qualora i bimbi non siano stati abbastanza buoni e obbedienti durante l’anno, al posto dei doni richiesti, riceveranno solo del carbone. I cremonesi sostengono che fu anche per merito loro, sentite questa storia: 

        Si narra che il territorio bresciano sia stato colpito da una gravissima carestia. Gli abitanti di Cremona organizzarono una carovana di asinelli carichi che raggiunse Brescia presa nella morsa della fame. Poiché la distribuzione avvenne di nascosto, la notte tra il 12 e il 13 dicembre, si pensò che fosse stata una grazia della martire. L'antica ospitalità, poi, voleva che si accogliessero nelle case i pellegrini che cercavano riparo dal freddo e questi ultimi, a loro volta, prima di ripartire, dovevano lasciare un dono sulla porta della casa che li aveva accolti. Con il trascorrere del tempo si consolidò così l'usanza di fare regali in occasione del 13 dicembre e nacque la tradizione di Santa Lucia che accomuna bresciani e cremonesi. È però attestato che a Brescia è festeggiata dal 1438, quando si portarono doni sul sagrato di San Pietro de Dom per celebrare la resistenza all'assedio del Piccinino. 

        Santa Lucia “la giornata più corta che ci sia”, un tempo, lontano qualche secolo, questa giornata corrispondeva al solstizio d’inverno, poi spostato tra il 21 e il 22 dicembre, quello che lascia perplessi è che pare si confermi il detto popolare e secondo gli scienziati: vicino al 13 dicembre si ha effettivamente una riduzione "apparente" delle giornate, perché il Sole tramonta prima. Al solstizio il sole tramonta generalmente circa 3 minuti dopo rispetto a Santa Lucia, ma è l'alba che ritarda il suo arrivo. I bambini, infatti, in attesa dei regali, affermano che la notte di Santa Lucia: “è la notte più lunga che ci sia”. E prima di dormire devono cantare una canzoncina propiziatoria: 

“Santa Lucia bella dei bimbi sei la stella,
pel mondo vai e vai e non ti stanchi mai;
trova la porticina di questa mia casina,
poi continua la strada per tutta la contrada,
e poi continua il viaggio per tutto il mio villaggio.
A tutti i bimbi buoni Tu porta dolci e doni,
ma i regali più belli portali ai poverelli”. 

Serve ricordare che un tempo non c’era tutto quel bendidio che c’è oggi? 

«Santa Lussia la passerà
co’ la borsa del papà 
se ’l papà el ghe na mia 
Santa Lussia la passa mia». 

Cos’è questo tripudio, questa abbondanza che trasforma, o riduce, ogni festa, anche la più sentita, in una mercificazione, in un merchandising, ricorda Elio Palvarini nella poesia “Santa Lüsia dè ’na olta”: 

“Tre portogài, èn pìgn dè caramèle, 
chèle dè söchèr co’ la carta dora, 
’na pöa dè pèsa, però dè chèle bèle, 
col vistìt a fiur e la facina mora, 
’na machinina dè lata culurada 
co’ la ciaitina che ocór per fala ’ndà”. 

        Il piatto conteneva in effetti: i portogalli, che oggi chiamiamo arance ma non siamo i soli a chiamarli in questo modo in apparenza insolito: in greco fa πορτοκάλι che sarebbe: portocali; in albanese portkall, in rumeno portocală, in napoletano purtuallo. La spiegazione sta nel fatto che l’arancia dolce che in arabo si dice burtugàl deriva da quella amara che in persiano fa nàrang e in spagnolo naranja. Questo frutto dolce, coltivato dagli arabi e portato in Sicilia era commercializzato in Occidente dai portoghesi. 

Le caramelle di zucchero, quelle con la carta frastagliata, ma anche quelle di orzo che la nonna preparava da sé versando dello zucchero caramellato biondo sopra la lastra di marmo oliata, le raccoglieva e le tagliava in pezzetti che incartava come le caramelle. Dei fichi secchi, dei datteri dolci e, più recentemente, dei soldoni di cioccolato come buon auspicio. 

Ma i bambini più grandicelli (che, se vogliono, sanno essere cattivi) hanno inventato una filastrocca che è variamente applicata alla nostra Santa come alla Befana: 

“Santa Lucia la vien di notte, 
con le scarpe tutte rotte, 
col cappello alla romana, 
Santa Lucia… l’è la tò mama!” 

Buona Santa Lucia!

Qui sotto: la santa protettrice della vista, il canto di Santa Lucia, la letterina, l'asinello di Santa Lucia.






venerdì 4 dicembre 2020



Nomenclatura in cucina 


        Spesso nei nomi di alcuni piatti troviamo termini che a noi contemporanei non dicono niente, ma invece nella storia della cucina hanno un loro senso compiuto. Dedicare un piatto o una preparazione a qualcuno è stato per molto tempo un vezzo molto diffuso. Nominare un piatto “alla moda di, o alla maniera di” si usa forse più oggi che ieri: triglie alla livornese, gnocchi alla parigina, indicano preparazioni precise, tecniche ormai acquisite, chi non lo capisce significa che deve studiare ancora. Abbiamo già affrontato il tema del menu, di come si scrive e si presenta al cliente e non ci ripeteremo qui. Invece a complemento di quello vorremmo far notare che, specialmente nei menu francesi, ancora oggi, sono citati modi e mode di qualche secolo addietro e ci divertiremo a spiegarlo. Facciamo qualche esempio: Argenteuil, Bercy, Bresse, Périgord, sono località note per le loro produzioni di, rispettivamente: asparagi, vini, pollame e tartufi (anche se Bresse stava anche per Brescia). Blanquette è invece un’uva bianca della Linguadoca che dà il nome a preparazioni, di carne, vitello, agnello, in salsa bianca. Anche Chantilly è una borgata e castello francese, del principe di Condé, dove trovò la morte, per suicidio, il grande Vatel nel 1671 al quale è attribuita la creazione dell’omonima salsa: si tratta di una serie di errori, per noi la “chantilly” è un mix di panna montata e crema pasticcera ma il suo nome vero dovrebbe essere “salsa diplomatica o chantilly all’italiana”. La vera chantilly è una mélange di albumi montati con zucchero a velo e profumata alla vaniglia, questa preparazione risale al XV secolo. 

        Poi ci sono le “dedicatorie” piatti o preparazioni dovuti o intitolati a personaggi, nobili o artisti in generale; citiamone qualcuna tra le più note, andiamo in ordine alfabetico per non far torto a nessuno: Béchamel è una salsa che un nobile francese Louis de Béchamel per far bella figura con il re Luigi XIV si attribuì senza averne il merito. Da questa salsa deriverebbe la Mornay, nata nel ristorante parigino Grand Véfour e dedicata ai marchesi di Mornay; Bellini è il nostro compositore al quale è dedicato un gelato, mentre il famoso omonimo cocktail fu dedicato da Giuseppe Cipriani dell’Harry’s Bar di Venezia al pittore (anch’esso Bellini) detto il Giambellino; a Cipriani si deve attribuire anche l’invenzione del Carpaccio dedicato a un altro pittore, Vittore Carpaccio; Brillat-Savarin, il famoso gastronomo si vede dedicati numerosi piatti ma la seconda parte del suo cognome (Savarin) viene a indicare uno stampo rotondo e scanalato a forma di anello; a Cavour sono dedicati numerose preparazioni diverse, anche se pensando a lui ci torna in mente la finanziera che lui amava gustare al Cambio di Torino. Chateaubriand, scrittore francese al quale è dedicata la ricetta che porta il suo nome, un taglio ricavato dalla testa del filetto tanto da ottenere una doppia bistecca. Cordon Bleu è una onorificenza francese divenuta prima, una cotoletta farcita di prosciutto cotto e formaggio filante, all’inizio di filetto poi di pollo e qualsiasi altra carne, infine una famosa scuola francese e sinonimo di buongustaio; è una ricetta recente del secolo scorso e di origine USA. Frangipane, è il nome di una crema e di una farcitura a base di mandorle, l’origine è incerta ma sono tutti concordi che derivi dal cognome italiano Frangipani. Nellie Melba, Sarah Bernhardt, Adelina Patti e Adelina Ristori, la prima è una famosa cantante alla quale Escoffier dedica un famoso dessert, la seconda una famosa attrice di teatro alla quale hanno dedicato molte torte, le due Adeline, anch’esse attrici di teatro hanno in comune l’attribuzione di tanti piatti a base di riso. La Mayonnaise, come la chiamano i francesi, la cui origine è disputata tra Francia e Spagna senza giungere a nessuna conclusione certa, qualcuno sostiene che derivi dalla aioli, una salsa provenzale alla quale sia stato eliminato l’aglio. Parmentier è un agronomo e nutrizionista francese a cui si attribuisce la diffusione della patata in Europa, di conseguenza i piatti a lui dedicati sono a base di quel tubero. Robespierre, avvocato e rivoluzionario “incorruttibile”, la sua passione politica era eccitante tanto da dedicargli preparazioni piccanti al peperoncino. Rossini il nostro compositore pesarese e ghiotto di tartufi (di Acqualagna) e foie gras tanto da volerli mettere ovunque, spesso costringeva i cuochi a modificare i piatti secondo il suo genio gastronomico. Quando uno chef si permise di rifiutare, il compositore infuriato disse “Alors, tournez le dos!” (andatevene), qualche tempo dopo lo chef francese Moisson da un cuore del filetto trasse il tournedos che conosciamo oggi, con il foie gras e il tartufo, naturalmente. Lui genio della musica ma anche amico di Carême, trascriveva anche le ricette ma soleva affermare: 

"Non conosco un’occupazione migliore del mangiare, cioè, del mangiare veramente. L’appetito è per lo stomaco quello che l’amore è per il cuore. Lo stomaco è il direttore che dirige la grande orchestra delle nostre passioni". 

        Sandwich, il lord, forte giocatore di carte, per non perdere tempo si faceva confezionare dei panini e poter continuare la sua estenuante attività, questi panini, che già avevano il loro nome, presero il nome del lord e ci volle d’Annunzio, nel 1926 a Torino, per togliere di mezzo quel nome inglese e chiamarlo, italianamente, tramezzino. Stroganoff (o Stroganov) era un conte russo al quale il suo cuoco pensò di dedicargli una fricassea di manzo, o di filetto, condita con la salsa smetana, una panna acida all’uso russo, secondo altri fu un medico a curare i pazienti con questa ricetta. Il duca di Wellington colui che sconfisse Napoleone a Waterloo, oggi è più conosciuto per il famoso filetto alla Wellington che tutti conosciamo. Che non si conosce invece è la sua origine tanto che nel manuale di Borgarello (1904) del filetto non si fa cenno. Forse ha ragione quella cuoca inglese che lo vuole, non dedicato al duca, ma ideato a Wellington, capitale della Nuova Zelanda negli anni ’60 del secolo scorso. 

        Infine, una terza categoria, molto vasta: nomi che si riferiscono a preparazioni o metodologie di cucina: Blanc Manger, il Borgarello ci invita a non chiamarlo biancomangiare, chissà perché: il nome originale è blammangeri, già conosciuto fin dal Medioevo portato, con le mandorle, in Sicilia dagli arabi e poi diffuso in Spagna, in Sardegna e nel resto d’Europa. Principalmente, trattasi di un dolce ma con il tempo si trasforma in un budino a base di carni bianche o pesce. Brunoise, Mirepoix, Julienne, Concassé, Chiffonade tutti termini di cucina con una spiegazione precisa: la brunoise è un taglio di verdure o frutta a dadini da 1 a 3 mm; la mirepoix è un po' più grande della precedente fino a 5 mm; per ottenere questi tagli si parte dalla julienne cioè un taglio a bastoncino di varie verdure e poi, perpendicolarmente si ottengono i dadini; la concassé è un taglio riservato ai pomodori pelati dello spessore di 5 mm; la chiffonade la conosciamo bene noi bresciani, è il taglio sottile dei ridicì quello che usava la nonna. Civet, Salmì e Ragôut, si tratta di cotture in umido la prima riservata alla selvaggina da pelo (lepre, camoscio, cinghiale) dove il sangue dell’animale funge da addensante; la seconda è riservata alla selvaggina da penna (fagiano, anitra, pernice) anche se in Lombardia si confondono i due termini; per ragôut (scritto alla francese) si intende uno spezzatino cotto in casseruola e con quella servito in tavola. Consommé, Court-bouillon, Fumet, ne abbiamo parlato nel capitolo dedicato ai brodi: il primo è un brodo ristretto, il secondo è un liquido aromatico, il terzo è un brodo di pesce più o meno ristretto. Éclairs e Profiteroles le due preparazioni hanno alla base la pasta da bignè o pâte-à-choux, il primo è di forma lunga a bastoncino, il secondo è tondo, con la stessa pasta si prepara il Paris Brest di forma grande e circolare. Épigramme, gli epigrammi sono dei brevi componimenti dedicatori (vedi Marziale) per un fraintendimento (leggi ignoranza) il cuoco Michelet alla richiesta della padrona di preparargli degli epigrammi così come si servono in altre case nobiliari, s’inventò una costoletta d’agnello doppia e impanata. Faisandé, il significato è carne frollata, come si usava un tempo per i fagiani. Maître d’Hotel, pare che questo dirigente impeccabile della sala non facesse altro che insaporire con burro, alla maître d’hotel appunto, ogni cosa gli capitasse per le mani. Pré-salé, si tratta di agnelli allevati in riva al mare (tra la Bretagna e la Normandia) su quei prati salati che donano alle carni sapori pregiati. Quenelles, c’è chi le chiama semplicemente polpette, in realtà il termine deriva dal tedesco knödel, che in italiano farebbe o canederli o gnocchi; la composizione delle quenelle è di solito morbida e ha sempre fatto parte delle guarnizioni più che di piatto a sé stante. Salamandre, ecco non è un animale è uno strumento, anzi un ferro arroventato per decorare le frittate poi diventato un’attrezzatura per tenere in caldo i piatti del servizio. Surtout, diamo la parola a Eugenio Medagliani

“Il surtout diviene verso la fine del XVIII secolo il pezzo più importante presente sulle tavole più lussuose, e non solamente come oggetto utile per la presentazione della confetteria, ma anche come machine à surtout (così l’indicherà il famoso cuoco Massialot), cioè il contenitore e il sostegno di tutti quegli oggetti che non debbono mai essere tolti da tavola ad ogni cambiamento dei piatti, come i già citati spargipepe, salini, contenitori di senape, vasetti per spezie e le ampolle per olio e aceto”. 

Quindi ci stava sopra tutto da qui il francesismo napoletano di sartù di riso una preparazione che sta sopra tutte le altre. Ci resta un’ultima curiosità: le Patate Anna, chi era questa Anna da meritarsi una così sofisticata preparazione? Pare fosse una mondana. Buon appetito!

Nelle illustrazioni: il libro di Ernesto Borgarello del 1904, il Lessico di cucina di Hering e Andreuzzi degli anni '60, Vatel, il duca di Wellington, Rossini e Nellie Melba.








venerdì 27 novembre 2020

Autunno, tempo di bolliti 

        Ai primi freddi è giusto rimediare con piatti caldi e sostanziosi per affrontare l’inverno che verrà. L’uomo, dopo aver apprezzato e saputo gestire il fuoco ha inventato un contenitore, probabilmente una buca che, riempita di acqua e pietre roventi gli procurasse un po' di acqua calda, utile per lavarsi ma che, una volta immersi dei pezzi di carne, questi risultassero teneri. È nato così, semplicemente il bollito che tutto il mondo conosce. Poi la conoscenza e il buon gusto, specialmente di noi italiani hanno fatto nascere piatti speciali di cui parleremo. Tutto il mondo ha il suo bollito, il suo lesso: a proposito che differenza c’è tra i due termini? In realtà sono sinonimi tant’è che in Toscana, anche l’Artusi, lo chiamano lesso. Gastronomicamente per bollito s’intende la carne messa in acqua bollente e per lesso la carne che serve per ottenere un buon brodo come abbiamo visto nell’articolo dedicato al brodo. Dario Bressanini, chimico, sostiene che non esistono differenze tra le due tecniche, il punto sta che il chimico fa lo scienziato, il cuoco assaggia e nota una differenza gastronomica, di gusto, tra i due modi di procedere, con buona pace di tutti. È invece verissimo che la temperatura di cottura influisce sul colore delle carni: più è bassa la temperatura più le carni risultano rosate, per ottenere questo risultato però occorre uno strumento come il Roner che in casa non c’è. 

        Da noi il bollito, anzi, il gran bollito per eccellenza è quello piemontese, anche se, a dire il vero, non è male neppure il bollito misto di noi lombardi, veneti o emiliani. In Piemonte è nata una Confraternita in difesa della tradizione che vuole sette parti di bovino, c’è chi preferisce il manzo, chi il vitello, immersi in acqua bollente nella quale si sono aggiunte delle verdure, le solite, con la cipolla infilzata con quattro chiodo di garofano e un mazzetto di odori legati tra loro o, meglio, rinchiusi in una garza tanto da poterli eliminare (alloro, gambi di prezzemolo, uno spicchio d’aglio, rosmarino). Le carni prescelte fanno parte della spalla e della pancia del bovino come il cappello del prete, la scaramella il bianco costato, il geretto, il muscolo, il fiocco e il tenerone. Servono poi sette ammennicoli che sono la gallina, la testina, la lingua, la coda, lo zampino, il cotechino, i piemontesi usano servire anche della lonza arrosto a metà servizio, altri uniscono una rollata cioè una pancia ripiena che potete fare bollita o arrosto. Ora il problema principale è l’attrezzatura di cucina poiché tutti questi elementi necessitano di recipienti in cui cuocere separatamente. Alle carni potete unire la gallina ma la testina, la lingua, lo zampino e il cotechino dovete cuocerli da soli. Intanto che cuociono le varie carni, mettete nel conto quattro ore, potete approntare i contorni e le salse. Per contorno prevedete: patate, carote e rape lesse, cipolline in agrodolce, verza bollita, finocchi e zucchine ripassati al burro. Per le salse non possono mancare la salsa verde, rustica o ricca (in quest’ultima aggiungete rossi d’uovo lessati e capperi), il cosiddetto bagnèt ross a base di pomodori e acciughe, la salsa d’uva o cugnà, la salsa al cren, la salsa al miele, la mostarda di Cremona alle quali potrete aggiungere, secondo il vostro gusto o tradizione: maionese, ketchup, pearà, salsa tartara, giardiniera, salsa allo yogurt ecc. Secondo le zone il bollito sarà più o meno ricco, quello piemontese è una vera istituzione: in tavola ci sarà del sale grosso, del pane, una scodella di brodo bollente. Al termine è d’uso servire uno zabaione o delle pere madernasse cotte nel vino. 

        Se da noi il carrello dei bolliti è una istituzione che solo alcuni ristoranti possono esibire, anche all’estero hanno elaborato i loro bolliti come il Cocido madrileno, il Puchero andaluso, la Olla podrida nelle varie versioni europea e sudamericana; in Francia si usa il Pot-au-feu memori della promessa che, nel XVI secolo fece Enrico IV di Francia: Io voglio che alla domenica ogni contadino abbia il suo pollo in pentola.

        Il problema principale di queste preparazioni sontuose è il recupero degli avanzi, il freezer ci può aiutare molto permettendoci di separare, in sacchetti e contenitori diversi, molti di questi ingredienti ma vorrei che vi soffermiate su alcune nostre tradizioni nate proprio per recuperare il cibo avanzato in una festa fuori dall’ordinario come quella descritta. Avete messo nel pentolone delle carni la coda? bene, staccatene, con un coltellino, tutta la carne e usatela per fare la nostra famosa minestra di coda: brodo, carne della coda e pastina. Con i pezzi di carne un po' sfilacciati potete farne delle polpette da friggere o da passare in padella con sugo di pomodoro secondo i gusti. Se avete delle parti integre potrete fare la nostra insalata di carne e cipolle alla quale potete aggiungere anche dei fagioli lessati. Pellegrino Artusi propone nel suo famoso manuale ben tre ricette di lesso rifatto. In Toscana per questo scopo si sono inventati la francesina fette di carne messe in padella con cipolle rosolate con la salvia e poi pomodori pelati, il tutto insaporito con pepe e prezzemolo tritato. Francesco Chapusot nel 1846 consigliava a francesi e piemontesi di recuperare il lesso avanzato in un tegame e farvi appassire la cipolla e i cetriolini tagliati, le acciughe e il prezzemolo. Durante la cottura aggiungere del vino bianco e del brodo e far sobbollire per alcuni minuti. Dopo aver tagliato la carne a fette, sistemare il bœuf-miroton (questo il nome del piatto) in un tegame e proseguire la sua cottura per venticinque minuti. A Parma è invece in uso un’antica preparazione chiamata la vecchia: si fa un battuto d’aglio, cipolla, sedano, prezzemolo; si tagliano a fette una cipolla, tre pomodori maturi, tre patate, due peperoni verdi puliti. Si fanno scaldare olio e burro, si aggiungono le verdure, il battuto, s’abbassa il fuoco, si fa cuocere lentamente aggiungendo un po’ di brodo. A questo punto si aggiungono fette di lesso avanzato e si fa scaldare bene prima di servire. Un piatto classico delle osterie romane era la picchiapò: la carne veniva tagliata a pezzi e messa in padella con cipolle e pomodori in modo da renderla tenera e saporita come non mai. Sentite Luca Barbarossa in una sua canzone, La Dieta: 

“Pé fà la picchiapò ce vò er bollito
Tajato a fette arte mezzo dito
Soffriggi la cipolla poi er pelato
A foco lento fino a che è stufato” 

Termina qui il nostro viaggio fra i bolliti ma non certo le ricette popolari che sono nate attorno a questo modo di cucinare le carni.

Sotto: bollito misto con sale, gran bollito piemontese, la confraternita, il cocido, il pot-au-feu, la gradazione di cottura delle carni bollite








venerdì 20 novembre 2020


Riso, risaie e risotti

        L’agricoltura bresciana ha una lunga storia, con grandi protagonisti, a partire dal nobile Agostino Gallo e dal suo contemporaneo Camillo Tarello. Quest’ultimo non è molto conosciuto da noi ma in Inghilterra è stato molto apprezzato per i suoi consigli sulla rotazione dei terreni per non impoverirli di sostanze importanti. I due poi si unirono a Giacomo Chizzola che, nella sua casa di Rezzato, nel 1540, aprì un’Accademia Agraria, forse la prima al mondo, dove chiamò ad insegnare il matematico Niccolò Fontana detto il Tartaglia. I loro scritti sono ancora disponibili per chi volesse saperne di più sopra un argomento fondamentale per l’uomo e il suo progresso. Qualcuno si chiederà com’è possibile parlare di riso in una terra senza risaie. Eppure, anche il territorio bresciano ha avuto le sue risaie almeno fino ai primi anni dell’800 se da una relazione sul Dipartimento del Mella (come Napoleone chiamava il nostro territorio) si dichiarano prodotte 5600 some bresciane di riso a fronte di un consumo di 6500, quindi una produzione scarsa e bisognosa di acquisto presso altri produttori. Nel 1619 inizia la coltivazione del gran turco poiché fino ad allora i bresciani consumavano: “farro, frumento, segale, orzo, avena, miglio, panìco, rape, navoni, legumi e poi il riso”. Questi dati sono disponibili in una pubblicazione in tre volumi sulla “Storia dell’agricoltura bresciana” edita nel 2008 dal nostro Assessorato Provinciale. Invece dalla storia di Barbariga apprendiamo della presenza di risaie sul quel territorio: 

“Impauriti dall’alta mortalità verificatasi nel 1761 in concomitanza con la diffusione della coltivazione del riso il 10 maggio 1762, al suono della campana maggiore della parrocchiale, armati di zappe e badili, i contadini di Barbariga marciarono verso il fondo della “Feroldina”, proprietà della famiglia Valossi, distruggendovi le arginature della risaia. L’Autorità veneta non solo non intervenne contro i rivoltosi, ma nel seguente anno 1763 proibì in Barbariga la coltivazione del riso. Cinque anni dopo, nel 1768, essendo ripresa la coltivazione del riso, i contadini distrussero ancora una volta le risaie e l’opposizione contadina finì solo con la rinuncia da parte dei proprietari a coltivare il riso”. 

Dunque, qui si interrompe il rapporto con la coltivazione diretta del riso. In realtà saranno proprio gli abitanti di Barbariga a elaborare una ricetta che ora fa parte della tradizione: la bariloca, un risotto con i chiodini e la gallina. 

La povertà e il bisogno obbligano dagli anni ’40 fino alla metà degli anni ’60 del secolo scorso, principalmente le donne della Bassa bresciana, a lasciare la loro famiglia per il lavoro stagionale nelle risaie, immense distese di campi allagati nelle zone del pavese, vercellese, novarese dove si coltiva il riso. Il lavoro è massacrante per cui si assiste ad un movimento di protesta capeggiato da donne al grido: “se otto ore, vi sembran poche, provate voi a lavorar, e proverete la differenza di lavorare e di comandar” e nascono canzoni popolari: 

"Saluteremo il signor padrone
per il male che ci ha fatto
che ci ha sempre maltrattato
fino all'ultimo moment"

Il riso (Oriza sativa) in Italia fu portato dagli arabi prima in Sicilia e dopo risale verso il Nord più ricco di acqua essenziale per la crescita di questo cereale. La prima risaia italiana fu inaugurata nel 1468, e il primo documento che ne comprova la coltivazione in Italia fu una lettera di Galeazzo Maria Sforza del 1475, con la quale prometteva l'invio di riso al duca di Ferrara. Con le prime coltivazioni lombarde il riso divenne un elemento dell'alimentazione locale. La coltivazione si diffuse rapidamente nelle zone paludose della Pianura Padana, generando un aumento dei casi di malaria. I provvedimenti per limitarne la coltivazione nei pressi dei centri abitati non fermarono l'espansione del riso, anche perché garantiva guadagni superiori a quelli di altri cereali. Un altro motivo della sua diffusione fu probabilmente il grande utilizzo che se ne fece nel XVI secolo, quando in tutto il Mediterraneo occidentale carestia e peste avevano ridotto le popolazioni alla fame. 

Quindi il rapporto gastronomico dei bresciani con il riso è conflittuale, un contadino abituato a polenta e zuppe non gradisce molto questo cereale, fino a quando la massaia, ancora le donne, riesce a combinarlo con le erbe selvatiche, le rane, le rigaglie di polli e i ritagli di maiale. Ma quale riso?

L’Italia è il più grande produttore di riso europeo, la scelta è caduta nella specie japonica e il nostro è il riso di maggior qualità, dovuto a selezioni colturali iniziate all’inizio del secolo scorso per ottenere il risultato gastronomico migliore. 

Le 120 specie di japonica dell'Oryza sativa coltivate in Italia si dividono in 5 tipologie: 

Riso comune, grani tondi e piccoli: Originario, Balilla indicati per minestre e dolci
Risi semifini, grani tondi di media lunghezza: Rosa Marchetti, Vialone Nano, Maratelli indicati per minestre, timballi, per i veronesi il Vialone è indicato per risotti
Risi fini, grani affusolati e lunghi: Sant’Andrea indicato per arancini, risotti, contorni
Risi superfini, grani grossi e lunghi: Carnaroli, Roma, Arborio, Baldo i migliori per i risotti all’italiana
Risi aromatici: Basmati, Jasmine indicati nelle cotture pilaf 

Alcune varietà di riso sono: 

Arborio, Baldo, Basmati, Carnaroli, Maratelli, Originario, Roma, Venere, Vialone Nano.
Specialità italiane locali: Riso Grumolo delle Abbadesse; Riso del Delta del Po, Riso Nano Vialone Veronese, Riso di Baraggia Biellese e Vercellese declinate in varietà tipiche come Carnaroli, Vialone Nano ecc. Da qualche anno è apparso l’Acquerello della Tenuta Colombara, si tratta di un riso tipo Carnaroli, ancora grezzo, invecchiato da uno a sette anni in silos a temperatura controllata, integrato con la sua gemma e confezionato sottovuoto, ideale per risotti e preparazioni speciali. 
Vi sono molti modi di cuocere il riso, alcuni semplici, altri più complessi: il più comune è la bollitura in acqua o brodo. Il Riso all’inglese è semplicemente bollito in acqua e condito con burro crudo, il Riso in cagnone dei milanesi e dei piemontesi (il cagnone è la larva degli insetti che noi chiamiamo cagnotto), si tratta di riso cotto in acqua e condito con burro fuso nel quale si sono rosolati della salvia e dell’aglio e poi spolverato di abbondante grana grattugiato. In brodo vegetale con qualche pezzo di patata si cuoce il nostro Riso al prezzemolo, una volta schiacciate le patate si butta il riso e si porta a cottura; nella Bassa si usa il Ris spork con i ritagli del maiale appena macellato. Nella tipologia “risotto” se ne preparano diversi tipi secondo la stagione: il Risotto alla pitocca con delle strisce di pollo (cotto separatamente) rosolato con cipolla e portato a cottura con il suo brodo. In primavera il Risotto con i verzulì o con i loèrtis, di antica tradizione il Risotto con le fave a cui qualcuno aggiunge del prosciutto. In città si usa il Riso alla carmelitana a base di verdure e lingua salmistrata, tutto a cubetti, terminarlo con un trito di prezzemolo e basilico, alle Due Stelle anni fa era in voga il Risotto Mille Miglia ideato da me: soffritto di cipolla, rocchetti di salamella asciugata, piselli, un cucchiaio di pomodoro e cottura con brodo di carne bollente, mantecatura con burro e grana padano. Nelle zone d’acqua si fa il Risotto con le rane nella Bassa e il Risotto con la tinca sui laghi. Per gli amanti di cibi orientali il metodo della cottura pilaf può piacere: il riso del tipo Basmati o Thai si fa insaporire con burro od olio e una cipolla a pezzi nella quale si sono infilati dei chiodi di garofano; si prepara un brodo a piacere, vegetale o di pollo bollente, si bagna con il doppio del volume del riso (per una tazza di riso due tazze di brodo), si copre il recipiente e si mette a cuocere in forno a 180°C per 18 minuti senza toccarlo. A fine cottura si elimina la cipolla, si sgrana il riso con una forchetta e un pezzetto di burro. È indicato come accompagnamento di vivande a piacere o se schiacciato in una scodellina e poi rovesciato si può usare come guarnizione. Buon appetito!

Nelle foto: le mondine al lavoro, il mare a quadretti: la risaia, tipologie di riso, riso in cagnone, riso alla pitocca, riso pilaf.








venerdì 13 novembre 2020



Quando un piatto fa storia? 

Queste riflessioni sono il frutto di anni di letture e di frequentazioni, a partire dagli anni ’80, del secolo scorso, di tanti cuochi e cuoche, ristoratori e osti, di assaggi e comparazioni ma oggi all’uscita di questo libro scritto da ben sette giornalisti e gastronomi del settore non posso che provare a delineare la strada che percorrono i piatti che apprezziamo. Il libro in questione è “Quando un piatto fa storia. L’arte culinaria in 240 piatti d’autore” edito da Phaidon-L’Ippocampo. I comuni mortali come noi, questi piatti, salvo poche eccezioni, ne hanno solo sentito parlare, se va bene, spesso neppure quello. Gli appassionati gastromaniaci forse li hanno sognati e desiderati, anche solo per fotografarli. Perché oggi la diffusione gastronomica di molti piatti avviene più virtualmente che culinariamente, come afferma il linguista Gianfranco Marrone nel suo libro “Gastromania”: 

“Oggi l'alimentazione ha oltrepassato la sfera, pur ampia, che le è stata propria per lungo tempo e ha invaso ogni altra dimensione della nostra esistenza, individuale e collettiva. Mangiamo, beviamo, gustiamo e degustiamo, assaggiamo, assaporiamo, sbafiamo, centelliniamo, apprezziamo, gozzovigliamo, ma anche e soprattutto ne parliamo, descriviamo tutto ciò, lo raccontiamo, commentiamo, giudichiamo, rappresentiamo, fotografiamo e filmiamo e condividiamo, immaginiamo, sogniamo, in un vortice dove l'esperienza del cibo e il discorso su di esso si fanno un'unica cosa: gastromania”. 

Quando i primi cuochi della Magna Grecia hanno iniziato a far conoscere la gastronomia non immaginavano che alcune loro preparazioni sarebbero durate nel tempo. Il concetto corrente dell’epoca era che un piatto scomparisse dopo averlo consumato, tutto finiva lì, se fosse andata bene si sarebbero ottenuti i complimenti dei commensali, non pensavano certo di entrare nella storia. Il famoso Apicio, gastronomo ai tempi dell’Impero Romano, ci ha fatto pervenire alcune sue ricette come il famosissimo garum o liquamen a base di interiora di pesce, una salsa dalla quale qualcuno fa derivare la nostra colatura di alici di Cetara. Si tratta di storia? Certamente, anche se noi quella salsa lì, con il palato di oggi, non l’avremmo gradita. Occorreranno secoli di intrugli e di prove, di cuochi e massaie, di suore e monaci prima di avere un corpus di preparazioni gradevoli e apprezzate. Certo la genialità di alcuni produrrà piatti che resteranno nella storia, pensiamo a Bartolomeo Scappi e la sua frittata o le frittelle piene di vento (il nostro gnocco fritto) o, ancora, i ravioli con la sfoglia o senza la sfoglia (cioè un raviolo chiuso o aperto). Se entriamo in qualche convento troveremo suore intente e far cannoli, frutti di marzapane e sfogliatelle. Monaci che curano il “giardino dei semplici” e ottengono rosoli, amari d’erbe e ricostituenti eccezionali. Nobili che inventano salse (maionese) o dolci (il babà) anche semplicemente un panino (sandwich). Poi milioni di massaie che per necessità o virtù elaborano minestre, brodetti, polpette, alternano verdure e formaggio e nasce la parmigiana, con il pecorino e il guanciale elaborano la gricia poi amatriciana, si divertono a modellare la pasta, facendo le orecchiette, i pici, gli gnocchetti, gli strozzapreti, i tonnarelli, i passatelli… Con il poco e niente che si ritrovano in dispensa si divertono a riempire paste come i pansotti, gli agnolotti, i tortelli, i casoncelli. Quando l’abbondanza arriva, con l’uccisione del maiale ad esempio, allora è un trionfo di sanguinacci, minestre e risi più o meno sporchi, trippe e frattaglie, ritagli saporiti e golosi. Si affacciano sul mondo dei fornelli anche tanti cuochi, lo abbiamo visto, ma chi detiene l’uso e la manipolazione delle vivande? Dacia Maraini scriveva nel lontano ottobre 1976: 

"I grandi cuochi sono stati quasi sempre uomini ma il loro compito era quello di trasformare il cibo in qualcosa che non avesse l’apparenza del cibo: una ardita costruzione architettonica, una complicata struttura ornamentale, una scultura elaborata, un quadro dai colori sfavillanti. Facendo così essi dimostravano che non era il momento della nutrizione che li interessava, ma quello più “nobile” dell’estetica e della filosofia. Il momento dell’astrazione e della contemplazione. Tocca invece alla donna sminuzzare, tagliare, friggere, grigliare, bollire e poi il manicaretto, servito agli amici con un sorriso stampato in faccia, perché il marito possa vantarsi della sua brava mogliettina”! 

Non si può negare che nei secoli alcune invenzioni siano entrate nell’uso comune come la frittata di Scappi, la chantilly di Vatel, i vol-au-vent di Carême, il gelato di Procopio de’ Coltelli, la pizza Margherita di Esposito Nas’e cane, i kipferl austriaci che poi diventeranno cornetti per noi (ciprèn per i parmigiani) e infine croissant per i francesi. La storia recente (2013) racconta di un pasticcere parigino, Dominique Ansel, trapiantato a New York che incrociando il croissant con il donut (la ciambella di Homer Simpson) crea il Cronut® marchio depositato, dolce non replicabile in casa richiedendo una lavorazione di tre giorni, quindi dall’inventore della pasta sfoglia moderna, La Varenne nel XVII secolo, la strada di questi dolcetti a forma di mezzaluna raggiungono la fama virale dei social, la meriteranno? All’assaggio l’ardua sentenza! Stiamo quindi assistendo a una personalizzazione dei piatti che oggi sono spesso riferiti agli chef-inventori mentre in passato i nuovi piatti erano dedicati a personaggi e nobili: Pesca Melba, Tournedos Rossini, Sogliola Colbert, Bistecca alla Bismark ecc. È molto famosa anche la Zuppa VGE di Bocuse dedicata al presidente francese Giscard D’Estaing nel 1975. 

Un cuoco provetto nel leggere la ricetta del Purè di Robuchon riscontrerà la ricetta classica di un cuoco con una buona mano di cucina, niente di più. Alcune “invenzioni” culinarie prendono una strada casalinga nella convinzione che anche in casa si possano riprodurre i piatti di grandi cuochi, non è sempre così: imitando Pina Bellini della Scaletta di Milano centinaia di novelli cuochi hanno cercato di riprodurre con effetti, a volte nefasti, il suo Risotto con le fragole e menta, o i Tortellini con la panna di Giorgio Fini di Modena, oppure le famose Penne alla vodka degli anni ’80 ricetta attribuita a Ugo Tognazzi, o ancora l’invenzione di Giuseppe Cipriani dell’Harry’s Bar di Venezia con il suo Carpaccio ridotto a una serie di fettine di carne cruda ricoperte di rucola e grana. 

Torniamo quindi alla storia: un piatto può entrare nella storia? Perché attribuire a un esecutore questa responsabilità. Per fare alcuni esempi, nel teatro o nella musica entrano nella storia gli autori o gli esecutori? Del teatro, da Aristofane a Garinei e Giovannini ricordiamo più le opere o gli attori, certo di Rinaldo in campo ci ricorderemo più l’interpretazione di Modugno che quella di Ranieri; del Rugantino indelebile resta l’interpretazione di mastro Titta di Aldo Fabrizi che quella di Maurizio Mattioli; memorabili le interpretazioni vocali, nella musica lirica, di Maria Callas o di Enrico Caruso, di Francesco Tamagno o di Renata Tebaldi. Nella storia, quindi, restano gli autori o gli interpreti? probabilmente ambedue ma qui si tratta di arte pura non di cucina. 

L’arte nella cucina entra solo se gli interpreti sono essi stessi dei veri artisti com’è il caso di Gualtiero Marchesi e il suo Riso, oro e zafferano o il Dripping di pesce, negli altri casi si mescolano tecnica e cucina come nel Cyber Egg di Davide Scabin, negli Spaghetti d’uovo marinato di Carlo Cracco, nei Rigatoni cacio e pepe in vescica di Riccardo Camanini che recupera una antica tecnica (vedi cappone in vescica dell’Artusi) e la modernizza. Provatevi a rifare in casa questi piatti, difficilmente ci riuscirete, restano in quella bolla composta da piatti memorabili, stupefacenti, strabilianti che solo alcuni privilegiati (leggi danarosi) o addetti ai lavori si sono potuti permettere. Calato l’oblio sugli autori, chi si ricorda della Faraona ai funghi ripiena di Mirella Cantarelli o degli Spaghetti ai frutti di mare alla lampada di Angelo Paracucchi o ancora il Riso mantecato di Nino Bergese? 
Il problema è che il cibo si consuma, un momento c’è, ci guarda, ci stimola, si lascia ammirare e poi, pochi minuti dopo, non c’è più ma si spera che, per un po', giorni, mesi, anni, ti ricordi di lui.

Di seguito: Cronut, Cyber Egg, Passatina di ceci e gamberi, Rigatoni cacio e pepe in vescica, Riso, oro e zafferano, Soupe aux truffes VGE