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domenica 31 gennaio 2021

 I laghi bresciani


            Solitamente se ne considerano solo i tre più importanti: il Garda, quello d’Iseo e quello d’Idro. In realtà ve ne sono disseminati, specialmente in montagna, parecchi altri come il lago Moro tra Darfo e Boario Terme, i laghi d’Avio sull’Adamello, il lago di Valbione sopra Ponte di Legno, il lago d’Arno in Val Saviore, il lago della Vacca nella Valle del Caffaro, il lago Valvestino sopra Gargnano, se ne contano ben 173 la maggior parte a beneficio di centrali elettriche. Se a questi laghi sommate i fiumi che li alimentano e quelli che autonomamente scendono dalle montagne e corrono verso il mare come il fiume Mella, capite cosa si intende per civiltà dell’acqua. Una civiltà che parte da lontano per il bisogno di approvvigionamento, coltivazione, forza motrice.

            Il lago d’Idro, l’Eridio dei Romani, è posto a circa 400 m sul livello marino, è formato, in entrata e in uscita dal fiume Chiese che scende dall’Adamello, e cambiando direzione poiché era naturale che finisse nel Garda, finisce nell’Oglio nella Bassa Bresciana. Attorniato da montagne e dominato dalla Rocca d’Anfo, un presidio militare costruito dai veneziani, qui, sul ponte del Caffaro fino al 1918, c’era la frontiera con il territorio austriaco. Il lago è pescoso e ricco di pesci come il luccio, il persico, il salmerino del Chiese trentino, le anguille, le alborelle e volatili acquatici come gli svassi e le folaghe. Le condizioni attuali del lago, tuttavia, destano più di una preoccupazione a causa della gravità dei fenomeni di eutrofizzazione dovuti all'assenza di un collettore fognario e per l'intenso sfruttamento delle sue acque da parte della centrale idroelettrica di Carpeneda e per uso irriguo. Ma qui attorno vi sono località e tradizioni culinarie di tutto rispetto, oltre ai pesci di lago, la farina di Storo, che viene trasformata in una polenta straordinaria: la polenta carbonera con formaggio Spressa e salamine locali. Non lontano da qui Bagolino con il suo famoso formaggio e il suo burro. Altri formaggi li trovate salendo fino a Capovalle, Magasa e Valvestino dove il Tombea segna un passaggio gastronomico di eccellenza. Nella salita attraversate Treviso Bresciano, il paese dello spiedo dove, l’11 novembre, San Martino, tutte le case ricordano questa data con uno spiedo casalingo. Sulle montagne nasce il radicchio dell’orso da raccogliere e conservare sottaceto. Questi luoghi sono anche ricchi di frutti di sottobosco e miele di montagna. Passata la diga e il lago di Valvestino scendete verso Gargano e siete sul Lago di Garda:

“Suso in Italia bella giace un laco
a piè de l’Alpe che serra Lamagna
sovra Tiralli, ed ha nome Benaco.
Per mille fonti credo, e più si bagna
tra Garda e Valdimonica Pennino
de l’acqua che nel detto lago stagna”.

Dante così presenta il lago nel XX Canto dell’Inferno, un lago lussureggiante, rigoglioso e impetuoso, quando è battuto dai venti, tanto d’apparire un mare, parola di Virgilio. La bellezza incanta poeti che vorranno passare giornate, o mesi, o anni, indimenticabili su queste: 

“rive con coltivazioni di limoni, pittoreschi sentieri, villaggi appesi come nidi di rondine, il meraviglioso verdazzurro del lago”.

Come scrive il poeta tedesco Vischer e un altro tedesco, Goethe, sarà l’influencer del tempo che convincerà i tedeschi a deviare dalla “strada germanica” per portarsi verso il lago. Qui tra Gargnano e Limone potete ammirare cos’erano i giardini d’agrumi che hanno ammirato i poeti. Limoni e cedri “la più elegante delle agricolture” come diceva Carlo Cattaneo. Il paesaggio accettava facilmente l’incastonarsi di quelle strutture curate dai sardinér (giardinieri) provetti come solo qui trovate. Alcuni imprenditori hanno trasformato questi agrumi in bevande originali come la cedrata di Tassoni o miscelando sapientemente cedro e cioccolato le caramelle Cedrinca, tutte aziende collocate a Salò dove si faceva anche l’anesone. Un altro protagonista del lago è l’olivo nelle cultivar dominanti come Gargnà, Casaliva o Leccino, le prime due autoctone. Bongianni Grattarolo nel XVI secolo: “un olio del color dell’oro liquefatto e ricercato per le corti de’ principi che se ne servono più di olii di altri paesi”. Qualità eccellenti riconosciute a livello internazionale, perfetto connubio gastronomico: pesce, olio extravergine, limone “co l’oio e co ‘l limù, èl cogo l’è padrù” indicando nella semplicità e nella qualità una regola aurea della cucina. Una bella ricerca di due amiche-maestre di Tremosine: “Pa e vì e sücherì” ci ricorda come anche qui sulle montagne fronte lago vi fosse una cucina rispettabile ed economica come le “potarìse” frutta secca asciugata sui graticci e poi conservata in scatole di legno ricoperta di zucchero o, ancora più povero e legato alla vicinanza con il Trentino austriaco: il “brö brüsà” semplice farina bianca tostata e cotta nell’acqua, simile ai “pòtoi”. A Pasqua però apparivano dei dolci originali come lo “spongadì” una sorta di ciambella che se fatta a forma di colomba poteva contenere un uovo da cuocere sul camino al fuoco delle braci, sopra e sotto il tegame. E a proposito di braci è questa un’altra patria dello spiedo, simile a quello valsabbino con le patate e il coniglio, ma scendendo verso Puegnago può chiamarsi “rost” e avere l’olio anziché il burro e perfino qualche pezzo di anguilla. Giuseppe Solitro nell’Ottocento: “se dei pesci del Benaco il re è il carpione, ben può disene regina la trota, che per eleganza di forma e delicatezza di carne compete con lui e in grandezza lo vince”.

            Ma pesce significa pesca e il pescare è un’attività economica e di sussistenza per cui le battaglie legali e non sull’uso del "rematt” durano secoli. Era questa una rete che poteva rendere molto bene ma che non teneva in nessun conto la stagionalità del pesce, anzi proprio quando questi andavano in frega era il momento migliore di pescarli. Uno dei motivi della scarsità di oggigiorno, scendeva da Vienna perfino l’imperatore Cecco Beppe per assistere alla pesca dei carpioni. Quindi carpioni da spedire alle corti europee tanto da doversi inventare un metodo di conservazione: in carpione, appunto. I poveri si accontentavano delle aole secche rinvenute in padella con cipolle, aceto e una punta di zucchero, “cisame de pesse” scriveva lo Scappi nel ‘500. Oppure sardine, gli agoni lacustri, una leccornia per i conoscitori da servire alla griglia con salsa di prezzemolo o con cipolle alla maniera dei pescatori di Rivoltella.

            E che dire dei vini: “… soavissimi vini: pronti amabili, dolci, piccanti; altri duri, sostanziosi e resistenti, amarognoli o bruschi”. Qui sotto le Alpi Retiche è da sempre un tripudio di vini affermato fin dall’antichità. Rossi di corpo come il Groppello, Chiaretto di Moniga di Pompeo Molmenti, il suo inventore e poi la Lugana del trebbiano. Due passi e siamo nei colli morenici quel terreno sospinto dalla formazione del lago, terra questa di allevatori tra il Bresciano e il Mantovano, nasce qui il salame morenico di Pozzolengo. Pochi km e siamo a Lonato la terra dove Ugo da Como raccolse la sua splendida biblioteca, nella campagna lonatese si prepara il “chisöl” una torta semplice contadina che condividiamo con i mantovani.

            Lasciamo questo magnifico lago per trattare dell’altro lago, altrettanto affascinante, molto amato dai bresciani e un po' più vicino alla città: il lago d’Iseo. Lo ha compreso bene l’artista Christo Vladimirov Javacheff che ha realizzato un’opera incredibile “The floating Piers” e visitata da centinaia di migliaia di persone nel 2016, si è trattato di un collegamento pedonale appoggiato sull’acqua tra Sulzano, Monte Isola e l’isoletta di San Paolo. 
L’attrattiva maggiore di questo lago è senz’altro Monte Isola (dovrebbero decidersi se chiamarla Monte Isola o Montisola come San Remo e Sanremo), la più grande isola lacustre d’Europa, dove le attività legate alla pesca: costruzione di reti, di barche (i naècc) e la pesca stessa sono state per secoli attività economiche importanti, visibili nel museo a loro dedicato. Cos’è rimasto oggi? Si possono trovare ancora le sardine disseccate al sole e al vento, tra novembre e dicembre, e poi conservate in olio d’oliva iseano, diventate oggi un Presidio Slow Food per evitarne la scomparsa, non solo agoni ma anche i cavedani destinati, però, a uso casalingo. E poi la tinca che qui ottiene una particolare attenzione nel prepararla ripiena e cotta in teglie di terracotta alla moda di Clusane. Non molti anni fa si incrociavano sulla provinciale i carretti di aole (alborelle) fritte da portarsi via nel cartoccio. Il pesce persico ha trovato una ricetta originale poiché, una volta cotti i filetti nel burro, si possono apprestare come le lasagne alternati da sfoglie di pasta e salsa besciamella ed infine, il tutto, cotto nel forno. Da non mancare, ogni cinque anni, la festa della Santa Croce, rinviata nel 2020 si terrà a settembre di quest’anno. Carzano, in questa occasione, annunciata da colpi di cannone, si abbellisce di fiori di carta, di arcate con rami, luminarie, “ol festù del diaol” come dicevano gli invidiosi, nata per un voto alla Santa Croce contro l’imperversare del colera del 1836. Anche Monte Isola oltre che pescatori gli abitanti sono contadini e allevatori, il loro maiale viene trasformato in un prodotto straordinario: il salame di Montisola, tritato a punta di coltello e conservato in orci coperto di grasso. Un piatto ormai scomparso è la torta di bosine, una ventina di anni fa l’assaggiò (preparata da me) Luigi Veronelli e ne rimase estasiato. La bosina, o bosa, è un piccolo pesce con la testa grossa e senza spine (chi lo chiama ghiozzo, chi scazzone), cresce nei ruscelli limpidi o nelle torbiere dove viene catturato con delle fascine di canna. La “torta” è composta dal pesciolino alternato al ripieno usato per la tinca (grana, pane, aromi e spezie) inframezzato da olio iseano o burro. Logico che Iseo e le sue terre siano influenzati dalla confinante Bergamasca, lo notiamo nella polenta che qui si fa duretta e nella “polenta e osèi” che si prepara, nella consuetudine bergamasca, in padella invece che allo spiedo. La sponda bresciana del lago fornisce anche un ottimo olio d’oliva con Marone che ne fa da capitale. Alle spalle oltre e sopra le colline moreniche scorre l’Antica Strada Valeriana che porta alle Piramidi di Zone e poi fino a Pisogne e alla Val Palot ricca di funghi. Per gli amanti della natura e dell’ambiente umido le Torbiere alle spalle di Iseo sono un luogo naturalistico di eccezionale valore. Eccovi dunque presentati, in modo sintetico, i nostri tre laghi maggiori, a voi scoprirne le ricchezze artistiche nascoste. Buon viaggio!

Nelle immagini: giardini d'agrumi, pesca del carpione, le reti di Montisola, Floating pears, le sardine di Montisola, le tinche al forno, il salame di Montisola















sabato 23 gennaio 2021

 



Le tre Valli bresciane


            Si chiama così 3 V anche un famoso sentiero pedestre, “disegnato” nel 1981 da Silvano Cinelli sviluppando un’idea del figlio Emanuele. Le nostre valli si configurano in modo diverso l’una dall’altra. 

            La Valle Trompia, quella designata dai bresciani “fuori casa”, dalla città è raggiunta facilmente attraversando i paesi che, attorno al Mella la costellano, da Concesio, Gardone VT, su, su, fino a Collio, a San Colombano a al Maniva località sciistica. È la valle delle armi e della lavorazione del ferro per cui è nota in tutto il mondo con i suoi archibugi da secoli partecipano a guerre in tutto il pianeta. Terra di boschi quindi da legna, carbone e allevamento di bestiame. Dal 1600 si comincia a diffondersi l’agricoltura con il mais e le patate, dall’allevamento del bestiame al formaggio la strada è breve, il problema della valle sono i pascoli e allora era tutto un girovagare tra il piano e il monte “a maià ‘l fé” cioè tra l’alta valle fino a Bagolino e la pianura fino a Brescia. Mons. Fappani ricorda che in una cascina di San Polo, fino a pochi anni fa, c’era un cartello ben visibile: “Malghesi di Collio più non ne voglio”. Si fanno formaggi, dunque, di secchi e di molli come la formaggella della Valtrompia e, specialmente, di Collio cosiccome il burro delle malghe come ricorda questo documento storico: 

“Nelle comuni dello stesso superiore distretto si fabbricano copiosamente butirro, formaggio, stracchini e altri prodotti di latte che si smerciano quasi per intero in Brescia, eccetto piccola porzione che si consuma in luogo“. 

La montagna offre riparo ed è la ricerca di questi ripari che permette di scoprire la presenza di ferro, ma lo scopo principale oltre al riparo dalle intemperie e dal freddo serve qui come in altre valli, a conservare gli alimenti nei mesi caldi, una sorta di frigorifero naturale. Tant’è che alle Graticelle di Bovegno si è recuperato un deposito di una vecchia miniera e si sono messe a stagionare le forme di Nostrano Valtrompia Dop. La Valtrompia è stata anche la meta dei cacciatori e qui sono sorte parecchie trattorie dove la domenica il profumo dello spiedo spandeva tra i boschi. La Pinòla a Inzino, il Miramonti a Caino erano le mete preferite dei bresciani e a chi chiedeva del pesce la Pinòla rispondeva: “vèdet èl mar lé föra?”. Angel Albrici ricorda: 


“Sö le brase gira ‘l spiét, 
che bun’aria profömada 
nissü i passa per la srtada 
che resiste a vègner dét, 
miga sul che per la sét…” 

Ma la Valle del ferro e delle Miniere nasconde anche delle bontà gastronomiche nella Valle del Garza vi troviamo marroni e castagne che la nonna trasforma in minestre, patuna, e ripieni per l’anatra o per il tacchino. A Collebeato, Villa Carcina, San Vigilio e Concesio, proprio fuori la città da più di cent’anni si coltivano le pesche sui terreni che furono di proprietà dell’Ospedale Maggiore di Brescia, lo ricordano sia Marcello Zane, sia mons. Fappani: 

“Filippo Rovetta è stato un pioniere, ha cambiato l’aspetto delle campagne di Collebeato, dalla Piana agli argini del Mella. Importate le varietà di pesche americane, disposto l’impianto con razionalità, ottenendo il prolungarsi del ciclo produttivo in un arco di circa sei mesi, di qualità pregiate, ha dimostrato che si poteva cambiare, migliorando anche nei campi. (...) Sul suo esempio anche nelle altre aziende si diffusero nuovi metodi di coltivazione ed il nome di Collebeato venne conosciuto un po’ dappertutto, ovunque arrivassero le nostre magnifiche pesche”. 

I tempi cambiano le cose gastronomiche si aggiornano tanto chee si notano dei cambiamenti a Lavone di Pezzaze viene aperta la “Rebecco farm” con l’intento di offrire una vetrina ai prodotti locali. Dopo un periodo di chiusura il Mulino di Marmentino situato nella frazione di Ville potrebbe presto rinascere a nuova vita diventando un luogo dove la gastronomia dell’Alta Valle sposa le attività culturali, sportive e didattiche. Insomma, segni di “resilienza”. 

            La Valle Sabbia che dal Caffaro e dal lago d’Idro fino a Capovalle attraverso il fiume Chiese che si dimostrerà generoso di acque nella Bassa Bresciana e con la deviazione del Naviglio Grande Bresciano utile anche alla città. La valle dopo aver toccato l’altipiano di Serle si chiude a Paitone nell’hinterland bresciano. Anche questa una vallata ricca di minerali e forni fusori che per secoli daranno lustro ai valligiani. Una particolare propensione alla modernità segnerà questa zona con la costruzione, all’inizio del Novecento della più grande centrale elettrica d’Europa posizionata sul Caffaro, successivamente una linea ferroviaria da Brescia raggiungerà il Caffaro ed oggi il più grande impianto fotovoltaico pubblico d’Europa in Paitone. La valle fu legata strettamente alla città tanto da scendere spesso in soccorso contro gli invasori. La dominazione veneta ha portato tranquillità ed economia diffusa tanto che il commercio dei loro prodotti giunge fino ai ricchi mercati di Milano e Venezia. Nuove costruzioni civili e religiose e una notevole produzione artistica ed artigianale testimoniano l'affinarsi del gusto e un'insolita vena creativa. Risalgono a questo tempo felice i primi lavori dei Pialorsi di Levrange, detti `Boscaì”. Grandissimi intagliatori del legno, diedero a partire dal 1600 e per buona parte del 1700 le loro opere migliori. Sono sempre di questa epoca gli splendidi intagli di Ludovico da Nozza che ancora oggi si ammirano nel Duomo di Ferrara. 

L’ampiezza di molti territori ha permesso un’agricoltura diffusa e numerosi allevamenti bovini e suini, i monti e le colline dirimpettaie al Garda permettono la raccolta di erbe selvatiche, funghi e prodotti degli orti, peraltro rigogliosi. Qui lo spiedo assume l’aspetto di un grande piatto festivo, imponente, conviviale e utilitaristico perché prevede l’utilizzo quasi completo degli animali del cortile: pollo, coniglio, maiale, faraona e poi, naturalmente, uccelletti accompagnati dalle patate che crescono abbondanti su queste fresche colline. Così diffuso tanto che a Treviso Bresciano l’11 novembre di ogni anno ogni famiglia lo prepara. Nel 1880 cominciano a sorgere le latterie sociali poiché vi sono ottimi prodotti: il Bagòss, il Sabbio e il Conca, il Nostrano Valsabbia, la formaggella valsabbina. Frutti di bosco, miele, amarene, marroni e castagne specialmente sull’Altipiano di Serle: le Cariadeghe. Anche qui si utilizzano gli anfratti e i buchi di questa montagna come i “büs dèl lat” di Serle. Anche i vigneti erano diffusi tanto che i viaggiatori del tempo descrivevano queste terre rigogliose di viti tanto da paragonarle a quelle dei piemontesi. Dopo i flagelli della peronospora e della fillossera la provvigione di vino arriva dal vicino lago di Garda. Tante iniziative si sono attivate in questi ultimi anni tanto da far ben sperare nel futuro, molti ristoratori si sono riconosciuti nel progetto “Valli Resilienti” finanziato da Cariplo per il rilancio delle valli Trompia e Sabbia in questo caso. Questo entusiasmo lo notiamo in Beniamino Bazzoli della Pasticceria Bazzoli – Linea Pane di Odolo che quest'anno ha ricevuto il premio di "Miglior Panettone al Mondo 2020" per la categoria Panettone Classico nella gara indetta dalla FIPGC, la Federazione Internazionale Pasticceria Gelateria. Interessante la Greenway delle Valli Resilienti, un percorso inaugurato nel 2019 allo scopo di promuovere un turismo lento ed ecosostenibile in una zona poco conosciuta e anche poco turistica che comprende 25 Comuni tra la Valle Trompia e la Valle Sabbia. La montagna, come dimostrano questi test, può avere una marcia in più nella ripartenza, in quanto offre esperienze all’aria aperta e salutari. Il post pandemia sarà la stagione dei piccoli paesi, delle aree rurali e delle aziende familiari, sicure e attente al rapporto diretto con gli ospiti. La sfida è grande e ci chiede di sostenere l’intera filiera delle comunità montane, in collaborazione con tutti gli enti, dal provinciale al regionale, fino al nazionale. 

            La Valle Camonica è la cosiddetta “terra dei segni” per le antichissime incisioni rupestri risalenti a diecimila anni addietro. La gastronomia, di origini antichissime, è basata essenzialmente sulla pastorizia e sui suoi prodotti. La lontananza dai capoluoghi, la difficoltà dei trasporti, una predisposizione, anche economica se vogliamo, all’utilizzo dei prodotti dell’antichissima terra camuna, fa sì che qui sopravvivano tradizioni altrove abbandonate o dimenticate come il cuz di Córteno Golgi. Infatti, qui funzionano ancora piccoli caseifici di formaggi caprini e ovini come alle Frise di Artogne. Si continua a produrre la salsiccia di castrato puro (ma sono rarissime le macellerie che insistono in questo senso); alcune trattorie e ristoranti come la Cantina di Esine di Giacomo e Oriana Belotti, propongono, ancora oggi, antichi piatti camuni, anche se il gusto del consumatore è cambiato, la radice con il territorio è però ancora salda. Si deve anche affermare che alcuni piatti sono molto apprezzati come il salame di Borno, la salsiccia di castrato di Breno, la carne salata sia di manzo camuno, sia di cavallo della Val Palot, salame da pentola e “strinù”, salsicce di carne mista. In questa valle hanno lasciato e lasciano il loro segno tanti artigiani come Pedersoli e Domenighini di Breno, il cuoco Giacomo “Fio” Ducoli e sua figlia Maria Grazia ristoratori in Breno e in Esine. Anche questa è terra di formaggi chi vuole può percorrere la Via dei Silter per rendersene conto. Prodotti come il Silter, il fatulì, il motelì, lo sta’el, la casatta di Córteno. Chi vuole assaggiare la cucina camuna deve proporsi di provare la hbernia di pecora, una sorta di pemmican dei pastori camuni, le piode e le migole di Malonno terra di patate eccellenti, i gnoc dè còla di Lozio caicc di Breno e i calsù di Ponte di Legno, Vione o Darfo. Non potrete farvi mancare, nel periodo pasquale, la spongada di Breno da consumare con il salame. Tutti prodotti di montagna che non hanno bisogno di protezione poiché, come scrive Carlo Petrini: 

“i prodotti dell’agricoltura di montagna sono, in qualche modo, “condannati” all’eccellenza, sia perché devono compensare l’economia di piccola scala con il valore aggiunto, sia perché proprio nelle aree montane si verificano, più facilmente che altrove, le condizioni ideali per la produzione di cibo”. 

È necessario che i giovani raccolgano il testimone di volontà e tenacia delle popolazioni valligiane e riportino la vita e l’operosità là dove sono state sottratte e che i custodi di queste realtà territoriali possano consegnare i semi della loro perseveranza e della loro resilienza nella speranza di poter ancora coltivare l’identità di valli libere e rispettate. 

Nelle illustrazioni: il Sentiero Silvano Cinelli, trasporto del latte, mucche al pascolo, vita contadina, la miniera del Nostrano Valtrompia, case di Viso, le incisioni rupestri, spongada camuna.

























venerdì 15 gennaio 2021

 

Brescia e le sue colline: dai Ronchi alla Franciacorta


        I contorni della città è un antico modo di chiamare una località indicandone i suoi confini, nel senso attuale di dintorni, a noi gastronomi piace di più questo vezzo antico legato, in qualche modo al cibo. La città, dal punto di vista agroalimentare era poco attrezzata, dipendeva dal contado, quello più vicino stava sui Ronchi e sul monte Maddalena. Roncaro, è il contadino dei Ronchi, che periodicamente scendeva dalla collina in città per portare la mucca alla monta in qualche casa contadina ai margini di Brescia. Roncare è anche sinonimo di tagliare, è voce onomatopeica del rumore della sega sul legno, è così anche nella lingua spagnola, in questo modo si dice pure, in dialetto, il russare, che assomiglia molto al taglio dei boschi. I Ronchi di Brescia sono numerosi e corrispondono, di solito, alle chiese presenti nella zona; San Rocchino, San Gottardo, Patrocinio, Santa Margherita, Santa Maddalena ecc. e arrivano fino a Gussago in Franciacorta. Prima erano la riserva di legna da riscaldamento della città e dei suoi borghi - ricordiamo che la strada dei Ronchi arrivava fino alla città, poiché via Turati è stata formata in epoca veneziana per rafforzare le difese orientali del Castello. In seguito, con il miglioramento economico, i roncari scenderanno dalle pendici dei Ronchi e della Maddalena con i loro cesti di uova, galline, verdure e primizie, ma anche funghi, castagne ed erbe selvatiche. Questa riserva fu molto importante per la città, dove raramente esistevano orti, se non negli ammassi di terra dovuti all’abbattimento delle mura romane e nelle periferie e in qualche breda a ridosso della città. Si riunirono in cooperativa per salvaguardare il loro mestiere. Le donne raccoglievano mughetti, giunchiglie, narcisi, iris, biancospino, li radunavano a mazzetti e li portavano alle loro “poste”, i luoghi dove trovavano i clienti abituali. Se non fossero stati fiori allora avrebbero potuto essere asparagi di pungitopo (spinasorèch), germogli di vitalba (böcc de edassa) e del luppolo (loertis). 

        Questi approvvigionamenti permisero l’invenzione di alcune ricette tipiche dei bresciani, come i risotti e le frittate ma anche la gallina ripiena, l’anatra o il germano che potevano finire in salmì per condire le foiade, il coniglio o il capretto alla bresciana, la minestra di mariconde, i brofadèi e i gnocarèi (due minestre a base di farina gialla o bianca), gli gnocchi e tutta la sequenza di guazzetti, stufati e stracotti che permettevano la cottura utilizzando il calore delle stufe a legna sempre accese nei mesi invernali. Nei mesi estivi, per conservare gli alimenti molti avevano la ghiacciaia: un mobile fornito di porta diviso in due scomparti sopra un alloggio metallico per contenere un blocco di ghiaccio (intero, diviso a metà o un quarto secondo la grandezza della ghiacciaia) che i fornitori portavano in città dalla fabbrica posta sul Garza di via Circonvallazione, oggi via 25 Aprile, accanto al nuovo macello (il vecchio stava alle Pescherie), anch’esso demolito. 

        Chi pensa a Brescia deve pensarla com’era nell’Ottocento una serie di borghi febbricitanti di attività, laddove oggi c’è lo sventramento di piazza della Vittoria, c’erano le botteghe, il luogo, detto delle Pescherie, Vecchie e Nuove, per la presenza dei negozi di vendita del pesce proveniente dai laghi e dalla Bassa, come le anguille, le rane e le bose. Macellai che “pulivano” gli animali sulla via tanto da chiamare ironicamente “sardella gioiosa” una stradina che percorreva il quartiere. Il centro era attraversato da numerosi corsi d’acqua prima il Garza e, dopo la deviazione attorno alle mura venete il Bova, il Celato e altri fiumiciattoli, guardate il lato sud della chiesa di Sant’Agata, accanto al masso portato dall’Adamello, e vedrete l’arco del ponte dove scorreva il fiume. 

        Le osterie. Chi, come me ha molti anni sulle spalle, ricorda le due osterie che dividevano in fazioni i bresciani: la Grotta e il Frate. Di qua i ragazzi del Classico, di là quelli con l’eschimo. Di qua il Lacryma Christi, di là i fagioli con le cipolle. Poi ancora l’Antica Lelia, il Cantinone del Carmine, la Buca della stazione, il Brentatore. Il Pappagallo e il Pappagallino, Topolino, il Bianchi (la sua trippa), l’Osteria del Gas, lo Zuavo, le Due Stelle (che baccalà, ragazzi). E sulle colline, specialmente la domenica, le comitive affollavano i locali come il Nando, il Rosso, la Margherita, al Galeter sul Ronco Capretti si fermavano gli uomini a bere il vino ma data la presenza di una bella fontana v’era pure da bere per gli animali. Citrìa (“ci trìa lei dottore, ci trìa lei che io non ci vedo” così si racconta l’origine del nome), invece era un licinsì cioè una osteria provvisoria che poteva vendere la produzione vinicola in eccesso, solitamente nella bella stagione con il Citrìa ci stavano Genio, Cà d’Abramo e Briscola. Osterie non certo di lusso tanto che giravano canzoni del tipo: 

“anche i ostér i è töcc embruiù 
i mésc-ia ‘l vì col’aqua 
e lùr i bév chel bù” 

        Gli osti parteciparono attivamente agli eventi risorgimentali e numerosi furono i caduti tra di loro: in una stanzetta al primo piano dell’osteria “Della Buca” tiene lezioni teoriche di “guerriglia” Tito Speri, e l’esercizio in Piazza delle Erbe di proprietà dell’oste Giuseppe Squintani è punto d’incontro di patrioti e cospiratori. A Brescia si preferivano alcuni vini particolari, qualcuno quelli di Manduria o di Trani, altri quelli della Riviera del Garda, ma i più graditi erano delle colline vicino a Brescia come ricorda Ottorino Milesi: 

“Mentre dai “medoli” e dalle “corne” della Vaiverde, i grappoli di Barbera, Schiava Gentile, Marzemino e Sangiovese si crogiolano al sole suggendo l ’ultima linfa, prima di finire nelle gerle dei roncari di Botticino, S. Gallo e Caionvico.” 

        Le botti arrivavano sul carro e venivano portate in cantina facendole scendere dalla botola che si trovava all’ingresso dell’osteria, due pali ne permettevano la discesa. Una volta sistemata in cantina la botte o la damigiana veniva collegata ad una pompa che faceva uscire il vino da sopra il bancone. I contenitori in vetro portavano un bollino che ne garantiva il contenuto: ¼, ½ o un litro. Occorre ricordare che nel 1829 arrivò a Brescia Franz Xavier Wührer che impiantò in città la sua fabbrica di birra (la prima in Italia), che nei decenni divenne un luogo di grandi feste, balli e libagioni con le cameriere in costume che portavano boccali colmi di birra con wurstel e crauti. 

        Oltre ai Ronchi non molto distante dalla città ci sta La Franciacorta che per secoli è stata considerata la campagna preferita dai nobili bresciani. Una delle capitali di questa zona è stata sicuramente Rovato e il suo mercato. La Fiera del Bue Grasso del periodo pasquale metteva in concorrenza allevatori che arrivavano all’eccesso (ma lo fanno anche i giapponesi di oggi), di nutrire il bue con uova e massaggi giornalieri, per sperare di vincere l’ambito concorso. La bontà di queste carni fa consumare tuttora tonnellate di carne di manzo servita, ai meno abbienti esclusivamente bollita, nelle case dei nobili si usava la versione “all’olio”, oggi è questa versione, ritenuta dai rovatesi storica perché, citata da alcune lettere di Veronica Gambara nobildonna rovatese del sedicesimo secolo, piatto molto apprezzato da alcuni decenni e offerto nelle numerose trattorie e osterie di Rovato con tanto di De. Co. e manifestazione pubblica. A Rovato, grazie al mercato così importante vi erano pure tante osterie che ancora al mattino presto preparavano i panini per i mercanti a base di peperoni sottaceto, stracchino verde oppure una scodella di trippa. In via Cantine si affiancavano l’una con l’altra lo ricorda Rossana Prestini che negli anni ’70 fece fare una ricerca ai suoi studenti: 

“A Rovato, però, osterie e trattorie appartengono ad una particolare tradizione formatasi nel corso di più secoli attorno a quella che ancor oggi è una delle principali risorse economiche della piccola capitale della Franciacorta: il mercato settimanale. Questi vecchi locali tipici raccontano un poco la storia del borgo, e ne sono una testimonianza non trascurabile”. 

        All’Osteria della Raffa in piazza Cavour, a fianco del mercato dei latticini, vi si trova un’inferriata sul pavimento che nasconde quello che un tempo era la ghiacciaia del Paese, lì sotto si ammucchiava la neve e si depositavano sopra della paglia le mezzene di bue a frollare. Se si chiede a una vecchia cuoca cosa preparasse oltre alle bistecche alla griglia o allo spiedo ecco la risposta: “i sguassiti fat ’n del brunsalì” “teedèi nostra”, “gnuchì” cioè il guazzetto cotto nel tegamino di rame, le tagliatelle nostrane e i gnocarèi tipici bresciani. 

        L’altra capitale è Gussago (nel Lombardo-Veneto Gussago, con Rovato, erano i capoluoghi delle rispettive Quadre della Franciacorta) con due iniziative che attiravano gente da tutta la provincia e oltre: La Festa dell’Uva, la Fiera della Caccia in autunno e la Festa delle ciliegie a giugno. Tutte nate dopo la Seconda guerra mondiale per dare significato alle tradizioni locali: il vino e lo spiedo. Con tutte queste vinacce non poteva mancare la grappa, e qui ne fanno alcune eccellenti. Durante queste manifestazioni sono immancabili le tavolate attorno allo spiedo franciacortino che qui ha ottenuto una delle due De. Co. provinciali (l’altra è Serle). La Franciacorta detiene anche una serie di Denominazioni locali legate ad altri prodotti oltre allo spiedo: il salame “Ret” di Capriolo la farina Belgrano di Castegnato (prima De. Co. italiana) dove si svolge anche Franciacorta in bianco rassegna nazionale dei formaggi. 

        Ecco ciò che era, ed è, la città con le sue colline, un luogo bello da vedere, buono da mangiare, forse oggi più di ieri quando imperversava la fame. Oggi addirittura possiamo contare su allevamenti caprini alle porte di Brescia dove Cristina produce ottimi formaggi e ricordiamo che anche la città di Brescia ha il suo vigneto si trova alle pendici del Castello, alla Pusterla, uno dei pochi vigneti cittadini d’Europa, è ancora Milesi a ricordarlo: 

“... resiste ancora saldamente appesa ai tralci di alcuni filari di vite dei Ronchi 
o della Franciacorta, qualche grappolo di quell’uva verdolina 
e appena ambrata nella parte esposta al sole, conosciuta 
col nome di "imbrunesca” o "invernenga”.

Nelle foto: i Ronchi di Brescia: il quartiere Pescherie, il Mercato dei grani, la Fabbrica del ghiaccio, Autunno Gussaghese, Lo Spiedo scoppiettando










venerdì 8 gennaio 2021



La Bassa Bresciana


            Iniziamo qui un viaggio attraverso la provincia bresciana, raccontando delle peculiarità proprie di ciascuna zona. Lo sanno anche i bresciani disattenti che la nostra provincia è vasta e composita, se escludiamo le città metropolitane, la nostra provincia con i suoi circa 4800 km quadrati è la prima per vastità del territorio nazionale con 205 comuni. Questo territorio andrebbe a sua volta suddiviso in area orientale, centrale e occidentale. È zona prevalentemente agricola e di allevamento, a est i suini a ovest i vaccini, in mezzo gli acquitrini di rogge e risorgive con i fiumi a fare da contorno. e, naturalmente gli animali da cortile. La diffusione di cascine tipiche lombarde con l’aia dove asciugare le pannocchie, di volta in volta, di sorgo, frumento, mais, miglio, segale e altri farinacei minori, tutti comunque indispensabili per le polente, il pane e la pasta. Tutti questi elementi contribuivano, innanzitutto, a riempire la pancia sempre implorante di cibo. D’altronde il lavoro era duro, le calorie a disposizione (che non erano ancora conosciute appieno), erano sempre insufficienti. C’era la possibilità di avere a disposizione la carne del maiale allevato in casa (sappiamo che anticamente l’allevamento poteva durare anche due-tre anni), ma nell’ultimo secolo si sono individuati metodi di allevamento più proficui e una riserva di tanta carne non poteva non sviluppare alcune ricette tipiche di queste zone: il sangue innanzitutto veniva trasformato ancora fresco in una torta di sangue alla quale si poteva aggiungere cipolla tritata, latte, uva passa, grana e zucchero per avere un “dessert” semi dolce e molto apprezzato. Ma d’altronde anche dal sangue della gallina o dei polli appena uccisi si poteva ottenere un dolce che piaceva parecchio. Nella Bassa erano diffuse anche le marcite, dove si poteva coltivare il riso: ecco che dal matrimonio tra il riso e i ritagli del maiale nasce una minestra, diversa da quella cosiddetta “sporca” bresciana. Qui è il riso a essere “sporco”, infatti, il “ris sporc” (riso sporco) è tipico della cucina bassaiola durante il sacrificio del maiale, assieme a prodotti che condividiamo con altre province come le ossa conservate in sale, la frittura di maiale e altri animali, i fagioli con le cotiche, gli stufati di manzo e di cavallo, il tutto contornato da polenta abbastanza duretta. Fiesse è l’ultimo dei comuni della provincia, ai confini con Mantova e Cremona, qui è nata nel 1990 la “Sagra del Pursèl” ideata proprio per tutelare e promuovere le attività e le tradizioni legate al maiale ed ai suoi prodotti trasformati in salami crudi e da cuocere, pancette, coppe e greppole. A Chiari è di tradizione la preparazione la soppressata di maiale una complessa operazione di cottura di testa, piedini, orecchie di maiale e lombo con verdure e, infine, sistemata in uno stampo a raffreddare.

            Ai tempi di re Desiderio, re Longobardo, in quel di Leno fu fondata un’abbazia che per secoli dominò mezza Italia, non per niente fu chiamata Dominato Leonense. Le vicissitudini storiche furono molte ma sicuramente i monaci succedutisi nei secoli hanno contribuito a bonificare questa Bassa percorsa da innumerevoli rigagnoli, trasformandola in una zona agricola feconda. La propensione agricola è ben sintetizzata nell’antico none di San Paolo: Pagus farraticanus a dimostrazione che fin dai tempi antichi queste lande erano ottime per coltivare il farro, l’antico cereale dei Romani. Non molto distante Gottolengo che ha ritrovato le sue tradizioni agricole e contadine con l’assegnamento di ben quattro Denominazioni Comunali (De.Co.) al salame, alla patata, ai tortelli di zucca e agli gnocchi, naturalmente di patate di Gottolengo. Qui si producono anche le famose “marronata e cotognata”, questa è terra di confine dove anche i casoncelli, anzi tortelli come avete visto. si fanno con la zucca e qualcuno ci mette la mostarda all’uso mantovano, per cui da quasi un secolo qui si producono queste specialità che arrivano poi nelle botteghe della città attorno a Natale.

            L'agricoltura aveva i suoi maestri proprio nella Bassa a partire da Agostino Gallo fino a don Giovanni Bonsignori nato a Ghedi nel 1846, fondò la Colonia Agricola e la Scuola Agraria a Remedello verso la fine dell'800. Le sue prime realizzazioni sono emblematiche. Dà vita a una latteria sociale che produce un burro che in un'esposizione a Londra sarà premiato con medaglia d'oro. Costruisce un essiccatoio pubblico per il granoturco per combattere la formazione di un fungo che è fra le cause della pellagra e delle febbri. Attraverso l'impianto di pozzi artesiani si preoccupa di far arrivare l'acqua potabile.

«Ve lo ricordate, miei cari, allorché prima del 1881 le febbri palustri e la pellagra tenevano oziose tante braccia e il tifo facea strage dei nostri più forti giovani, tanto che il numero annuale dei morti pareggiava quello dei nati?”

Nel 1903 la Colonia riceve dalla casa dei Fratelli Ingegnoli di Milano il primo premio del concorso per il pomodoro più grosso.

Di Orzinuovi invece era Giuseppe Pastori che lasciò in eredità le sue tenute affinché si costituisse un Istituto Agrario che tuttora esiste alla Bornata di Brescia e alla Cooperativa Giardino di Orzivecchi. 

            Nella zona ha trovato la nascita uno dei nostri piatti simbolo: i casoncelli, anzi i casonsèi. Tra Longhena, Barbariga e Cignano si combatte per la primogenitura di un piatto che nasce povero e che si arricchisce con il benessere che lentamente si diffonde anche nella Bassa. Inizialmente il ripieno è di solo pane grattugiato e grana, in primavera delle erbette dell'orto poi si giunge ad arricchirlo con prosciutto, mortadella, carni varie. Non cambia invece il condimento ridotto a burro, salvia e grana grattugiato. Barbariga oltre che i casoncelli ci propone anche un piatto ricco a base di risotto, funghi e gallina, lo chiamano ufficialmente “la bariloca”, nome strano ma buon piatto, se fatto bene. A Orzinuovi nel 2018 è nata l’idea di mettere a confronto le varie tipologie di casoncelli e così è partito il “1° Concorso Provinciale dei Casoncelli Bresciani”.

“Marina da Offlaga fu l’inventrice de’ fiadoni e de’ raffioli di enola e del mangiare erbe amare; Melibea da Manerbio fu l’inventrice de’ casoncelli, delle offelle e delli salviati”

Così, nel 1553, Ortensio Lando nel suo “Catalogo de gl’inventori delle cose che si mangiano”, ci racconta della nascita di casoncelli, raffioli e fiadoni con ripieni dolci e salati.

            L'allevamento bovino si trasforma presto in formaggi come la famosa robiola bresciana e l'ottimo grana padano di molte aziende dislocate da queste parti. Anche il gorgonzola trova i suoi 
appassionati specialmente quello piccante, detto a due paste. Campagna significa molte cose: ampi spazi per la caccia, campi con erbe selvatiche da trasformare nei nostri famosi risotti; alle prime brume autunnali i chiodini invitano alla raccolta; le acque ribollono invece di rane e bose, per cui i cittadini invadono le osterie per l'assaggio, il tutto accompagnato da un insolito vino, rosso sangue, servito in scodella: il clinto. A proposito di vino in mezzo a questa pianura emerge un colle, cosparso di vigneti: il colle di Capriano con i suoi vini, rossi e bianchi di buon livello.

            Con tutta quest'acqua era normale che si sviluppasse l'acquacoltura, all'inizio furono anguille, in seguito si allargò l'allevamento agli storioni per divenire un caposaldo internazionale del caviale italiano, il tutto in quel di Calvisano.

            Oggi noi la percorriamo distrattamente e, spesso, ci chiediamo cosa ci faccia lì un aeroporto. Siamo in quella zona detta della Fascia d'Oro, il nome deriva da un'antica osteria che per l’intestazione prese spunto forse dai campi dorati seminati a grano o a mais. Fatto sta che alla fine dell'800 una gran smania prese i bresciani per i motori a scoppio, sia quelli montati su velivoli, sia quelli montati su automobili e motociclette. Allora per promuovere queste novità si pensò di organizzare una serie di gare. La scelta cadde sulla brughiera di Montichiari e si costruì un circuito automobilistico che prese il nome della vecchia osteria e si organizzarono le prime corse: la Targa Florio e poi il primo Gran Premio d'Italia ma poi la costruzione del circuito di Monza fece spostare la gara nazionale in Brianza. Rimase comunque una pista apprezzata dagli sportivi, lunga 18 km e con tanto di parabolica e tribune. Oggi corrono su questo vecchio circuito, sparita la curva parabolica, rassegne storiche per gloriose automobili che, lustrate a nuovo, mostrano la grinta di un tempo. Ma Montichiari è anche sede di un grande mercato settimanale dove gli agricoltori possono acquistare, vendere e scambiarsi consigli, le persone normali invece trovano uova e piccoli animali da cortile. Di Montichiari anche una ricetta insolita, riportata da Camillo Pellizzari: “Pasta cotta nel vino”, insolita nel sapore rustico ma dimostrativa dell’utilizzo di ciò che si aveva a disposizione in dispensa.

            Nella pianura in primavera si possono raccogliere numerose erbe selvatiche: dai papaveri che rosseggiano tra i filari di mais si raccolgono le giovani foglie dette “madunine” che possono finire in minestra; nel risotto o nella frittata finiranno i “virzulì” oppure i “loertis”; le lumache, altra passione dei bresciani si fanno con le erbe o semplicemente lessate e condite con aglio, olio e prezzemolo. I cremonesi di Soncino vantano una specialità che in realtà pare sia bresciana, parlo delle radici amare della cicoria che sono ben coltivate dalle parti di Mairano e Pievedizio. A Padernello, presso l’omonimo castello, vi organizzano molte iniziative, la più ghiotta è senz’altro il Mercato della Terra dove s’incontrano i coltivatori che espongono per la vendita i loro prodotti. Gli animali da cortile primeggiano in tavola come le galline e le anatre ripiene e se proprio mancano le galline il ripieno lo facciamo lo stesso, finirà sulle foglie di verza e si chiamerà “capù sensa le ale”. Sommate quindi le varie zone agricole possiamo affermare la presenza di una tradizione antica che nelle fave, nella cicoria, nei fagiolini dall’occhio e, come abbiamo visto patate, zucche, cereali ha fondato la sua base alimentare.

            Vi è anche un paese famoso per la sua manifestazione annuale: la Travagliatocavalli nata da una proposta comunale risalente alla primavera del 1889 è da molti anni un’attrattiva per addetti e appassionati. La passione dei bresciani per le carni equine ci fa tornare alla tavola dove stufati di carne asinina e costate di cavallo appaiono spesso sul desco nostrano, un macellaio locale volle poi chiamare “travagliatina” la fiorentina locale di carne equina. La passione per questa carne che condividiamo con i parmigiani, è nata da un concetto evidente e utilitaristico: il numero impressionante di cavalli morti durante le frequenti guerre del tempo andato. Un peccato si disse il contadino lasciare tutta quella carne a marcire e così imitando i soldati la recupera e ne fa dei piatti goderecci. D’altronde un tempo, di carne sulle mense contadine, ne appariva poca. 

           Altro comune di vasta importanza è Orzinuovi, qui per la sua posizione ai confini della provincia delineati dal fiume Oglio, furono secoli di guerre tanto da dover trasformare il borgo in una cittadella fortificata. L’attività prevalente fu l’agricoltura e la produzione di seta, tramite il baco, e la lavorazione del lino. Occuparono molto tempo anche le guerre con Soncino a causa dell’uso dell’acqua del fiume Oglio, indispensabile per l’agricoltura, la cura del lino e la pesca. L’abbondanza di acqua fa sviluppare, in località Belprato un’azienda di itticoltura per la produzione di storioni. Per la qualità delle sue acque nasce qui la specialità di Orzinuovi: “l'anesone triduo” una specie di acquavite reputata e ricercatissima chiamata il "mistrà di Brescia" prima che Cristoforo Ruboldi di Orzinuovi, nel 1824, la preparasse con segreto processo e con triplice distillazione, per cui l'anesone d'Orzinuovi fu detto triduo. Il segreto venne trasmesso a Giovanni Rossi, sotto la cui ditta proseguì la fabbricazione della rinomatissima specialità, che già a metà '800 veniva esportata in tutte le parti del mondo sotto il nome di “anisette d'Orzinuovi”.

            Questa è una parte della nostra provincia che guardiamo con sufficienza e invece nasconde preziose qualità e luoghi ambientali di forte impatto, la pensiamo la plaga del Chiese, del Mella o dell’Oglio e dimentichiamo che è stata la nostra dispensa alimentare e oggi possiamo frequentare i parchi di tutela dell’Oglio e dello Strone per allontanarci dall’inquinamento delle città.

Nelle foto: il campo e la serra Pastori, la Sagra di Fiesse, il Concorso Casoncelli, Giuseppe Pastori, la cartina della Bassa Bresciana, grappoli di clinto, Castello di Padernello.









venerdì 1 gennaio 2021

 



Il cibo di strada ovvero lo street food  
  
          In questo annus horribilis per sopravvivere molti esercizi di bar, ristorazione e forniture alimentari semilavorate si sono dovuti arrabattare con nuove proposte, abbiamo così scoperto o riscoperto nuove parole, le più diffuse sono state: take awai e delivery. Mentre per la prima, già conosciuta come portar via del cibo per consumarlo a casa propria. Questo servizio è stato proprio delle gastronomie diffuse nelle città, da noi, a Brescia, il mitico Agosti, sotto i portici X Giornate. Il secondo termine tradotto in consegna è più subdolo e nasconde varie insidie: la prima lo sfruttamento di coloro che consegnano, sono molti i casi di utilizzazione impropria di questi ragazzi; la seconda è di richiedere sempre lo scontrino emesso alla fonte dell’attività; la terza è nascosta nell’origine del nome: delivery, che deriva dal francese se delivrer il quale significa, oltre che rilasciare, emettere, anche liberarsi. Orbene noi abbiamo estrema fiducia negli operatori onesti ma chiediamo attenzione per chi approfitta della situazione per liberarsi di qualcosa che non sapeva come disfarsene, vale per il cibo ma anche per tanti altri prodotti, quindi estrema attenzione nel richiedere questo servizio che sicuramente proseguirà anche dopo questa emergenza.  

            Mangiare per strada è sempre stata un’esigenza quotidiana, almeno da quando si sono inventate le città e le professioni. Oggi sembra un’ottima idea consumare il cibo lontano dalle etichette che comporta il sedersi in un locale più o meno importante. Il cibo di strada ovvero lo street food, come lo chiamano i patiti dell’inglese, è un modo antico di approvvigionarsi di cibarie. È proprio di questi giorni la scoperta a Pompei di un Thermopolium, di fatto una bottega di alimentari con smercio di cibo, si vedono benissimo le attrezzature usate nel 79 d. C. e perfino avanzi di cibo del tempo. Questo modo risale al tempo degli antichi egizi, passato poi ai Greci, ai Romani e infine diffuso in tutto il mondo. Vi sono nazioni che hanno nel cibo di strada il loro sostentamento alimentare pensate alla Thailandia e ai paesi asiatici. È di qualche giorno la notizia che l’Unesco ha riconosciuto Patrimonio dell’Umanità il cibo di strada di Singapore. La cultura dello street food si riferisce alla comunità di venditori che cucinano e vendono pasti nei 114 centri sparsi per Singapore, dove persone di ogni ceto sociale si mescolano e mangiano piatti economici e appena cucinati dalla mattina alla sera. I tradizionali venditori ambulanti vendono molti piatti diversi, dall’anatra arrosto ai panini di maiale al vapore, dallo zampone di maiale e al fish head curry, piatto tipico della cucina locale.  

        Anche l’Italia ha con il cibo di strada un profondo radicamento, basta leggere “La piazza universale di tutte le professioni del mondo”, scritto da Tommaso Garzoni ed edito a Venezia nel 1585 per incontrarne a centinaia. Un giro per l’Italia del cibo on the road ci porta sottolineare alcuni monumenti alimentari a partire dalle viuzze (carrugi) di Genova dove i frisceu nelle friggitorie, le fugasse nelle focaccerie o sciamadde, le torte salate sono cibo quotidiano. Più a sud a Recco da qualche decennio spopola la focaccia di Recco ripiena di formaggetta. In Piemonte servono i gofri, delle cialde fatte in appositi stampi. A Venezia da secoli girano per le calli venditori di folpetti che sarebbero poi moscardini bolliti, il polentaro e il fritolero che incitava così all’acquisto: 

“Su le sagre, e spesso anca in altri lioghi   
fritolazze mi vendo col zebibo  
che ve imprometto le ghe impata ai cuoghi”  

        A Milano più che incontrare si sente gridare per strada quel dei gamber, quel del giazz e quel del peladèi, venditore di castagne già pelate. Una delle capitali del cibo di strada è Firenze dove i famosi trippai ti propongono il panino con il lampredotto e, naturalmente il castagnaccioNella capitale è tutto un vociare di perecottari, mostacciolari e venditori di grattachecca la nostra granita ma strusciata con una pialletta apposita renderla simile a neve e ancora i supplì e il baccalà fritto con le puntarelle. Altro clima, altre proposte a Napoli i maccheronari ti offrivano quelli che noi chiamiamo spaghetti, da mangiarsi, naturalmente, con le mani. C’è un film, “Il Giovedì” degli anni ‘60 dove Walter Chiari al figlio che usa la forchetta per mangiare il fritto lo rimprovera con: “ma lo sai cosa sono le mani, le mani sono le posate del re!” In un altro “L’oro di Napoli” una strepitosa Sophia Loren da un basso napoletano frigge la pizza e segna sul calendario il credito “ogge a otto”. Nelle vie di Napoli destavano grande entusiasmo l’arrivo del surbettaro del zeppolaiolo per le cose dolci che fornivano (gelati e zeppole) mentre l’acquafrescaio offriva ai poveretti un bicchiere d’acqua e limone. Sull’altro mare, quello Adriatico è un trionfo di borlenghi, gnocchi fritti, e piadine da Ravenna a Rimini. Gli arrosticini sono i tipici abruzzesi e poco più giù nelle Marche spuntature e ciarimboli finiscono nei panini, poi troviamo la famosa oliva ascolana ripiena di carne e fritta. In Puglia trionfano panzerotti e gnumeriedd, le puccie e le pettole. La Sicilia, infine, dove ai mercati di Lo Capo, Ballarò e Vucciria i profumi predominano su pane con la meusa, sfinciuni, pane e panelle, arancine di riso e cannoli ripieni di ricotta. 

        E a Brescia? Anche noi abbiamo il nostro cibo di strada come il bertagnì, il gelato del Biondo e la patuna la versione bresciana del castagnaccio che era venduta davanti alle scuole in piccoli rettangoli. A Porta Pile fino a pochi anni fa c’era ancora l’insegna. 

        Gli artigiani del cibo di strada si sono dati anche un manifesto, eccolo: 

Manifesto del cibo di strada 

Aderenza alla territorialità: il cibo di strada deve essere collegato al territorio attraverso una tradizione gastronomica e/o l’utilizzo di materie prime specifiche, preferibilmente certificate (Dop, Igp, Bio).  
Fruibilità e consumo: il cibo di strada deve essere servito in monoporzione e confezionato in maniera da potersi mangiare ovunque.  
Artigianalità della produzione: il cibo di strada deve essere fatto con l’apporto della manualità.  
Economicità: il cibo di strada deve essere conveniente rispetto a un pasto servito.  
Tradizione o originalità: il cibo di strada deve essere elaborato seguendo una ricetta tradizionale o una interpretazione originale e creativa.  
Felicità: il cibo di strada deve procurare una sensazione non solo di sazietà, ma di benessere.  

        Il cibo da strada si è liberato dai pregiudizi per rivendicare il proprio posto alla luce del sole come espressione di civiltà gastronomica. Il cibo di strada non è solo un fenomeno di moda, è un nuovo modo di vivere il rapporto millenario di una popolazione con il proprio cibo, con le proprie radici, reinventandolo tutti i giorni in forma innovativa, sorprendente, pratica e soprattutto gustosa. Il trend è innegabile, oramai lo street food ha acquisito i suoi luoghi di eccellenza anche grazie alla globalizzazione, alla mediatizzazione del cibo e dei cuochi a livello planetario. Giornali e riviste, trasmissioni televisive, guru della gastronomia hanno consacrato il cibo “on the road” a nuova icona del terzo millennio. 

        Nulla vieta, dunque che anche la cucina bresciana possa interpretare alcune sue proposte in consumo “da passeggio”: penso ai tanti casoncelli che inseriti in un cartoccio potrebbero ben figurare; ridurre a piccoli pezzi lo spiedo cotto e ricostruirlo in spiedini dove non far mancare la polenta, il tutto da spiluccare per strada; i tanti nostri risotti potrebbero diventare frittate di riso da vendere a spicchi. Insomma, c’è da usare la fantasia ma, se vogliamo potremmo farcela. Buona passeggiata!

Nelle immagini: il thermopolium di Pompei, il maccaronaro di Napoli, la Vucciria di Palermo, infografica street food, gli arrosticini, l'ape da strada, festival del cibo di strada