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venerdì 1 gennaio 2021

 



Il cibo di strada ovvero lo street food  
  
          In questo annus horribilis per sopravvivere molti esercizi di bar, ristorazione e forniture alimentari semilavorate si sono dovuti arrabattare con nuove proposte, abbiamo così scoperto o riscoperto nuove parole, le più diffuse sono state: take awai e delivery. Mentre per la prima, già conosciuta come portar via del cibo per consumarlo a casa propria. Questo servizio è stato proprio delle gastronomie diffuse nelle città, da noi, a Brescia, il mitico Agosti, sotto i portici X Giornate. Il secondo termine tradotto in consegna è più subdolo e nasconde varie insidie: la prima lo sfruttamento di coloro che consegnano, sono molti i casi di utilizzazione impropria di questi ragazzi; la seconda è di richiedere sempre lo scontrino emesso alla fonte dell’attività; la terza è nascosta nell’origine del nome: delivery, che deriva dal francese se delivrer il quale significa, oltre che rilasciare, emettere, anche liberarsi. Orbene noi abbiamo estrema fiducia negli operatori onesti ma chiediamo attenzione per chi approfitta della situazione per liberarsi di qualcosa che non sapeva come disfarsene, vale per il cibo ma anche per tanti altri prodotti, quindi estrema attenzione nel richiedere questo servizio che sicuramente proseguirà anche dopo questa emergenza.  

            Mangiare per strada è sempre stata un’esigenza quotidiana, almeno da quando si sono inventate le città e le professioni. Oggi sembra un’ottima idea consumare il cibo lontano dalle etichette che comporta il sedersi in un locale più o meno importante. Il cibo di strada ovvero lo street food, come lo chiamano i patiti dell’inglese, è un modo antico di approvvigionarsi di cibarie. È proprio di questi giorni la scoperta a Pompei di un Thermopolium, di fatto una bottega di alimentari con smercio di cibo, si vedono benissimo le attrezzature usate nel 79 d. C. e perfino avanzi di cibo del tempo. Questo modo risale al tempo degli antichi egizi, passato poi ai Greci, ai Romani e infine diffuso in tutto il mondo. Vi sono nazioni che hanno nel cibo di strada il loro sostentamento alimentare pensate alla Thailandia e ai paesi asiatici. È di qualche giorno la notizia che l’Unesco ha riconosciuto Patrimonio dell’Umanità il cibo di strada di Singapore. La cultura dello street food si riferisce alla comunità di venditori che cucinano e vendono pasti nei 114 centri sparsi per Singapore, dove persone di ogni ceto sociale si mescolano e mangiano piatti economici e appena cucinati dalla mattina alla sera. I tradizionali venditori ambulanti vendono molti piatti diversi, dall’anatra arrosto ai panini di maiale al vapore, dallo zampone di maiale e al fish head curry, piatto tipico della cucina locale.  

        Anche l’Italia ha con il cibo di strada un profondo radicamento, basta leggere “La piazza universale di tutte le professioni del mondo”, scritto da Tommaso Garzoni ed edito a Venezia nel 1585 per incontrarne a centinaia. Un giro per l’Italia del cibo on the road ci porta sottolineare alcuni monumenti alimentari a partire dalle viuzze (carrugi) di Genova dove i frisceu nelle friggitorie, le fugasse nelle focaccerie o sciamadde, le torte salate sono cibo quotidiano. Più a sud a Recco da qualche decennio spopola la focaccia di Recco ripiena di formaggetta. In Piemonte servono i gofri, delle cialde fatte in appositi stampi. A Venezia da secoli girano per le calli venditori di folpetti che sarebbero poi moscardini bolliti, il polentaro e il fritolero che incitava così all’acquisto: 

“Su le sagre, e spesso anca in altri lioghi   
fritolazze mi vendo col zebibo  
che ve imprometto le ghe impata ai cuoghi”  

        A Milano più che incontrare si sente gridare per strada quel dei gamber, quel del giazz e quel del peladèi, venditore di castagne già pelate. Una delle capitali del cibo di strada è Firenze dove i famosi trippai ti propongono il panino con il lampredotto e, naturalmente il castagnaccioNella capitale è tutto un vociare di perecottari, mostacciolari e venditori di grattachecca la nostra granita ma strusciata con una pialletta apposita renderla simile a neve e ancora i supplì e il baccalà fritto con le puntarelle. Altro clima, altre proposte a Napoli i maccheronari ti offrivano quelli che noi chiamiamo spaghetti, da mangiarsi, naturalmente, con le mani. C’è un film, “Il Giovedì” degli anni ‘60 dove Walter Chiari al figlio che usa la forchetta per mangiare il fritto lo rimprovera con: “ma lo sai cosa sono le mani, le mani sono le posate del re!” In un altro “L’oro di Napoli” una strepitosa Sophia Loren da un basso napoletano frigge la pizza e segna sul calendario il credito “ogge a otto”. Nelle vie di Napoli destavano grande entusiasmo l’arrivo del surbettaro del zeppolaiolo per le cose dolci che fornivano (gelati e zeppole) mentre l’acquafrescaio offriva ai poveretti un bicchiere d’acqua e limone. Sull’altro mare, quello Adriatico è un trionfo di borlenghi, gnocchi fritti, e piadine da Ravenna a Rimini. Gli arrosticini sono i tipici abruzzesi e poco più giù nelle Marche spuntature e ciarimboli finiscono nei panini, poi troviamo la famosa oliva ascolana ripiena di carne e fritta. In Puglia trionfano panzerotti e gnumeriedd, le puccie e le pettole. La Sicilia, infine, dove ai mercati di Lo Capo, Ballarò e Vucciria i profumi predominano su pane con la meusa, sfinciuni, pane e panelle, arancine di riso e cannoli ripieni di ricotta. 

        E a Brescia? Anche noi abbiamo il nostro cibo di strada come il bertagnì, il gelato del Biondo e la patuna la versione bresciana del castagnaccio che era venduta davanti alle scuole in piccoli rettangoli. A Porta Pile fino a pochi anni fa c’era ancora l’insegna. 

        Gli artigiani del cibo di strada si sono dati anche un manifesto, eccolo: 

Manifesto del cibo di strada 

Aderenza alla territorialità: il cibo di strada deve essere collegato al territorio attraverso una tradizione gastronomica e/o l’utilizzo di materie prime specifiche, preferibilmente certificate (Dop, Igp, Bio).  
Fruibilità e consumo: il cibo di strada deve essere servito in monoporzione e confezionato in maniera da potersi mangiare ovunque.  
Artigianalità della produzione: il cibo di strada deve essere fatto con l’apporto della manualità.  
Economicità: il cibo di strada deve essere conveniente rispetto a un pasto servito.  
Tradizione o originalità: il cibo di strada deve essere elaborato seguendo una ricetta tradizionale o una interpretazione originale e creativa.  
Felicità: il cibo di strada deve procurare una sensazione non solo di sazietà, ma di benessere.  

        Il cibo da strada si è liberato dai pregiudizi per rivendicare il proprio posto alla luce del sole come espressione di civiltà gastronomica. Il cibo di strada non è solo un fenomeno di moda, è un nuovo modo di vivere il rapporto millenario di una popolazione con il proprio cibo, con le proprie radici, reinventandolo tutti i giorni in forma innovativa, sorprendente, pratica e soprattutto gustosa. Il trend è innegabile, oramai lo street food ha acquisito i suoi luoghi di eccellenza anche grazie alla globalizzazione, alla mediatizzazione del cibo e dei cuochi a livello planetario. Giornali e riviste, trasmissioni televisive, guru della gastronomia hanno consacrato il cibo “on the road” a nuova icona del terzo millennio. 

        Nulla vieta, dunque che anche la cucina bresciana possa interpretare alcune sue proposte in consumo “da passeggio”: penso ai tanti casoncelli che inseriti in un cartoccio potrebbero ben figurare; ridurre a piccoli pezzi lo spiedo cotto e ricostruirlo in spiedini dove non far mancare la polenta, il tutto da spiluccare per strada; i tanti nostri risotti potrebbero diventare frittate di riso da vendere a spicchi. Insomma, c’è da usare la fantasia ma, se vogliamo potremmo farcela. Buona passeggiata!

Nelle immagini: il thermopolium di Pompei, il maccaronaro di Napoli, la Vucciria di Palermo, infografica street food, gli arrosticini, l'ape da strada, festival del cibo di strada
















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