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venerdì 27 novembre 2020

Autunno, tempo di bolliti 

        Ai primi freddi è giusto rimediare con piatti caldi e sostanziosi per affrontare l’inverno che verrà. L’uomo, dopo aver apprezzato e saputo gestire il fuoco ha inventato un contenitore, probabilmente una buca che, riempita di acqua e pietre roventi gli procurasse un po' di acqua calda, utile per lavarsi ma che, una volta immersi dei pezzi di carne, questi risultassero teneri. È nato così, semplicemente il bollito che tutto il mondo conosce. Poi la conoscenza e il buon gusto, specialmente di noi italiani hanno fatto nascere piatti speciali di cui parleremo. Tutto il mondo ha il suo bollito, il suo lesso: a proposito che differenza c’è tra i due termini? In realtà sono sinonimi tant’è che in Toscana, anche l’Artusi, lo chiamano lesso. Gastronomicamente per bollito s’intende la carne messa in acqua bollente e per lesso la carne che serve per ottenere un buon brodo come abbiamo visto nell’articolo dedicato al brodo. Dario Bressanini, chimico, sostiene che non esistono differenze tra le due tecniche, il punto sta che il chimico fa lo scienziato, il cuoco assaggia e nota una differenza gastronomica, di gusto, tra i due modi di procedere, con buona pace di tutti. È invece verissimo che la temperatura di cottura influisce sul colore delle carni: più è bassa la temperatura più le carni risultano rosate, per ottenere questo risultato però occorre uno strumento come il Roner che in casa non c’è. 

        Da noi il bollito, anzi, il gran bollito per eccellenza è quello piemontese, anche se, a dire il vero, non è male neppure il bollito misto di noi lombardi, veneti o emiliani. In Piemonte è nata una Confraternita in difesa della tradizione che vuole sette parti di bovino, c’è chi preferisce il manzo, chi il vitello, immersi in acqua bollente nella quale si sono aggiunte delle verdure, le solite, con la cipolla infilzata con quattro chiodo di garofano e un mazzetto di odori legati tra loro o, meglio, rinchiusi in una garza tanto da poterli eliminare (alloro, gambi di prezzemolo, uno spicchio d’aglio, rosmarino). Le carni prescelte fanno parte della spalla e della pancia del bovino come il cappello del prete, la scaramella il bianco costato, il geretto, il muscolo, il fiocco e il tenerone. Servono poi sette ammennicoli che sono la gallina, la testina, la lingua, la coda, lo zampino, il cotechino, i piemontesi usano servire anche della lonza arrosto a metà servizio, altri uniscono una rollata cioè una pancia ripiena che potete fare bollita o arrosto. Ora il problema principale è l’attrezzatura di cucina poiché tutti questi elementi necessitano di recipienti in cui cuocere separatamente. Alle carni potete unire la gallina ma la testina, la lingua, lo zampino e il cotechino dovete cuocerli da soli. Intanto che cuociono le varie carni, mettete nel conto quattro ore, potete approntare i contorni e le salse. Per contorno prevedete: patate, carote e rape lesse, cipolline in agrodolce, verza bollita, finocchi e zucchine ripassati al burro. Per le salse non possono mancare la salsa verde, rustica o ricca (in quest’ultima aggiungete rossi d’uovo lessati e capperi), il cosiddetto bagnèt ross a base di pomodori e acciughe, la salsa d’uva o cugnà, la salsa al cren, la salsa al miele, la mostarda di Cremona alle quali potrete aggiungere, secondo il vostro gusto o tradizione: maionese, ketchup, pearà, salsa tartara, giardiniera, salsa allo yogurt ecc. Secondo le zone il bollito sarà più o meno ricco, quello piemontese è una vera istituzione: in tavola ci sarà del sale grosso, del pane, una scodella di brodo bollente. Al termine è d’uso servire uno zabaione o delle pere madernasse cotte nel vino. 

        Se da noi il carrello dei bolliti è una istituzione che solo alcuni ristoranti possono esibire, anche all’estero hanno elaborato i loro bolliti come il Cocido madrileno, il Puchero andaluso, la Olla podrida nelle varie versioni europea e sudamericana; in Francia si usa il Pot-au-feu memori della promessa che, nel XVI secolo fece Enrico IV di Francia: Io voglio che alla domenica ogni contadino abbia il suo pollo in pentola.

        Il problema principale di queste preparazioni sontuose è il recupero degli avanzi, il freezer ci può aiutare molto permettendoci di separare, in sacchetti e contenitori diversi, molti di questi ingredienti ma vorrei che vi soffermiate su alcune nostre tradizioni nate proprio per recuperare il cibo avanzato in una festa fuori dall’ordinario come quella descritta. Avete messo nel pentolone delle carni la coda? bene, staccatene, con un coltellino, tutta la carne e usatela per fare la nostra famosa minestra di coda: brodo, carne della coda e pastina. Con i pezzi di carne un po' sfilacciati potete farne delle polpette da friggere o da passare in padella con sugo di pomodoro secondo i gusti. Se avete delle parti integre potrete fare la nostra insalata di carne e cipolle alla quale potete aggiungere anche dei fagioli lessati. Pellegrino Artusi propone nel suo famoso manuale ben tre ricette di lesso rifatto. In Toscana per questo scopo si sono inventati la francesina fette di carne messe in padella con cipolle rosolate con la salvia e poi pomodori pelati, il tutto insaporito con pepe e prezzemolo tritato. Francesco Chapusot nel 1846 consigliava a francesi e piemontesi di recuperare il lesso avanzato in un tegame e farvi appassire la cipolla e i cetriolini tagliati, le acciughe e il prezzemolo. Durante la cottura aggiungere del vino bianco e del brodo e far sobbollire per alcuni minuti. Dopo aver tagliato la carne a fette, sistemare il bœuf-miroton (questo il nome del piatto) in un tegame e proseguire la sua cottura per venticinque minuti. A Parma è invece in uso un’antica preparazione chiamata la vecchia: si fa un battuto d’aglio, cipolla, sedano, prezzemolo; si tagliano a fette una cipolla, tre pomodori maturi, tre patate, due peperoni verdi puliti. Si fanno scaldare olio e burro, si aggiungono le verdure, il battuto, s’abbassa il fuoco, si fa cuocere lentamente aggiungendo un po’ di brodo. A questo punto si aggiungono fette di lesso avanzato e si fa scaldare bene prima di servire. Un piatto classico delle osterie romane era la picchiapò: la carne veniva tagliata a pezzi e messa in padella con cipolle e pomodori in modo da renderla tenera e saporita come non mai. Sentite Luca Barbarossa in una sua canzone, La Dieta: 

“Pé fà la picchiapò ce vò er bollito
Tajato a fette arte mezzo dito
Soffriggi la cipolla poi er pelato
A foco lento fino a che è stufato” 

Termina qui il nostro viaggio fra i bolliti ma non certo le ricette popolari che sono nate attorno a questo modo di cucinare le carni.

Sotto: bollito misto con sale, gran bollito piemontese, la confraternita, il cocido, il pot-au-feu, la gradazione di cottura delle carni bollite








venerdì 20 novembre 2020


Riso, risaie e risotti

        L’agricoltura bresciana ha una lunga storia, con grandi protagonisti, a partire dal nobile Agostino Gallo e dal suo contemporaneo Camillo Tarello. Quest’ultimo non è molto conosciuto da noi ma in Inghilterra è stato molto apprezzato per i suoi consigli sulla rotazione dei terreni per non impoverirli di sostanze importanti. I due poi si unirono a Giacomo Chizzola che, nella sua casa di Rezzato, nel 1540, aprì un’Accademia Agraria, forse la prima al mondo, dove chiamò ad insegnare il matematico Niccolò Fontana detto il Tartaglia. I loro scritti sono ancora disponibili per chi volesse saperne di più sopra un argomento fondamentale per l’uomo e il suo progresso. Qualcuno si chiederà com’è possibile parlare di riso in una terra senza risaie. Eppure, anche il territorio bresciano ha avuto le sue risaie almeno fino ai primi anni dell’800 se da una relazione sul Dipartimento del Mella (come Napoleone chiamava il nostro territorio) si dichiarano prodotte 5600 some bresciane di riso a fronte di un consumo di 6500, quindi una produzione scarsa e bisognosa di acquisto presso altri produttori. Nel 1619 inizia la coltivazione del gran turco poiché fino ad allora i bresciani consumavano: “farro, frumento, segale, orzo, avena, miglio, panìco, rape, navoni, legumi e poi il riso”. Questi dati sono disponibili in una pubblicazione in tre volumi sulla “Storia dell’agricoltura bresciana” edita nel 2008 dal nostro Assessorato Provinciale. Invece dalla storia di Barbariga apprendiamo della presenza di risaie sul quel territorio: 

“Impauriti dall’alta mortalità verificatasi nel 1761 in concomitanza con la diffusione della coltivazione del riso il 10 maggio 1762, al suono della campana maggiore della parrocchiale, armati di zappe e badili, i contadini di Barbariga marciarono verso il fondo della “Feroldina”, proprietà della famiglia Valossi, distruggendovi le arginature della risaia. L’Autorità veneta non solo non intervenne contro i rivoltosi, ma nel seguente anno 1763 proibì in Barbariga la coltivazione del riso. Cinque anni dopo, nel 1768, essendo ripresa la coltivazione del riso, i contadini distrussero ancora una volta le risaie e l’opposizione contadina finì solo con la rinuncia da parte dei proprietari a coltivare il riso”. 

Dunque, qui si interrompe il rapporto con la coltivazione diretta del riso. In realtà saranno proprio gli abitanti di Barbariga a elaborare una ricetta che ora fa parte della tradizione: la bariloca, un risotto con i chiodini e la gallina. 

La povertà e il bisogno obbligano dagli anni ’40 fino alla metà degli anni ’60 del secolo scorso, principalmente le donne della Bassa bresciana, a lasciare la loro famiglia per il lavoro stagionale nelle risaie, immense distese di campi allagati nelle zone del pavese, vercellese, novarese dove si coltiva il riso. Il lavoro è massacrante per cui si assiste ad un movimento di protesta capeggiato da donne al grido: “se otto ore, vi sembran poche, provate voi a lavorar, e proverete la differenza di lavorare e di comandar” e nascono canzoni popolari: 

"Saluteremo il signor padrone
per il male che ci ha fatto
che ci ha sempre maltrattato
fino all'ultimo moment"

Il riso (Oriza sativa) in Italia fu portato dagli arabi prima in Sicilia e dopo risale verso il Nord più ricco di acqua essenziale per la crescita di questo cereale. La prima risaia italiana fu inaugurata nel 1468, e il primo documento che ne comprova la coltivazione in Italia fu una lettera di Galeazzo Maria Sforza del 1475, con la quale prometteva l'invio di riso al duca di Ferrara. Con le prime coltivazioni lombarde il riso divenne un elemento dell'alimentazione locale. La coltivazione si diffuse rapidamente nelle zone paludose della Pianura Padana, generando un aumento dei casi di malaria. I provvedimenti per limitarne la coltivazione nei pressi dei centri abitati non fermarono l'espansione del riso, anche perché garantiva guadagni superiori a quelli di altri cereali. Un altro motivo della sua diffusione fu probabilmente il grande utilizzo che se ne fece nel XVI secolo, quando in tutto il Mediterraneo occidentale carestia e peste avevano ridotto le popolazioni alla fame. 

Quindi il rapporto gastronomico dei bresciani con il riso è conflittuale, un contadino abituato a polenta e zuppe non gradisce molto questo cereale, fino a quando la massaia, ancora le donne, riesce a combinarlo con le erbe selvatiche, le rane, le rigaglie di polli e i ritagli di maiale. Ma quale riso?

L’Italia è il più grande produttore di riso europeo, la scelta è caduta nella specie japonica e il nostro è il riso di maggior qualità, dovuto a selezioni colturali iniziate all’inizio del secolo scorso per ottenere il risultato gastronomico migliore. 

Le 120 specie di japonica dell'Oryza sativa coltivate in Italia si dividono in 5 tipologie: 

Riso comune, grani tondi e piccoli: Originario, Balilla indicati per minestre e dolci
Risi semifini, grani tondi di media lunghezza: Rosa Marchetti, Vialone Nano, Maratelli indicati per minestre, timballi, per i veronesi il Vialone è indicato per risotti
Risi fini, grani affusolati e lunghi: Sant’Andrea indicato per arancini, risotti, contorni
Risi superfini, grani grossi e lunghi: Carnaroli, Roma, Arborio, Baldo i migliori per i risotti all’italiana
Risi aromatici: Basmati, Jasmine indicati nelle cotture pilaf 

Alcune varietà di riso sono: 

Arborio, Baldo, Basmati, Carnaroli, Maratelli, Originario, Roma, Venere, Vialone Nano.
Specialità italiane locali: Riso Grumolo delle Abbadesse; Riso del Delta del Po, Riso Nano Vialone Veronese, Riso di Baraggia Biellese e Vercellese declinate in varietà tipiche come Carnaroli, Vialone Nano ecc. Da qualche anno è apparso l’Acquerello della Tenuta Colombara, si tratta di un riso tipo Carnaroli, ancora grezzo, invecchiato da uno a sette anni in silos a temperatura controllata, integrato con la sua gemma e confezionato sottovuoto, ideale per risotti e preparazioni speciali. 
Vi sono molti modi di cuocere il riso, alcuni semplici, altri più complessi: il più comune è la bollitura in acqua o brodo. Il Riso all’inglese è semplicemente bollito in acqua e condito con burro crudo, il Riso in cagnone dei milanesi e dei piemontesi (il cagnone è la larva degli insetti che noi chiamiamo cagnotto), si tratta di riso cotto in acqua e condito con burro fuso nel quale si sono rosolati della salvia e dell’aglio e poi spolverato di abbondante grana grattugiato. In brodo vegetale con qualche pezzo di patata si cuoce il nostro Riso al prezzemolo, una volta schiacciate le patate si butta il riso e si porta a cottura; nella Bassa si usa il Ris spork con i ritagli del maiale appena macellato. Nella tipologia “risotto” se ne preparano diversi tipi secondo la stagione: il Risotto alla pitocca con delle strisce di pollo (cotto separatamente) rosolato con cipolla e portato a cottura con il suo brodo. In primavera il Risotto con i verzulì o con i loèrtis, di antica tradizione il Risotto con le fave a cui qualcuno aggiunge del prosciutto. In città si usa il Riso alla carmelitana a base di verdure e lingua salmistrata, tutto a cubetti, terminarlo con un trito di prezzemolo e basilico, alle Due Stelle anni fa era in voga il Risotto Mille Miglia ideato da me: soffritto di cipolla, rocchetti di salamella asciugata, piselli, un cucchiaio di pomodoro e cottura con brodo di carne bollente, mantecatura con burro e grana padano. Nelle zone d’acqua si fa il Risotto con le rane nella Bassa e il Risotto con la tinca sui laghi. Per gli amanti di cibi orientali il metodo della cottura pilaf può piacere: il riso del tipo Basmati o Thai si fa insaporire con burro od olio e una cipolla a pezzi nella quale si sono infilati dei chiodi di garofano; si prepara un brodo a piacere, vegetale o di pollo bollente, si bagna con il doppio del volume del riso (per una tazza di riso due tazze di brodo), si copre il recipiente e si mette a cuocere in forno a 180°C per 18 minuti senza toccarlo. A fine cottura si elimina la cipolla, si sgrana il riso con una forchetta e un pezzetto di burro. È indicato come accompagnamento di vivande a piacere o se schiacciato in una scodellina e poi rovesciato si può usare come guarnizione. Buon appetito!

Nelle foto: le mondine al lavoro, il mare a quadretti: la risaia, tipologie di riso, riso in cagnone, riso alla pitocca, riso pilaf.








venerdì 13 novembre 2020



Quando un piatto fa storia? 

Queste riflessioni sono il frutto di anni di letture e di frequentazioni, a partire dagli anni ’80, del secolo scorso, di tanti cuochi e cuoche, ristoratori e osti, di assaggi e comparazioni ma oggi all’uscita di questo libro scritto da ben sette giornalisti e gastronomi del settore non posso che provare a delineare la strada che percorrono i piatti che apprezziamo. Il libro in questione è “Quando un piatto fa storia. L’arte culinaria in 240 piatti d’autore” edito da Phaidon-L’Ippocampo. I comuni mortali come noi, questi piatti, salvo poche eccezioni, ne hanno solo sentito parlare, se va bene, spesso neppure quello. Gli appassionati gastromaniaci forse li hanno sognati e desiderati, anche solo per fotografarli. Perché oggi la diffusione gastronomica di molti piatti avviene più virtualmente che culinariamente, come afferma il linguista Gianfranco Marrone nel suo libro “Gastromania”: 

“Oggi l'alimentazione ha oltrepassato la sfera, pur ampia, che le è stata propria per lungo tempo e ha invaso ogni altra dimensione della nostra esistenza, individuale e collettiva. Mangiamo, beviamo, gustiamo e degustiamo, assaggiamo, assaporiamo, sbafiamo, centelliniamo, apprezziamo, gozzovigliamo, ma anche e soprattutto ne parliamo, descriviamo tutto ciò, lo raccontiamo, commentiamo, giudichiamo, rappresentiamo, fotografiamo e filmiamo e condividiamo, immaginiamo, sogniamo, in un vortice dove l'esperienza del cibo e il discorso su di esso si fanno un'unica cosa: gastromania”. 

Quando i primi cuochi della Magna Grecia hanno iniziato a far conoscere la gastronomia non immaginavano che alcune loro preparazioni sarebbero durate nel tempo. Il concetto corrente dell’epoca era che un piatto scomparisse dopo averlo consumato, tutto finiva lì, se fosse andata bene si sarebbero ottenuti i complimenti dei commensali, non pensavano certo di entrare nella storia. Il famoso Apicio, gastronomo ai tempi dell’Impero Romano, ci ha fatto pervenire alcune sue ricette come il famosissimo garum o liquamen a base di interiora di pesce, una salsa dalla quale qualcuno fa derivare la nostra colatura di alici di Cetara. Si tratta di storia? Certamente, anche se noi quella salsa lì, con il palato di oggi, non l’avremmo gradita. Occorreranno secoli di intrugli e di prove, di cuochi e massaie, di suore e monaci prima di avere un corpus di preparazioni gradevoli e apprezzate. Certo la genialità di alcuni produrrà piatti che resteranno nella storia, pensiamo a Bartolomeo Scappi e la sua frittata o le frittelle piene di vento (il nostro gnocco fritto) o, ancora, i ravioli con la sfoglia o senza la sfoglia (cioè un raviolo chiuso o aperto). Se entriamo in qualche convento troveremo suore intente e far cannoli, frutti di marzapane e sfogliatelle. Monaci che curano il “giardino dei semplici” e ottengono rosoli, amari d’erbe e ricostituenti eccezionali. Nobili che inventano salse (maionese) o dolci (il babà) anche semplicemente un panino (sandwich). Poi milioni di massaie che per necessità o virtù elaborano minestre, brodetti, polpette, alternano verdure e formaggio e nasce la parmigiana, con il pecorino e il guanciale elaborano la gricia poi amatriciana, si divertono a modellare la pasta, facendo le orecchiette, i pici, gli gnocchetti, gli strozzapreti, i tonnarelli, i passatelli… Con il poco e niente che si ritrovano in dispensa si divertono a riempire paste come i pansotti, gli agnolotti, i tortelli, i casoncelli. Quando l’abbondanza arriva, con l’uccisione del maiale ad esempio, allora è un trionfo di sanguinacci, minestre e risi più o meno sporchi, trippe e frattaglie, ritagli saporiti e golosi. Si affacciano sul mondo dei fornelli anche tanti cuochi, lo abbiamo visto, ma chi detiene l’uso e la manipolazione delle vivande? Dacia Maraini scriveva nel lontano ottobre 1976: 

"I grandi cuochi sono stati quasi sempre uomini ma il loro compito era quello di trasformare il cibo in qualcosa che non avesse l’apparenza del cibo: una ardita costruzione architettonica, una complicata struttura ornamentale, una scultura elaborata, un quadro dai colori sfavillanti. Facendo così essi dimostravano che non era il momento della nutrizione che li interessava, ma quello più “nobile” dell’estetica e della filosofia. Il momento dell’astrazione e della contemplazione. Tocca invece alla donna sminuzzare, tagliare, friggere, grigliare, bollire e poi il manicaretto, servito agli amici con un sorriso stampato in faccia, perché il marito possa vantarsi della sua brava mogliettina”! 

Non si può negare che nei secoli alcune invenzioni siano entrate nell’uso comune come la frittata di Scappi, la chantilly di Vatel, i vol-au-vent di Carême, il gelato di Procopio de’ Coltelli, la pizza Margherita di Esposito Nas’e cane, i kipferl austriaci che poi diventeranno cornetti per noi (ciprèn per i parmigiani) e infine croissant per i francesi. La storia recente (2013) racconta di un pasticcere parigino, Dominique Ansel, trapiantato a New York che incrociando il croissant con il donut (la ciambella di Homer Simpson) crea il Cronut® marchio depositato, dolce non replicabile in casa richiedendo una lavorazione di tre giorni, quindi dall’inventore della pasta sfoglia moderna, La Varenne nel XVII secolo, la strada di questi dolcetti a forma di mezzaluna raggiungono la fama virale dei social, la meriteranno? All’assaggio l’ardua sentenza! Stiamo quindi assistendo a una personalizzazione dei piatti che oggi sono spesso riferiti agli chef-inventori mentre in passato i nuovi piatti erano dedicati a personaggi e nobili: Pesca Melba, Tournedos Rossini, Sogliola Colbert, Bistecca alla Bismark ecc. È molto famosa anche la Zuppa VGE di Bocuse dedicata al presidente francese Giscard D’Estaing nel 1975. 

Un cuoco provetto nel leggere la ricetta del Purè di Robuchon riscontrerà la ricetta classica di un cuoco con una buona mano di cucina, niente di più. Alcune “invenzioni” culinarie prendono una strada casalinga nella convinzione che anche in casa si possano riprodurre i piatti di grandi cuochi, non è sempre così: imitando Pina Bellini della Scaletta di Milano centinaia di novelli cuochi hanno cercato di riprodurre con effetti, a volte nefasti, il suo Risotto con le fragole e menta, o i Tortellini con la panna di Giorgio Fini di Modena, oppure le famose Penne alla vodka degli anni ’80 ricetta attribuita a Ugo Tognazzi, o ancora l’invenzione di Giuseppe Cipriani dell’Harry’s Bar di Venezia con il suo Carpaccio ridotto a una serie di fettine di carne cruda ricoperte di rucola e grana. 

Torniamo quindi alla storia: un piatto può entrare nella storia? Perché attribuire a un esecutore questa responsabilità. Per fare alcuni esempi, nel teatro o nella musica entrano nella storia gli autori o gli esecutori? Del teatro, da Aristofane a Garinei e Giovannini ricordiamo più le opere o gli attori, certo di Rinaldo in campo ci ricorderemo più l’interpretazione di Modugno che quella di Ranieri; del Rugantino indelebile resta l’interpretazione di mastro Titta di Aldo Fabrizi che quella di Maurizio Mattioli; memorabili le interpretazioni vocali, nella musica lirica, di Maria Callas o di Enrico Caruso, di Francesco Tamagno o di Renata Tebaldi. Nella storia, quindi, restano gli autori o gli interpreti? probabilmente ambedue ma qui si tratta di arte pura non di cucina. 

L’arte nella cucina entra solo se gli interpreti sono essi stessi dei veri artisti com’è il caso di Gualtiero Marchesi e il suo Riso, oro e zafferano o il Dripping di pesce, negli altri casi si mescolano tecnica e cucina come nel Cyber Egg di Davide Scabin, negli Spaghetti d’uovo marinato di Carlo Cracco, nei Rigatoni cacio e pepe in vescica di Riccardo Camanini che recupera una antica tecnica (vedi cappone in vescica dell’Artusi) e la modernizza. Provatevi a rifare in casa questi piatti, difficilmente ci riuscirete, restano in quella bolla composta da piatti memorabili, stupefacenti, strabilianti che solo alcuni privilegiati (leggi danarosi) o addetti ai lavori si sono potuti permettere. Calato l’oblio sugli autori, chi si ricorda della Faraona ai funghi ripiena di Mirella Cantarelli o degli Spaghetti ai frutti di mare alla lampada di Angelo Paracucchi o ancora il Riso mantecato di Nino Bergese? 
Il problema è che il cibo si consuma, un momento c’è, ci guarda, ci stimola, si lascia ammirare e poi, pochi minuti dopo, non c’è più ma si spera che, per un po', giorni, mesi, anni, ti ricordi di lui.

Di seguito: Cronut, Cyber Egg, Passatina di ceci e gamberi, Rigatoni cacio e pepe in vescica, Riso, oro e zafferano, Soupe aux truffes VGE








venerdì 6 novembre 2020

 

Un buon brodino

            È caduto un po' in disuso prendere una tazza di brodo come ricostituente, eppure, per secoli, è stato la panacea di molti mali. I primi ristoranti di Parigi offrivano principalmente brodo “restaurante” da qui il loro nome. In un mondo, specialmente quello parigino le élite, vivevano spesso d’indigestioni, da qui: “La vie n’est pas longue quand on ne vit que d’indigestions”. Nella cucina della nonna non mancava quasi mai, come non mancava il pane per addensarlo, una manciata di grana e il corroborante era pronto. Oggi lo si prepara solo se necessario: per fare un risotto o per allungare il ragù, per il resto si ricorre ai preparati derivati dall’estratto di carne inventato da Liebig a metà Ottocento o ai “dadi” inventati da Maggi, uno svizzero di origine italiana. Ma se analizziamo il contenuto di questi prodotti, anche i migliori, scopriamo che si tratta principalmente di sale, glutammato (altro sale) e poco altro. Il modo migliore è quindi, farlo da soli. Non è difficile e, spesso neppure costoso, salvo gli elaborati più complessi e concentrati.

             Partiamo dal brodo comune che i cuochi chiamano fondo bianco, composto da carne di manzo (biancostato, geretto anteriore, collo, pancia, un osso spugnoso) se lo volete misto unite anche mezza gallina o cappone oppure anatra. Non possono mancare le verdure come carote non sbucciate, sedano verde, cipolla bionda non sbucciata e steccata con due chiodi di garofano, mezza cipolla che farete arrostire nella parte piatta in una padellina caldissima, bianco del porro, gambi di prezzemolo (non le foglie), le verdure ovviamente, siano biologiche. Unite un po' di pepe in grani, un po' di sale grosso, poco, e bagnate con 4 litri di acqua fredda. Accendete il fuoco e quando si sarà formata la schiuma toglietela con la schiumarola, mettete la fiamma al minimo, coprite ma tenete le pareti della pentola sempre pulite, fate sobbollire per circa tre ore. Togliete le carni, gli ossi e le verdure, passate al colino, pulite il coperchio e fate riprendere il bollore per due minuti quindi lasciate raffreddare in modo che il grasso venga in superficie. Per accelerare il raffreddamento inserire la pentola del brodo in un lavello pieno di acqua fredda e qualche cubetto di ghiaccio, il brodo, per essere batteriologicamente sicuro deve raffreddare entro due ore. Quando il grasso sarà salito in superficie potete toglierlo tutto o in parte secondo il vostro gusto (se vi piacciono o meno i famosi occhi). Conservate il grasso in frigorifero dopo averlo ben spremuto, vi servirà come condimento per arrosti. Sempre all’insegna del non sprecare riutilizzate le carni bollite per farne delle ottime polpette e le verdure per un passato casalingo che arricchirete con qualche crostino.

Questo brodo vi indica anche il modo di procedere per gli altri che possono essere di vitello, di pollo, gallina o cappone, di selvaggina (in realtà solo il fagiano, il piccione e l’anatra danno un buon brodo) ecc. In alcune province preparano dei brodi cosiddetti “di terza” dove vi sono contemporaneamente manzo, vitello e gallina o cappone, sono i brodi per tortellini, agnolini, cappelletti, anolini, marubini ecc.

Vi sono poi altri due brodi di base: il brodo vegetale e il brodo o fumetto di pesce. Il primo modifica i suoi profumi prevalenti seguendo le stagioni: i piselli, gli asparagi, le erbe spontanee, i pomodori, i finocchi, i funghi, i cavoli e le verze. Le verdure di base (biologiche e di stagione, mi raccomando) sono la solita cipolla bionda non sbucciata perché la buccia dà colore al brodo, tagliata a metà e arrostita in padella nella parte piatta, sempre per dare colore, sedano verde senza le foglie che invece, come quelle del prezzemolo danno l’amaro, carote non sbucciate, la parte bianca del porro, gambi di prezzemolo legati in mazzetto, uno spicchio d’aglio, quindi secondo stagione: il baccello dei piselli (lavati), gambi e bucce di asparagi, qualche pomodoro maturo tagliato a metà, scarti di zucchine, ritagli di finocchi (senza esagerare per il loro aroma), ritagli di funghi, foglie e torsoli di cavolo o verza (non esagerate), se volete, una patata, ma attenzione che intorbidisce il brodo e infine una foglia di alloro e qualche grano di pepe. Non usate mai verdure amare come i carciofi o i cardi e le verdure che danno colore, gli spinaci, le barbabietole, i peperoni ecc. Non disdegnate, anzi prendetene l’abitudine, di unire gli avanzi della pulitura delle verdure che avrete conservato in frigorifero in altre occasioni. Mettete tutto in acqua fredda abbondante, portate a bollore e continuate dolcemente per un’ora, anche meno. Alla fine, passate al colino e trovate modo di recuperare le verdure cotte per altre preparazioni. Potete profumare il brodo con zenzero, scorze di agrumi ecc. Il brodo di pesce o fumetto necessita invece di teste, ritagli e lische di pesce che il pescivendolo vi darà volentieri con la vostra spesa, badate che siano di pesci magri come la sogliola, il rombo, il nasello e così via. Se lo volete di crostacei dovrete procurarvi dei carapaci di aragosta, astice, scampi e gamberi. La procedura è questa: tagliate a pezzi cipolla, carota, sedano, bianco del porro, aglio, una foglia di alloro, poco sale, pepe in grani e rosolate in olio d’oliva, unite teste e lische, spruzzate con vino bianco e, dopo che il vino è evaporato bagnate con due litri di acqua fredda. Lasciate bollire dolcemente schiumando con cura e dopo 20 minuti passate tutto per un colino.

             Adesso avete a disposizione i brodi necessari in una cucina, per conservarli senza doverli preparare ogni volta, filtrateli con cura interponendo al colino una garza, raffreddateli in fretta, togliete il grasso in superficie e versateli in contenitori infrangibili e ben chiusi, in frigorifero si conservano da due (il fumetto) a sette giorni, invece nel freezer possono stare tranquillamente qualche mese. Studiate bene le dosi che vi possono servire e preparatene anche di minuscole con la vaschetta del ghiaccio, una volta congelato riunite i cubetti in una scatola con l’indicazione del contenuto e la data di preparazione, questo vale anche per le bottiglie.

         Vi è poi un brodo, che brodo non è, nonostante il nome: court-bouillon, il quale non è che il liquido aromatico dove cuocere il pesce, può essere composto da sola acqua di mare, timo e alloro per cuocere un cefalo (se non avete l’acqua di mare, sostituite con 15 g di sale per litro di acqua); latte e 50% di acqua, con cipolla, timo, sale e pepe vi servono per cuocere i pesci affumicati che vi vanno appena sommersi; il classico può essere al vino o all’aceto (o limone), il primo è composto da 2 litri di acqua (per un kg di pesce di acqua dolce o di mare ma delicato o crostacei) e 2 dl di vino bianco, 40 g di sale grosso, grani di pepe e aromi vegetali come cipolla, sedano, carota, e un mazzetto di gambi di prezzemolo, timo e alloro; il secondo, 1,5 dl di aceto bianco o il succo di due limoni con due litri di acqua, sale e una cipolla steccata con chiodo di garofano. Questi “brodi corti” devono cedere il loro aroma al pesce, a differenza dei brodi che devono ricevere il loro aroma dagli ingredienti, sicché la procedura è semplice, una volta fatto bollire il liquido si immergono i pesci o i crostacei e, ripreso il bollore, si spegne il fuoco fino a quando sarà intiepidito, solo allora, con delicatezza si procederà al servizio.

             I brodi hanno avuto una evoluzione gastronomica per poter accedere alle tavole delle corti, il più famoso e nobile è il “consommé” che, nonostante il nome, non è un brodo semplicemente ristretto ma arricchito di ulteriori sostanze. Una volta ottenuto il brodo comune dovrete renderlo perfettamente limpido, cioè chiarificarlo; per farlo dovete sbattere un albume d’uovo ogni litro di brodo freddo, mescolate e portate lentamente a ebollizione, lascate sobbollire per 40 minuti, quindi filtrate da un colino ricoperto da una mussola fitta e bagnata. Per un consommé classico scegliete la base carnea (solo la polpa) che volete enfatizzare (pollo, vitello, manzo, pesce magro) ne bastano 200 g ben tritati, unite un trito di cipolla, carota, porro, aglio e prezzemolo; sbattete 2 albumi fino a quando schiumano, unite un cucchiaino di concentrato di pomodoro (darà un bel colore dorato al consommé) inserite il trito in una pentola, unite l’albume e bagnate con due litri di brodo ben sgrassato (se volete potete unire anche del vino come il Porto o il Marsala o Sherry se di pesce). Portate lentamente a ebollizione mescolando in modo che l’albume si attacchi sul fondo. Raggiunta l’ebollizione lasciate sobbollire per un’ora si formerà in superficie una crosta bianca e dura che potrete perforare per controllarne la limpidezza. Filtrate attraverso un colino e una garza bagnata. Si serve in una tazza con due manici da sorbirsi lentamente e con grazia.

             Infine, il brodo è anche la base delle gelatine, un brodo solido che può diventare un aspic di grande classe. Invece delle carni in questo caso vanno usate parti ricche di collagene come nervetti, piedini spaccati, ginocchi, se di pesce teste di rana pescatrice e cernia. Fatto il brodo prescelto si sgrassa e si chiarifica, raffreddandosi si solidificherà. La gelatina si può ottenere anche da brodi comuni unendo da 14 a 36 grammi di colla di pesce, bagnata in acqua fredda e strizzata, unita al brodo prescelto scaldato a 40°C e poi scolato e raffreddato. In alternativa alla colla di pesce si possono usare l’agar agar in proporzione da 5 a 20 g litro, o gelatine immediate anche calde utilizzando la gomma xantana, ne bastano da 3 a 10 g litro. La gelatina si usa tiepida per rivestire delle tartine o lo stampo prescelto, si dispongono gli elementi, carne pesce, frutta, verdura ecc. (per le tartine si userà una tasca di tela e si ricopriranno una o due volte) si raffredda, si riprende e si riempie lo stampo, dopo tre ore di frigorifero l’aspic o la terrina saranno pronti, per staccarlo si rovescia e si copre con un telo bagnato e bollente. Vi lascio con una massima francese: Colui che a trent’anni non sa governare il proprio stomaco, non ha imparato nulla di buono a questo mondo.

Sotto: brodo in tazza, consommé, dadi e tavolette, Justus von Liebig, le famose figurine, aspic di pesce e verdure