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domenica 28 marzo 2021

 

Bartolomeo Scappi e Christoforo da Messisbugo protagonisti della cucina del Rinascimento

        Christoforo da Messisbugo è il grande maestro di casa del cardinale Ippolito II d’Este padrone di Ferrara. Non si conosce l’anno di nascita né la sua provenienza, forse delle Fiandre, morirà nel 1548. Nel 1549 viene pubblicato “Banchetti composizioni di vivande” un’opera fondamentale per conoscere l’organizzazione della mensa dei nobili del tempo, dopo qualche anno uscirà una seconda edizione con un altro titolo (Libro novo). Il maestro elenca tutte le masserizie occorrenti per un banchetto in reggia o fuori in trasferta, straordinari i menu, alcuni superano le 100 portate intramezzate da canti, suoni e balli, per finire in bellezza:

“Dopo cena Sua Signoria Reverendissima fece portare una Navicella d’Argento carrica di Collanine. Manigli [monili], Abigliamenti d’orecchie [orecchini], Annelletti, Guanti profumati, Bussoli di compositioni [scatole di dolci], & altre gentilezze le quali cose appresento a i Commensali, & a cui una cosa, e a cui un’altra… e sonarono le cinque hore di notte”.

il maestro elenca 56 specie di pesce fresco e 20 pesci salati, più una ventina di crostacei e molluschi e ci stupirà per una cena a base di pesce dove arrivano in tavola ben 145 diverse portate di pesce. Nel libro insegna ad accarpionare trote, carpioni, cefali, orate, rombi. A far persutti, salcizzoni e investiture (culatelli e coppe), Cappone in gelatina, a far tomaselle e cervellate cioè delle preparazioni di salumeria con budelli animali, tenendo conto che in queta epoca i salumi sono principalmente di pesce. W poi fiadoni e fiadoncelli, una torta lombarda di erbette. Le melanzane le chiama “mollegnane ovvero pome disdegnose”. Tra i dolci i Sosameli napoletani, i mostazzoli romani e le brazzadelle l’antico pandoro veronese. Da ricordare a chi non ne fosse a conoscenza che Christoforo da Messisbugo (talvolta scritto Messi Sbugo) pubblica la prima ricetta sulla preparazione del caviale, che distingue in fresco e da conservare. La ricetta del maestro sarà conservata e tramandata nei secoli a Ferrara e ancora oggi c’è qualcuno che la propone. D’altronde Ferrara si trova allo sbocco del fiume Po dove si pescano gli storioni.

        Bartolomeo Scappi è sicuramente il cuoco più famoso del Rinascimento, la sua carriera si è svolta tra le corti cardinalizie e papaline tra Venezia e Roma. Non si conosce la sua data di nascita, si presume nei primi anni del Cinquecento, a Dumenza vicino a Luino. Per secoli è stato definito bolognese o veneziano poi si è trovata la prova della sua nascita a Dumenza. L’apprendistato del cuoco ebbe certamente inizio a Milano, come dimostra la conoscenza di prodotti e della cucina milanesi e persino qualche passaggio dialettale nel suo trattato. Entrò nell’empireo principesco della Chiesa verso il 1530 servendo a Venezia il cardinale Marin Grimani, anche arcivescovo di Udine; con lui si spostò a Roma e, pur insediandosi nell’urbe, probabilmente lo seguì in qualcuna delle sue missioni politiche, a Bologna, Perugia, Piacenza e in Francia; a Roma pare che si prestasse a richiesta secondo le esigenze dei nobili e degli ecclesiastici, ad esempio per il cardinal Campeggi, organizzò il pranzo offerto a Carlo V nel 1536. Fu cuoco “segreto” cioè privato, personale, “nostris intimis Coquis” di alcuni papi e preparò personalmente alcuni banchetti in conclusione di alcuni “Conclavi” per l’elezione del nuovo papa. A Scappi bisogna riconoscere il merito di essere un grande cuoco del suo tempo, il più attivo anche nella Confraternita dei cuochi e dei pasticceri di Roma. Le sue conoscenze dei prodotti e delle materie prime sono notevoli, a proposito di pesci e pescatori disquisendo della bontà del pesce afferma: "credo che a loro [ai pescatori] riesca meglio che alli cuochi, percioché il cuoceno in quello instante, che l'hanno preso". Il pesce dei pescatori è migliore di quello dei "cuochi", perché cucinato più fresco. Ma anche la valorizzazione di alcune parti cosiddette meno nobili perché nei suoi menu notiamo una significativa presenza di teste di storione, lo schienale e la moronella, il latte, il fegato e, naturalmente le uova. Oggi, escluse le uova, raramente le troviamo queste parti nelle proposte dai nostri cuochi più o meno creativi. Il pesce è protagonista nei suoi banchetti in maniera determinante ma si presenta il problema della conservazione e il suo trattato: “Opera di M. Bartolomeo Scappi, cuoco secreto di papa Pio V, divisa in sei libri”, uscito nel 1570, abbonda di riferimenti al pesce salato, disseccato, affumicato, in salamoia, da ricordare che il termine “salume” è riferito al sale e il prodotto era spesso il pesce conservato in quel modo. Assieme alle teste di storione era molto usata la moronella, la pancia dello storione grosso di carne rossiccia e messa sotto sale o lo schienale che è composto da strisce di polpa tolte dal dorso dello storione, salate, seccate e vendute in fasce. Lo Scappi elenca nel suo trattato enciclopedico più di 200 ricette di pesce e allo storione dedica un capitoletto dal titolo “Della statura e della stagione dello storione” dove per statura intende l’importanza che questo pesce ha sulla mensa del principe. Ne descrive le qualità, le parte migliori e come cucinarle, le caratteristiche fisiche, la stagione migliore, da marzo ad agosto, e i luoghi dove il prodotto è eccellente, la Stellata presso Ferrara nel fiume Po perché: “tal pesce di natura va contra l’acqua, & quando è preso nelli gran fiumi è assai meglio che quello preso in mare”. Nel ricettario troviamo 24 ricette di storione all’inizio del “Libro Terzo” detto Quaresimale e poi, sparse nei vari capitoli e menu altre 23 citazioni del nostro pesce. Interessante notare la varietà delle proposte, lesso e stufato (stufare o brasare, Scappi lo dice sottestare un termine napoletano), in minestra e in pottaggio (da potage), in graticola e allo spiedo, fritto, dalla carne di storione il nostro cuoco ne ottiene polpette, cervellate, salsicce, interessante una ricetta dove il cuoco da all’impasto la forma di pera e poi lo cuoce, una sorta di arancino, vi sono anche indicazioni sul modo si usare budelli, il latte e il fegato. Anche Scappi chiama porcelletta gli storioni più piccoli e ne consiglia il modo di cuocerli al meglio il tutto, spesso cosparso di salse, spezie, zucchero o fiori. Grande è la sua conoscenza dei pesci e non confonde il carpione con la carpa come fanno certi suoi colleghi, anzi lo colloca esattamente nel lago di Garda, come a Brescia attribuisce la qualità di certi gamberi d’acqua dolce. Una cucina la sua di grande ingegno da Maestro Martino prende e ripropone, migliorandole, le “frittelle a vento” progenitrici dello gnocco fritto emiliano. Eppoi la pizza, anche le pizze poiché ne propone una decina di versioni una con polpa di piccione detta dai napoletani “pizza di bocca di dama” certo qualcuna è dolce a base di datteri, pinoli e zucchero (d’altronde vi ricordate la pizza napoletana di Artusi?), altre sono a forma di tortiglione arrotolato come una ciambella, altre ancora a strati come la sfoglia, vi sono anche la pizza fritta e quella piatta al forno. L’autore rivela anche la sua predilezione per le marinate e per i cibi stufati o cotti a bagnomaria nonché per le paste, di cui offre oltre duecento differenti versioni ivi compreso uno dei più antichi esemplari di pasta sfoglia. Inoltre, primo fra i cuochi europei, si addentra fra i meandri dell’arte araba della pasticceria. Molto importanti le tavole poste alla fine del libro che mostrano l’interno e l’esterno delle cucina del tempo e gli strumenti da lavoro dei cuochi delle case nobili, strumenti che sono stati in uso per secoli, tant’è vero che nella reggia di Caserta furono trovate le suppellettili di cucina di Maria Luigia di Parma molto simili a quelle disegnate da Scappi. Il 13 aprile 1577 muore a Roma. Il giorno dopo viene sepolto nella chiesa dei cuochi, dei SS. Vincenzo e Anastasio alla Regola, sede della Compagnia dei Cuochi e Pasticcieri della quale faceva parte.

Nelle immagini: un banchetto a Ferrara, Messisbugo. Banchetti. Scappi, Opera, cuochi al lavoro.










mercoledì 17 marzo 2021

 

Stopa cül, cül dè sicória, cül dè bicér e dè butiglia


        Oriana Belotti cuoca sopraffina in quel di Esine, in Valcamonica, ha confezionato una conserva vegetale locale, alla domanda cosa sono? risponde: fondi di cicoria.

La reazione è immediata: io li conoscevo come cüi de secórgia!

Da qui inizia un piccolo dibattito sulla correttezza di alcune parole da usarsi nel linguaggio quotidiano e popolare. Scrive una signora in un post:

- Non sapevo che i nomi dialettali fossero indelicati. Ho sempre pensato che le coloriture del dialetto nel dare i nomi alle cose, ovviamente per chi non si vergogna delle proprie origini e della propria lingua madre, fossero sfumature di vita, persino arricchenti. Quello è il nome che usavano i vecchi, anche dottorati e raffinati, per significare il prodotto. Non c’era sottesa alcuna volgarità in questo. Quella è arrivata dopo con i paesà isticc de la festa.

- Un altro post segnala che una gastronomia locale ha in vendita una salsa detta “brusacül” la signora pensa che sia una licenza poetica, una ricostruzione storica…

Un piccolo dibattito sulle “brutte parole” e sulla ipocrisia che spesso ci sta dietro. Il contrario di giovane è vecchio non anziano o diversamente giovane, vecchio, punto. Ingentilire l’aggettivo non cambia la sostanza, il nullatenente rimane povero e l’indisposto ammalato. E allora guardiamoci attorno e facciamo qualche esempio:

Il re dei salumi parmigiani è il Culatello. Certo questo salume ha un nome imbarazzante, specie se vuole apparire sulla mensa ecclesiastica. Il nome gli deriva da culatta, la parte del maiale dal quale è ricavato ma ecco che scatta l’ipocrisia delle brutte parole, del parlar forbito:

“A Zibello e a Monticelli d’Ongina fannosi ottimi torroni: in molti luoghi, anzi quasi dappertutto si fanno buoni salati... a Zibello si fabbricano egregiamente piano-forti”.

Questa descrizione è di Lorenzo Molossi nel Vocabolario Topografico dei ducati di Parma, Piacenza e Guastalla del 1834. Vi era una certa pudicizia a nominare il culatello; con Folco Portinari, impareggiabile manovratore di lettere e storicista gastronomico, vogliamo ricordare come il termine sia ipocritamente oscurato o con mediocrità sostituito con altri termini, da insane menti perennemente a dieta stretta, almeno nel linguaggio:

“Etimologia classica, benché i glottologi la dicano di basso latino, culus, d’origine indoeuropea, comunque. E se l’usa Catullo perché mai Tommaseo (che scrisse sul suo famoso dizionario: Culo è voce bassa che non dovrebbe mai comparir negli scritti né risonar sul labbro delle persone) vorrebbe impedirmelo?...
È la stessa ragione per la quale sul maggior dizionario della lingua italiana al lemma “callipigio” si legge: “dalle belle natiche”. Venere callipigia, dalle belle natiche? No, sant’Iddio, no: dal bel culo.
Né potrò dimenticare, sul versante opposto, il divertimento e il riso che ci procurò il verso dantesco, celebratissimo per diretto realismo e per efficacia, “ed avea del cul fatto trombetta”. Era la prima volta che si sorrideva leggendo la Commedia. Ma a questo punto non posso nemmeno mandare all’aria tutta l’espressività che lo circonda, certo non a caso ma per intrinseco valore espressivo.
E con segno positivo quando lì, si localizza la sede medesima della fortuna, nell’oggetto sì ma nella sua pronuncia: aver culo, che culo che c’ha ecc... Né avrebbe alcun senso eufemizzare in: che natiche, o: che deretano. Espressioni prive di fortuna.
Non basta, essa è voce ricchissima di derivazioni, metaforiche e non, dalla “culatta” del cannone al “culo” dei bicchieri, fino al “culatello”. Passando per la mosca “culata” e per gli ornitologici passeracei “culbianco” e “culorosso”, entrando in un “cul di sacco”, indossando le “culotte”.
E il Cellini che riporta la battuta di Nicolò Benintendi: “Io ho in culo loro e il Duca...?
D’altronde si provi qualcuno a sostituire “sculettare” con qualsivoglia altra parola; o a rendere con maggiore concretezza la condizione d’esser “culo e camicia”. O di avere “la faccia come il culo”.
Con ciò non vorrei sostenere la tesi (che sarebbe ragionevolmente sostenibile dal me letterato, tesi poetica) secondo la quale la fascinosa “malìa del culatèl” risieda tutta nella sua grassa e morbida pronuncia che rammemora quell’altra, sferica e vietata pronuncia, genitrice e radice, del culo”.

        Badate bene, la sostituzione di parole con altre meno “efficaci” si chiama interdizione linguistica impolverata di religiosità e falso pudore, lo spiega bene Nora Galli de’ Paratesi nel suo libro del 1969 “Le brutte parole, semantica dell’eufemismo” e gli fa eco Gomez: “In questo modo, e come risultato di questa connessione di opposizioni, sorge la necessità di produrre, linguisticamente, tutta una serie di parole nuove con cui sostituire i termini proscritti, dissimulando, di conseguenza, le varie situazioni in divieto”. Secondo i linguisti le parole-tabù si distinguono in quattro categorie di forza crescente, oggi queste parole-tabù sono state “sdoganate” sia nel linguaggio comune sia nei mass-media popolari come la TV. Si assiste a un profluvio di parole e atti che fino a ieri non erano neppure immaginati. Vito Tartamella ci fornisce questa spiegazione: “Le parolacce sono frammenti d'una lingua magica, con cui possiamo esprimere profonde verità e libertà, unendo il sacro e il profano. Basti pensare che quando mandiamo qualcuno affanculo facciamo un incantesimo, perché attribuiamo alla parola il potere magico di far avverare un desiderio”.

Occorre quindi distinguere tra azioni come: sfogarsi, il turpiloquio fine a sé stesso, emozioni espresse o indotte. I popoli si sono inventati modi di arginare o mitigare il turpiloquio: ostrega, osteria, madosca, maremma, cavolo, cacchio ecc. oppure, come si usava dire ieri: parlando con rispetto e oggi invece: scusate il francese.

Usare il linguaggio in modo consapevole, non pedante ma neppure artificioso, scopiazzato, lo possiamo affermare noi che ci siamo formati sui testi di Rabelais e Giulio Cesare Croce, raffinati scrittori che non disdegnavano di usare eufemismi o termini espliciti, se lo ritenevano necessario, ecco qualche esempio:

Giulio Cesare Croce in Bertoldo, Bertoldino col Cacasenno (dal tedesco klugscheiβer)

“Tutta la Villa ogn'or di me favella,
Che di bellezza porto in fronte il fiore.
Mi disse l'altro giorno un giovinetto:
Perché non ho tal pulce nel mio letto?”

«Chi piscia sotto la neve forza è che si discopra.»
«Pissa chiaro, indorme al medico.»
«Chi manda la lingua avanti del pensier non ha del saggio.»

Un esempio cinematografico particolare è invece quello dello scambio dialogico tra il maggiore Kruger ed il colonnello Di Maggio (Totò): “Badate colonnello, io ho carta bianca”, afferma solenne il tedesco. “E ci si pulisca il culo!” è la pronta replica dell’italiano nel film I due colonnelli del 1963.

Un proverbio genovese ricorda: dopp’i Santi sü per zü e galeine i strenzu u cü

La Scuola Medica Salernitana XIII secolo: Del finocchio le sementi caccian fuor per l’ano i venti.

Un proverbio bresciano: Mangià come ‘n bò, beèr come n’àsen e pisà come ‘n cà, sé manté l’òm sà!

Usiamo la lingua in modo intelligente perché la cultura è la mentalità di un popolo in una determinata epoca e la lingua è uno strumento liberatorio: semplici intercalari, corpi contundenti, coesivi sociali, marcatori di alterità e molto altro ancora sono le parolacce, come del resto funzionalmente e socialmente variegati sono gli usi dei linguaggi, verbali e no… Addirittura, certe parolacce, usate in certi contesti, diventano indiscutibili complimenti, nel gruppo dei pari: fijo de 'na mignotta tra amici maschi romani vale senz’altro "uomo in gamba e degno di stima, che non si lascia abbindolare da nessuno".

Nelle immagini: Scuola Medica Salernitana, detti e proverbi.







sabato 13 marzo 2021

 



Marie-Antoine Carême detto Antonin: il re dei cuochi, il cuoco dei re

        Nato nel 1784, in piena rivoluzione, da famiglia numerosa e poverissima, Antonin deve arrangiarsi, imparare un mestiere, imparare, soprattutto, a leggere e scrivere se vuole sopravvivere, a dieci anni il padre gli offre l’ultimo pasto in taverna e rassegnato spiega:

“La povertà è il nostro destino, con lei siamo nati e in lei dobbiamo morire. Ma questi sono tempi di fortuna per quelli che hanno talento e intelligenza, e tu ne possiedi. Vai, figlio, con i doni che hai ricevuto. Una buona casa si aprirà per te”.

e poi lo affida al suo destino. Il piccolo Marie-Antoine con quel nome è in pericolo la regina Antonietta è stata ghigliottinata per cui da lì in avanti si farà chiamare Antonin che è anche più maschile. Una sera girando scalzo e affamato per la città viene avvicinato da un taverniere che, in cambio di vitto e alloggio lo mette agli spiedi e qui, fra i fumi e le braci ardenti affronta i primi rudimentali approcci alla professione di cuoco. Il locale si chiama “Fricassée de Lapin”. Non avrebbe più rivisto la sua famiglia ma rimarrà sempre grato e affezionato a questo oste che per qualche anno lo terrà accanto a sé.

Parigi è in fermento la nuova classe borghese scalpita per prendere il posto della nobiltà, le teste cadono. I ristoranti muovono i primi passi, il primo chiamato Champ d’Osisenau si apri in rue de Poulies nel 1765, il più famoso, vicino al Louvre, è Le Boulanger, le pasticcerie fanno a gara per mostrare i lavori più belli. D’altronde tutto il personale, cuochi, pasticceri, camerieri, dame di compagnia, giardinieri e lacchè sono rimasti disoccupati e chi ne ha la possibilità apre il proprio locale e mostra ai nuovi padroni le prelibatezze che erano riservate alla nobiltà.

“In altri tempi essere cuoco era soltanto un mestiere: concentrati in un piccolo numero di case opulente della corte, delle finanze, della moda, i cuochi esercitavano occulti i loro talenti. La rivoluzione, privando della proprietà gli antichi padroni, lasciò i bravi cuochi in mezzo ad una strada, e per continuare a praticare le loro arti divennero commercianti del buon cibo e presero il nome di ristoratori”.

Ma più che la cucina è apprezzata la pasticceria, considerata la prima arte. Dopo l'apprendistato dallo sconosciuto oste, il giovane Carême trovò impiego in una pasticceria nel quartiere delle Halles, dove allora si trovava il più grande mercato di Parigi. Qui per capire si mette a seguire il percorso dei gastronomi parigini famosi per le loro cene sontuose come il marchese di Cussy gastronomo e cuoco di Napoleone; il magistrato Brillat-Savarin e il pittoresco Grimod de La Reynière che nel loro giro tra i banchi del mercato non disdegnano assaggi, commenti e lezioni di gastronomia. Questo termine è stato appena lanciato da Joseph Berchoux con il suo poema “La Gastronomie, ou l'homme des champs à table”. A Parigi vi sono molti ristoranti famosi come Le Grand Véfour e Le Beauvilliers, Antonin considera Antoine Beauvilliers e Laguipiere suoi maestri. Dopo qualche anno, riesce a entrare da Sylvain Bailly, il più famoso pasticcere di Parigi in rue Vivienne. Saranno anni di severa disciplina. Finito il lavoro ordinario, una giornata di almeno 12 ore, passava parte della notte a studiare le opere dei grandi architetti italiani. "Fu questo maestro a darmi la possibilità di visitare il Cabinet des Estampes al Louvre. Dimostrato che ebbi una speciale vocazione per il mestiere, mi affidò la preparazione di pezzi di gala". Dopo aver osservato le vetrine delle pasticcerie di Parigi ricopia dalle antiche stampe i più celebri monumenti del mondo che ricrea con pasta frolla, cioccolata e glassa. Nel 1803 riesce ad aprire la sua pasticceria dove espone le sue novità e le sue decorazioni con la meringa e il sac à poche, la chiuderà alla caduta di Napoleone. Scrive:

“Quando per poter dimenticare gli invidiosi, vado a spasso per le vie di Parigi, constato con gioia la crescita e il miglioramento dei negozi di pasticcere. Nulla di tutto ciò esisteva prima dei miei lavori e dei miei libri. Come avevo predetto i pasticceri sono diventati molto abili e molto accurati”.

Scoperto da Talleyrand, ne diventa lo chef e viene "prestato" a Napoleone per i banchetti ufficiali. Napoleone non è un buongustaio, anzi la cucina per lui è negata, a differenza della sua seconda moglie Marie Louise ma, attraverso il suo consigliere Talleyrand comprende come a tavola si possano fare accordi impensabili altrove. Charles-Maurice de Talleyrand-Périgord, I principe di Benevento vescovo cattolico, politico e diplomatico francese è considerato tra i maggiori esponenti del suo tempo. Servì prima la monarchia di Luigi XVI, poi la Rivoluzione francese nelle sue varie fasi, dalla Rivoluzione al Terrore, l'impero di Napoleone Bonaparte e poi di nuovo la monarchia, questa volta quella di Luigi XVIII, fratello e successore del primo monarca servito. Al Congresso di Vienna, 1815, è considerato, con Metternich, il vero protagonista. Usa spesso la cucina e i banchetti per i suoi fini diplomatici e Carême sarà il fantastico ideatore di questi banchetti. Quando Talleyrand gli chiede di allestire un banchetto Carême gli propone di inserire dei potage, alle obiezioni del Primo Ministro lo chef risponde: “ricordate Eccellenza illustrissima, che cosa diceva il grande Grimod de La Reynière? Il potage è, per un pasto, ciò che il portico e il peristilio sono per un edificio, e questo significa che va servito prima di tutti gli altri piatti e così noi faremo”.

Uomo di grande ingegno e chef di forte inventiva ha ridisegnato una cucina e un servizio di tavola che ancora oggi usiamo. Ha segnato la modernizzazione e l’abbandono di una visione cucinaria ormai superata, la sua è l’alta cucina, quella che i francesi chiamano haute cuisine e noi fino a Escoffier l’abbiamo ritenuta la grande cucina internazionale. Antonin Carême ha assorbito la cucina dei classici francesi: Taillevent, La Varenne, Vatel, Bonnefons, De Lune, ma non trascura neppure i suoi contemporanei come Robert e Laguipiere. Impara da tutti, ammette che la cucina francese deve molto a Caterina de’ Medici ma a lui spetta il compito di renderla ancora più grande. Studia la chimica e l’applica alla cucina, sfida Laguipiere in un pot-au-feu da urlo; alleggerisce le salse eliminando il grasso superfluo, migliora i vol-au-vent che conosciamo oggi, usa al posto della farina la fecola, per alleggerire torte e biscotti. Il contratto con Talleyrand comporta di saper preparare 365 menu, uno per ogni giorno dell’anno, senza mai ripetere una pietanza e usando esclusivamente ingredienti di stagione, erbe aromatiche fresche, verdure, salse leggere.

Adotta il servizio alla russa e su questa strada lo seguiranno i suoi discepoli: Urbain Dubois, Emile Bérnard, Jules Gouffé. Dal punto di vista gastronomico i vantaggi del servizio alla russa sono evidenti: i piatti arrivano in tavola appena cucinati, al giusto punto di cottura, temperatura e fragranza. La struttura del pranzo, inoltre, è più chiara e razionale. Lo sfarzo e lo spreco sono contenuti o comunque dissimulati: si può continuare a mangiar bene e molto senza ostentazione e stravaganze. Napoleone istituisce il Consiglio della salubrità, finanzia la ricerca, obbliga medici e personale a lavarsi le mani, a disinfettare gli ambienti, Carême applica le norme igieniche anche alla cucina, pretende grembiuli bianchi, adotta la toque blanche di un aiutante e la modifica alzandola con l’aiuto di un cartone in modo che circoli più aria, sembra un fungo. L'esatta origine della millefoglie è sconosciuta. Se ne rinvengono le prime tracce nel libro “Cuisinier françois” di François Pierre de La Varenne del 1651. La ricetta è perfezionata da Carême che la descriveva come di "antiche origini". Imposta un nuovo modo di fare cucina, di imbandire la tavola, organizzare le portate, decorare i piatti mentre lui continua a presentare pièces montée da strabiliare gli ospiti. Tra i suoi ammiratori il musicista italiano Gioacchino Rossini con il quale legge e discute la Physiologie du goût, ou méditations de gastronomie transcendante, di Brillat-Savarin. Propone il concetto delle quattro salse di base che formano la salsa finale della maggior parte dei piatti francesi (veloute, l’espagnole, bechamel e hollandaise), alle quali poi Escoffier aggiungerà la sauce tomate.

Alla caduta dell'imperatore il grande chef è ormai famoso in tutte le corti europee così si trasferisce a Londra, dove lavora per il Reggente (futuro Giorgio IV). Da Londra si sposta a San Pietroburgo alla corte dello zar, nel tempo libero visita la città e disegna una serie di schizzi per abbellire la città che trova stupenda. Disegni che poi manderà allo zar Alessandro I ma che andranno persi nel naufragio della nave chiusi in una cartellina. Tornato in patria diventa lo chef preferito dei Rothschild e dell'alta società parigina. Lo scrittore Honoré de Balzac alla sua morte, nel 1833, dirà: "morì bruciato dalla fiamma del suo genio e dal carbone dei girarrosti"

Questi i suoi libri: in italiano l’unico testo tradotto è “L’art de la Cuisine Française au XIX° siècle”.

Le pâtissier pittoresque composé et dessiné par Antonin Carême de Paris, 1815
Le pâtissier royal parisien ou Traité élémentaire et pratique de la pâtisserie ancienne… 1815 - 2 tome
Le maître-d'hôtel français, ou Parallèle de la cuisine ancienne et moderne, 1822 - 2 tome
Le cuisinier parisien, 1828
L'art de la Cuisine Française au XIX° siècle, 1833-35 - 5 tome - gli ultimi due volumi li compilerà Plumerey

Mercoledì 8 giugno 2005 presso il Politecnico di Milano Bovisa viene messo in scena per la prima volta l’atto unico: L’ultima lezione di cucina. La morte di Antonin Carême.

Nelle illustrazioni: Carême e alcune sue pièces montée, il cappello da cuoco e lo studio.