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giovedì 22 ottobre 2020

Pellegrino Artusi 200 anni 

        Era il 4 agosto del 1820 quando a Forlimpopoli nasceva Pellegrino Artusi. Nato da una famiglia di commercianti, una famiglia numerosa composta da 13 figli. La loro casa era situata nella piazza di Forlimpopoli di fronte alla Rocca albornoziana. I suoi studi furono limitati perché il padre non credeva necessari molti studi per fare il negoziante e di questo Pellegrino si lamentò in futuro, quando emerse la sua voglia di conoscenza e di cultura. Abitò nella città natale fino al 1851 quando la famiglia decise di trasferirsi a Firenze dopo l’incursione e il dramma subito dalla famiglia a causa dell’incursione a Forlimpopoli di Stefano Pelloni detto il “passatore”. Il bandito la sera del 25 gennaio del 1851 irruppe nel teatro cittadino e rapinò i presenti, violentò le donne e, con un sotterfugio entrarono nella abitazione degli Artusi e li rapinarono ferirono una sorella di Pellegrino e un’altra, Gertrude fu violentata e in seguito impazzì tanto da morire nel manicomio di Pesaro. Questo personaggio, il passatore, entrò nella memoria collettiva come un eroe, romagnoli come Arnaldo Fusinato e Giovanni Pascoli, quest’ultimo lo chiamò: “passator cortese”, cantanti (Quartetto Cetra, Max Arduini, Massimo Bubola e Raoul Casadei) per giungere all’Ente Tutela Vini Romagnoli che ne fa il logo ufficiale dei vini locali, mai visto niente di più aberrante! Pelloni verrà ucciso nel marzo 1851 dalle guardie pontificie. 

        Con il trasferimento, in realtà prima a Livorno poi a Firenze la famiglia Artusi si arricchisce con il commercio dei bachi da seta e un banco di cambio tanto da accumulare una fortuna. Pellegrino poco prima del 1870 decide di ritirarsi a vita privata e di dedicarsi alla sua passione: i classici, scriverà pochi anni dopo una vita di Foscolo e un commento a 30 lettere di Giuseppe Giusti. Questi lavori passarono inosservati e allora Artusi pensa di mettere a frutto le sue conoscenze della cucina del tempo, che conosce bene attraverso i numerosi viaggi nell’Italia del tempo, viaggi che utilizzavano spesso la carrozza e il treno, da pochi decenni messo su rotaia: la prima tratta è Napoli-Portici del 1839 la seconda Milano-Monza del 1840. I limiti della sua escursione sul territorio sono i mezzi di trasporto dell’epoca e una conoscenza limitata per alcune regioni italiane. Il coraggio di Artusi è facilitato dalla sua borsa di denari e dalla rete di conoscenze intrecciate in anni di commercio, ad aiutarlo due domestici: il cuoco Francesco Ruffilli e la governante Marietta Sabatini, quest’ultima figura dominante in casa Artusi e proprio ai suoi domestici lascerà in eredità i diritti sul libro “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene”. Dopo aver ricevuto parecchi rifiuti da parte di editori dell’epoca Artusi decide di pubblicare il libro a sue spese affidandosi allo stampatore Landi di Firenze. Furono mille copie, una ad una inviate ai richiedenti per posta dallo stesso Artusi. Il successo tardò a venire ma Artusi non si diede per vinto e il primo spintone lo riceve da un famoso medico del tempo: Paolo Mantegazza che scrive all’autore: “Col darci questo libro voi avete fatto un’opera buona e perciò vi auguro cento edizioni.”. Pochi anni prima un famoso letterato contemporaneo, il bibliotecario dell’Università di Bologna, Olindo Guerrini, aveva tenuto una conferenza “La tavola e la cucina nei secoli XIV e XV” dove rivendicava al cibo l’importanza che i medici del tempo negavano: 

Il Pananti dice: 

“Tutte le società, tutte le feste
Cominciano e finiscono in pappate,
E prima che s’accomodin le teste
Voglion esser le pance accomodate.
I preti che non son dei meno accorti,
Fan dieci miglia per un desinare.
O che si faccia l’uffizio dei morti,
O la festa del santo titolare,
Se non c’è dopo la sua pappatoria
Il salmo non finisce con la gloria”. 

Che fa il paio con: 

“…Sapete voi perché l’aspra battaglia 
di Troia piace, e piace l’Odissea? 
Perché ogni po’ si stende la tovaglia; 
perché Ulisse e quegli altri a tempo e loco 
sanno farla da eroe come da coco”. 

E una “frustata” sarà data dall’autore stesso: Il mondo ipocrita non vuoi dare importanza al mangiare; ma poi non si fa festa, civile o religiosa, che non si distenda la tovaglia e non si cerchi di pappare del meglio. 

        Ma il libro dell’Artusi ha anche altre caratteristiche: un linguaggio accattivante e non noioso, le ricette precise e provate, un impianto esemplare nella suddivisione delle portate tanto che nel dizionario di Alfredo Panzini del 1905 vi si trova questo commento: 

“Artusi: per antonomasia libro di cucina. Che gloria! Il libro che diventa nome! A quanti letterati toccò ma Artusi tale sorte? Era l’Artusi di Forlimpopoli… cuoco, bizzarro, caro signore, e molto benefico, come dimostrò nel suo testamento, e il suo trattato è scritto in buon italiano. E non era letterato né professore”. 

Olindo Guerrini scrive all’amico Pellegrino: 

“Benedetto l'Artusi! È un coro questo, un coro che le viene di Romagna, dove ho predicato con vero entusiasmo il suo volume. Da ogni parte me ne vennero elogi. Un mio caro parente mi scriveva: “Finalmente abbiamo un libro di cucina e non di cannibalismo, perché tutti gli altri dicono: prendete il vostro fegato, tagliatelo a fette, ecc.” e mi ringraziava”. 

Più recentemente una studiosa della Crusca commenta il lessico artusiano: 

È al livello del lessico e della sintassi che meglio si può cogliere la ricchezza, la vivacità, la naturalezza del linguaggio di Artusi: pronto a recepire il patrimonio vivo della sua città di elezione con orecchio attento e partecipe, ma anche a conoscere la profondità della lingua grazie allo studio della tradizione letteraria. (Giovanna Frosini, Accademia della Crusca, 2009) 

        Il libro comincia a diffondersi capillarmente e questo provoca anche una serie di osservazioni, sollecitate proprio dall’Artusi, ne consegue una fitta corrispondenza e numerose ricette verranno pubblicate nelle successive edizioni. Fa molto rumore in Emilia l’assenza degli anolini parmigiani vanto della città, l’Artusi vi rimedia con la pubblicazione di una ricetta ricevuta da una signora parmigiana risiedente a Milano, li apprezza ma non ne comprende l’uso del vino messo nel coperchio e suggerisce di utilizzare la carne, dopo otto ore di cottura, come secondo piatto. Occorre ricordare che le pubblicazioni in commercio a quel tempo non sono all’altezza della cucina descritta dall’Artusi, e la cucina italiana, nel suo insieme pressoché ignorata. Bisognerà attendere il 1905 perché lo storico e geografo della cucina Alberto Cougnet, a conclusione del suo viaggio gastronomico nei cinque continenti (Il ventre dei popoli. Saggi di cucine etniche e nazionali), stenda un corposo capitolo su “La cucina e la cantina italiana”: capitolo che fornisce un quadro completo e particolareggiato del patrimonio gastronomico regionale e municipale. Non c’è piatto canonico che non venga menzionato, corredato da una più o meno sintetica descrizione della pietanza e dalla sua denominazione dialettale. La costituzione delle cucine locali italiane è, insomma, un fatto compiuto. Di lì a poco, nel 1909, verrà data alle stampe “La nuova cucina delle specialità regionali“ appositamente compilata da Vittorio Agnetti, che è la prima raccolta organica di ricette di tutte (o quasi) le regioni d’Italia, dal Piemonte alle tre Venezie, dal Lazio alla Sardegna. La trascrizione delle ricette, da fonti in gran parte orali, è esemplare. Se non è il primo a pubblicare ricette di piatti regionali, Agnetti è tuttavia il primo a progettare e a compilare una raccolta comprendente, con poche e non gravi eccezioni, tutte le regioni italiane. Il suo libro è davvero, in tal senso, “un’autentica novità nel campo gastronomico”, ed è perfettamente legittimo che l’autore tenga a sottolinearlo. 

        Artusi viene a mancare il 30 marzo 1911 dopo aver curato la sua 15ª edizione, le ricette da 475 sono giunte a 790 ma in realtà sono molte di più poiché l’autore infila tra le ricette anche molti consigli di varianti alle stesse. Di sicuro in questo libro emerge la personalità dell’autore, il ricettario è rivolto alla classe borghese che, anche in Italia, era emergente, Artusi stesso vi appartiene e usa lo stesso linguaggio qualche volta è un po' moralista: non pubblica la ricetta della Pinza perché spinge, a suo dire, al consumo del vino; il baccalà è poco adatto alle signore che ne sentono malvolentieri il puzzo; il cacimperio (la fonduta) non gli aggrada, chissà se avesse conosciuto il cazzimperio (il pinzimonio dei meridionali) come l’avrebbe commentato. Altre volte dimostra scarsa conoscenza delle abitudini di alcune zone: la brandade de morue, piatto nizzardo, è preparato anche in Liguria con il termine, aborrito sicuramente dall’Artusi, brandacujun. Mentre altri prodotti li promuove dopo averne apprezzate le qualità come i petonciani, le melanzane, che fino ad allora “erano tenute a vile”. Alcune ricette sono un po' improvvisate come i crostini di caviale con le acciughe, la maionese con un tuorlo cotto, perché si rassodi. Il cacciucco gli dà modo di sostenere la diffusione della lingua italiana poco conosciuta a differenza dei dialetti tanto che le zuppe di pesce come il cacciucco altrove si chiamino brodetti. Un po' di superficialità nel percorrere alcuni territori lo dimostrano la pizza napoletana in forma di dolce, anche se pare avesse intenzione di aggiungere quella a tutti conosciuta a base di mozzarella, incomprensibile anche la presenza del cuscussù (conosciuto a Livorno in un famiglia ebraica) e l’assenza pressoché totale dei piatti liguri. 

Non mancano spiritosaggini ironiche come quella che troviamo nella ricetta degli gnocchi alla romana (fatti con la farina bianca) e commentati così: “spero vi piaceranno, come sono piaciuti a quelli cui li ho imbanditi. Se ciò avviene fate un brindisi alla mia salute se sarò vivo, o mandatemi un requiescat se sarò andato a rincalzare i cavoli”. In alcuni casi è fin troppo zelante nelle varianti da fargli pubblicare ben tre ricette del risotto alla milanese. Alcune ricette sono pietre miliari della gastronomia anche se oggi un po' ignorate come il cappone in vescica, il vitello tonnato (senza maionese), la bavarese lombarda antesignana del tiramisù. Non mancano neppure consigli pratici come quello di aggiungere la trementina nel vaso da notte per eliminare il puzzo di urina dopo aver mangiato gli asparagi. Interessante il consiglio per sostituire l’uva passa con l’uva romanina antica varietà romagnola. Il suo tributo a Marietta Sabatini è nella pubblicazione della ricetta del Panettone Marietta al posto del più banale panettone alla milanese, non una ricetta esemplare ma affettiva perché: “sotto rozze maniere e tratti umili, stanno spesso i bei cuori e i sensi puri”. 

Scrive un ammiratore anonimo di Portoferraio il 14 luglio del 1906: 

“Della salute è questo il breviario, 
L’apoteosi è qui della papilla: 
L’uom mercé sua può viver centenario 
Centellando la vita a stilla a stilla. 
Il solo gaudio uman (gli altri son giuochi) 
Dio lo commise alla virtù de’ cuochi; 
Onde sé stesso ogni infelice accusi 
Che non ha in casa il libro dell’Artusi; 
E dieci volte un asino si chiami 
Se a mente non ne sa tutti i dettami”. 

Il successo è grande da far dire a Prezzolini dall’America: 

“Dammi l’Artusi”. “Cercalo nell’Artusi”. “Cosa Dice l’Artusi?”. L’opera dell’Artusi è un’ autorità e un classico… È un libro unico, un capolavoro, apparso inspiegabilmente nella maturità di una vita dedita ad altri scopi, illuminato da un’ispirazione che pare quasi come grazia divina, come “Pinocchio” di Collodi". (Giuseppe Prezzolini, 1958) 

Ma questo libro è ancora utile oggi? Molti, specialmente quelli che non l’hanno letto, sostengono che sa di stantio, le ricette sono grevi, superate, andrebbero riviste e riscritte, trattando l’opera artusiana come un testo di ricette odierne delle varie “maestre” e conduttrici televisive. 

        A conclusione qualche commento e la preghiera di leggere questo importante libro magari nella versione commentata da Alberto Capatti, del 2011 della BUR, il più grande conoscitore di Pellegrino Artusi, è disponibile anche un PDF gratuito sul sito di CasArtusi. 

“Un ricettario è utile perché detta la cucina a chi la ignora, e perché rieduca chi ne ha dimenticato o ridotto l’esercizio. I documenti del passato servono oggi ad arricchire il presente, integrandolo con l’esempio, e, risvegliando la memoria, trasformano il modo non solo di fare, ma di immaginare il cibo”. (Alberto Capatti, 2010) 

“L’Artusi ci ha aperto la strada per conoscere noi stessi e la nostra nazione, un cucchiaio alla volta. Ora tocca a noi prendere in mano il nostro futuro culinario. Basta aprire il libro: approfonditelo e lo scoprirete ancora pieno di sorprese”. (Massimo Bottura, 2011) 

“Non affrettiamoci a “rivisitarlo”, deprecabile esercizio che solitamente nasconde l’incapacità di confrontarsi con la personalità altrui. Proviamo a prenderlo alla lettera, scopriremo che, in molti casi, funziona ancora”. (Massimo Montanari, 2010)

Sotto: Artusi, Olindo Guerrini, la casa natale di Artusi, 
Festa Artusiana, la prima edizione del libro, l’edizione a cura di Alberto Capatti, cartolina e francobollo commemorativi bicentenario nascita.





























venerdì 16 ottobre 2020



Baccalà, stoccafisso e merluzzo

    Chi non conosce il baccalà? È stato per secoli il pesce dei poveri, quello imposto dalla Chiesa per osservare il digiuno, ma com’è possibile che un pesce dei mari del Nord sia giunto sulle nostre tavole? La storia ci racconta di grandi navigatori portoghesi, spagnoli, veneziani e genovesi, ma prima ancora di Vichinghi, inglesi e nordici in generale. I mari del nord sono ricchi di pesci ma un pesce in particolare ha attratto l’attenzione dei pescatori: il merluzzo, (gadus morhua) a favorirne la pesca è la Corrente del Golfo che nella Norvegia del nord tra gennaio e febbraio rende la temperatura più mite e i merluzzi si dirigono in massa per deporre le uova, facile per i pescatori norvegesi la loro cattura con reti o lenze. Appena pescati i pesci vengono eviscerati e lavati, quindi portati a terra dove prosegue l’operazione di pulitura, selezionati in base al peso e infine quelli destinati a stoccafisso vengono legati, due alla volta, e appesi alle rastrelliere. Qui rimangono circa tre mesi esposti all’aria nordica dove perdono il 70% della loro umidità a questo punto un selezionatore li separa secondo la qualità e legati e infilati in tele di iuta vengono spediti in tutto il mondo, le nazioni che ne consumano di più sono il Portogallo e l’Italia, la più attenta anche alla qualità del pescato; quelli destinati a baccalà vengono aperti a farfalla, salati continuamente per tre settimane e poi lasciati asciugare; il primo è disponibile solo tre mesi l’anno l’altro, invece, tutto l’anno. 

    In Italia giunge nel XVI secolo anche se è conosciuto già molti decenni prima. Pietro Querini, nobile veneziano al comando di una nave da trasporto merci parte da Creta nel 1431 e imbarca molti prodotti da vendere o scambiare durante il viaggio. Una tempesta coglie Querini e il suo equipaggio in Atlantico e i superstiti approdano a nord della Norvegia presso le isole Lofoten. Il Querini e i suoi uomini restano in questi luoghi più di cento giorni prima di tornare a Venezia. In questo modo apprendono l’uso di trattare il merluzzo da parte dei pescatori locali. Il resoconto del viaggio viene depositato da Querini presso le autorità della Serenissima ma dovrà passare più di un secolo prima che si inizi l’importazione. Il via sarà dato dalla chiusura del Concilio di Trento (4 dicembre 1563) che stabilendo il calendario delle giornate di astinenza e di magro: i venerdì, le Vigilie, la Quaresima, il tutto per circa 150 giorni l’anno, provoca una spasmodica ricerca di qualcosa di sostanzioso che potesse sostituire la carne. L’arcivescovo di Uppsala Olaf Mansoon pubblica un libretto intitolato “Historia delle genti e della natura delle cose settentrionali” che aveva lo scopo, fra l’altro, di far sapere che proprio dai Paesi del Nord Europa poteva venire ai cristiani un aiuto per osservare con più diligenza i nuovi precetti, inizia così l’importazione del merluzzo essiccato. 

    Il prodotto in Italia è accolto con entusiasmo per il basso costo e per l’alto grado di nutrizione, non disprezzabile poi la possibilità di trasportarlo con facilità nella cambusa delle navi. Le regioni che più ne saranno gastronomicamente coinvolte, oltre al Veneto, la Liguria, la Toscana, il Lazio, la Campania, la Calabria e la Sicilia. Nasce un problema diciamo così di nomenclatura poiché il nome del merluzzo lavorato porta con sé nomi settentrionali non facilmente traducibili per noi latini nascono così Merluzz, Bacalà, Stochefiscie o Stocche, Stocco, Stoccu, Pescestocco, Piscistoccu, Baccalà, Bertagnin, Bertagnì e così via. A Venezia si preferisce chiamare lo stoccafisso baccalà, anzi bacalà con una sola C. Lo spiega bene lo storico, agronomo e senatore Luigi Messedaglia (1874-1956) che ha scritto: 

“Oggi è provato che baccalà anziché derivare dal basso tedesco, come è stato sostenuto, è né più né meno italianizzazione della parola spagnola bacalao; e baccalà è una delle tante parole che ci è venuta dalla Spagna al tempo del suo predominio in Italia. La voce baccalà e la merce correlativa non diventeranno d’uso comune in Italia che nel pieno Seicento. La denominazione di stoccafisso, venutaci dal tedesco Stocfish, è di introduzione in Italia relativamente recente.” 

    Che la lingua spagnola abbia influenzato la parlata veneziana riguardo questo pesce ce lo conferma il nome dato alla più raffinata preparazione gastronomica che i veneziani abbiano saputo ottenere dallo stoccafisso, vale a dire il baccalà mantecato, dove anche l’aggettivo è tratto dallo spagnolo, e una corretta traduzione italiana dovrebbe dunque essere crema di stoccafisso. 

    Resta fuori il fatto che nella Repubblica veneta e nei territori a lei collegati da Venezia fino a Brescia, Bergamo e Crema il merluzzo salato si chiami bertagnin o bertagnì. L’ipotesi più accreditata pare sia quella che lo fa derivare da un noto importatore di Livorno che di cognome faceva Bertagnin. Ancora oggi a Genova viene molto apprezzata la qualità detta bertagnino, riferita al suddetto importatore. Nella terza edizione del “Cuoco senza pretese” del 1834 leggiamo a pag. 231: Battuto, e stato un giorno nell’acqua il merluzzo di buona qualità detto Bertagnino, che per essere tale si deve osservare che sia diafano, sottile e non giallo, perché allora si dirà vecchio e cattivo… 

    Le qualità migliori del merluzzo sono il cosiddetto “ragno” marchiato a fuoco sul lato e il merluzzo skrei chiamato dai norvegesi “Valentine fish” un merluzzo selvaggio di alta qualità. Per il baccalà il migliore proviene dal Quebèc il cosiddetto Gaspè San Giovanni, salato e asciugato al sole. 

Portate la dovuta attenzione al consumo di questo pesce poiché oggi il merluzzo atlantico rientra fra le specie vulnerabili della Lista Rossa IUCN (Unione internazionale per la conservazione della natura). Il consiglio, quindi, è utilizzare il merluzzo con il marchio MSC per tutelare la sostenibilità di questi pesci. 

       Le caratteristiche nutritive sono interessanti, 100 g di stoccafisso ammollato contengono grammi: 78,40 di acqua; 20,70 di proteine, 0,90 di grassi, 20 mg di calcio, 200 di fosforo, vitamine del gruppo B e solamente 91 Kcal. 

    Prima di procedere al consumo di baccalà o stoccafisso occorre conoscere i metodi perché questo merluzzo sia commestibile: se secco (stoccafisso) occorre batterlo con un bastone o un batticarne per bene e poi metterlo in un catino capiente e lasciarlo sotto l’acqua corrente per tre giorni. Se il vostro animo è particolarmente ecologico lo metterete in acqua fredda, sempre per tre giorni, in frigorifero e ogni sei ore la cambierete. Se volete usare il baccalà salato dovrete tenerlo in acqua almeno due giorni, o a filo o cambiandola ogni sei ore, prima di usarlo assaggiatelo che non sia ancora salato. Il commerciante vi può vendere il prodotto già pronto da cuocere, controllatene la qualità: che non ci siano macchie, aloni giallastri e pezzi mollicci. 

    In Italia, come in Portogallo, le ricette elaborate da ogni località sono moltissime dal baccalà mantecato dei veneziani, al bacalà alla vicentina, il brandacujun dei liguri, lo stoccafisso alla genovese o all’anconetana, il baccalà alla livornese, alla cappuccina, alla certosina, alla lucana, lo stoccu a ghiutta o alla mammolese dei calabresi mentre i più scarsi sono i piemontesi e i milanesi, i più fantasiosi sono i calabresi. Noi bresciani lo consumiamo principalmente in tre modi: baccalà in umido con pomodoro e patate, in insalata con aglio e prezzemolo, sale e pepe e il famoso bertagnì fritto in pastella ottenuto dal baccalà salato (lo stoccafisso sarebbe troppo duro a meno che lo facciate cuocere prima) e immerso in una pastella di acqua e farina con alcune varianti, qualcuno aggiunge un uovo, qualcun altro un pizzico di lievito per pane, i cuochi moderni usano acqua frizzante o birra. 

    Del merluzzo si possono consumare anche alcune frattaglie: il fegato dal quale si estrae il famoso olio, le uova, lo stomaco, la lingua.

Nelle immagini: il viaggio di Querini, il Concilio di Trento, stoccafisso, baccalà di san Giovanni, baccalà mantecato, alla livornese, baccalà e ceci, insalata di baccalà










venerdì 2 ottobre 2020



I funghi ma non solo porcini 


        Settembre tempo di funghi, quest’anno poi sembra che siano molto abbondanti. La prima cosa da sapere sui funghi sono le limitazioni territoriali, quindi prima di andar per funghi informatevi sul sito del comune se dovete fornirvi di un tesserino o di un permesso, la quantità di funghi permessi e dove si trova il centro micologico più vicino. 

        Anche se sui funghi i bresciani si ritengono grandi conoscitori le qualità di funghi che i bresciani raccolgono a dir il vero non sono molte. Perlopiù sono quelle che solitamente troviamo sul mercato in autunno, alcuni funghi sono assurti a “status symbol”, il porcino e l’ovolo buono sopra tutti. Ma la famiglia dei funghi commestibili è molto varia e serve una grande conoscenza per accedere a questo prodotto della natura, per questo motivo è consigliabile far vedere i funghi agli esperti micologi della città e dei vari comuni, prima di procedere alla cottura. L’Amanita caesarea (Ovolo buono) è chiamato “bolé, cucù o bolà” secondo le zone, è un fungo quasi sparito dalla circolazione, è ottimo in insalata. La Lepiota procera (Mazza di tamburo) è inconfondibile e abbondante, ottima ai ferri o impanata. 

        Le Psalliota arvensis, silvicola e campestris (Prataiolo) è chiamato da noi “colombina” e sono facili da trovare nei prati e ottimi trifolati. Ai primi freddi sui tronchi d’albero della pianura cresce l’Armillaria mellea (Chiodino), i nostri “ciodèi”, da accompagnare ad uno spezzatino di carne o di pollo o in guazzetto alla bresciana con la carne di maiale. Il Lyophillum Georgii (Fungo della saetta) questo è un fungo che pochi conoscono è detto anche da noi “fons de la saèta” poiché cresce a zig zag come il tracciato della saetta o in circolo come i circoli delle streghe, a parte il folclore è fungo ottimo da seccare e inserire in una miscellanea da degustare nella stagione invernale. Il Coprinus comatus (Agarico chiomato) è poco conosciuto ma ottimo, il fatto che a maturazione avanzata si presenti molle e nerastro, lo fa evitare dai più, ma, raccolto giovane, è ottimo in padella con burro e aglio. Ecco un esemplare discusso ed evitato in molte zone del bresciano: la Russula virescens (Verdone), da coloro che lo apprezzano è chiamato “verdù” è, dal punto di vista gastronomico, uno dei più buoni in assoluto, provatelo alla griglia. Le Russule cyanoxantha, vesca o aurata, (Rossola) da noi prendono vari nomi come “muritine, brönèi, rossole” sono funghi facili da trovare e numerosi, solitamente si consumano alla griglia o mescolati con altri funghi in padella. Il Cantharellus cibarius (Finferlo o gallinaccio) crea una certa confusione con i nomi dati da altre zone (nel Trentino li chiamano “finferli”), noi invece “galitì o galüsì” sono ottimi in zuppa. Il Cantharellus lutescens (Cantarello giallo o finferla) da noi viene chiamato “finferlo” è un fungo delicato e sottile ed è ottimo con il risotto. La famiglia dei boleti è vasta, i più buoni sono il Boletus edulis (Porcino d’autunno), il Boletus aereus (Porcino nero) e l’ottimo (anche se cambia colore) Boletus badius, da noi sono chiamati “frer o legorsèle” secondo la zona, è il fungo più conosciuto ma anche quello più commercializzato, sul mercato troviamo spesso esemplari provenienti dai Balcani, dal Sudafrica e dal Portogallo, funghi assolutamente insapori, nulla a che vedere con i nostrani del Garda, di Val Palot, di Serle o di Concarena, sono ottimi nel risotto, sulle tagliatelle o trifolati in padella. Vicini ai porcini, ma non dal punto di vista gastronomico, sono i Boletus carpini e aurantiacus (Porcinello grigio e rosso) sono i “sürli” da fare in frittata tagliati sottilissimi. 

        Sconosciuto ai più ma ottimo, è il Polyporus pes-caprae (Barbone) detto, da chi lo raccoglie, “barbù” ottimi da conservare sottolio. E infine un altro quasi sconosciuto è la Morchella rotunda (Spugnola rotonda) chi lo raccoglie lo chiama “spongla” cresce in primavera ai lati dei prati, vicino agli alberi da frutto e nei vigneti, ottime in tutti i modi. 

I Tartufi 

        Anche i tartufi sono funghi, sotterranei (ipogei che vivono sottoterra) ma sempre funghi. Già Bongiani Grattarolo alla fine del ‘500 nella Storia della Riviera di Salò affermava che: “si trovano funghi e tartufi di molte sorti e delicatissimi”. Così confermava il detto popolare che laddove ci sono ottimi e abbondanti funghi vi sono anche i tartufi. Questo è quel che dicono coloro che hanno visto raccogliere i tartufi, a suo tempo, nel parco del Rimbalzello e nei giardini delle ville di Gardone Riviera, sulle colline gardesane e in varie parti della provincia. Zantedeschi nel 1800 affermava che si trova abbondanza di tartufi in Valle Trompia. Anche nel ‘900 il Solitro testimoniava la presenza di tartufi in Valtenesi. Il grande gastronomo francese Brillat-Savarin lo chiamava il diamante della cucina. A questo tubero si attribuiscono proprietà afrodisiache, Galeno, il medico dell’antichità scriveva “i tartufi producono eccitazione che predispone alla voluttà” 

        Le qualità migliori in assoluto sono il Tartufo d’Alba o Acqualagna (Tuber magnatum) e il Tartufo nero di Norcia e di Spoleto (Tuber melanosporum). Ma poi anche altre specie meritano l’attenzione come: 

Tuber macrosporum o tartufo nero liscio 

Tuber aestivum o scorzone maggengo estivo 

Tuber aestivum uncinatum o scorzone uncinato invernale 

Tuber borchii o bianchetto primaverile 

        Da una trentina d’anni ormai si sono impiantate delle tartufaie con alberi della famiglia delle querce o carpini neri e bianchi in località Alto Garda, Basso Lago, Valsabbia . I risultati secondo l’esperto Virgilio Vezzola sono incoraggianti (vedi Tartufi e tartuficoltura nella provincia di Brescia, Compagnia della stampa, 2004). Grazie a Vezzola nel bresciano da tanti anni si tengono mostre e manifestazioni sul tartufo nostrano, la prima mostra mercato del tartufo bresciano si tenne a Puegnago del Garda. E così anche noi bresciani, dal tramonto all'alba, in gran segreto, scateniamo uomini e cani alla ricerca del pregiato tubero, un occhio al terreno, uno al cane e attenzione anche ad una piccola mosca che deposita le sue uova proprio sui tartufi, che buongustaia! 

        Sui tartufi però vi sono alcune cose da sapere: la conservazione. Se si tratta di conservazione breve dovrete spazzolare i tartufi per togliere la terra, se neri anche sotto l’acqua, se bianchi evitate di bagnarli, poi li avvolgerete, uno a uno in carta assorbente e li terrete per qualche giorno in frigorifero nello scompartimento più freddo. Potete anche conservarli sotto sabbia o nel riso sempre nel frigo, attenzione che nel riso si possono disidratare. Li potete anche conservare sottovuoto e congelarli. In freezer potete anche mettere i tartufi macinati e coperti da burro fuso. Le frodi più frequenti sono la mescolanza tra varie specie, del tartufo bianco evitare di comperarne di troppo piccoli perché potrebbero essere dei bianchetti e non tuber magnatum. Attenzione anche alla presenza di terra e argilla che ne aumentano il peso. Le dosi in cucina sono di 10 g di t. bianco e 15 di t. nero- Evitate di cuocere il t. bianco e invece fate cuocere tranquillamente quello nero. Le due preparazioni migliori sono una polenta arricchita di fontina, robiola e grana, versata in ciotoline e cosparsa di tartufo. Un’altra semplice preparazione sono delle uova al burro e cosparse di abbondante tartufo bianco. Se volete imitare i piemontesi cuocete dei tagliolini, conditeli al burro e inondateli di tartufo bianco o nero affettato con l’apposito strumento.

Dalle immagini: verdone, chiodini, galletti, mazze di tamburo, prataioli, spugnola, tartufo bianco, tartufo nero di Norcia, tartufo estivo detto scorzone.