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martedì 19 settembre 2023

La cucina italiana esiste o no?

       In una discussione pacata come si usa tra persone intelligenti, si è aperto un dibattito ispirato da Massimo Montanari sull’esistenza o meno della cucina italiana e regionale. Spesso queste discussioni tendono a inglobare secoli di storia, se non millenni. Il primo problema dunque nasce dal contesto storico che stiamo indagando. Perché se è evidente che l’Italia è una nazione giovane (1861) il territorio è stato diviso a partire dalla caduta dell’impero romano d’occidente (476) in tanti stati e staterelli che hanno frammentato e diviso una nazione che sulla carta appare omogenea, con il mare che la circonda e le Alpi che la proteggono. A stabilire le caratteristiche di una cucina sono vari elementi: le popolazioni, il suolo e le acque, la provenienza degli abitanti. Sarà la somma di queste coordinate a stabilire una linea gastronomica, se poi a tutto questo aggiungiamo il naturale scambio di prodotti e nozioni che avvengono nei luoghi della socialità, il mercato, le osterie, gli incontri più o meno programmati ecco che si aggiungono ulteriori elementi. Gli Itali erano una popolazione che abitava quella che oggi noi chiamiamo Calabria, parlavano la lingua “osca” adoravano il vitello da cui anche “vitalia” (a loro si unirono bene presto i lucani, i campani, i sabini ecc.) e da loro deriva il nome della nostra patria.
Questa frammentazione ha dato origine a molte cucine locali più o meno omogenee, ricordiamo che anche all’interno di luoghi affini e strutturati politicamente possono coesistere tradizioni diverse, nelle comunità di origine franco-p e rovenzale o greca, ad esempio, le cucine dei popoli alpini come i cimbri e i mocheni, i walser e i valdesi, gli arbëreshë nel sud Italia. Sono enclave di popolazioni arrivate secoli fa con usi costumi e religioni diverse dalle nostre ma oggi completamente integrate. Un altro aspetto sulla conformazione sono le tradizioni gastronomiche locali, che spesso di allontanano da una banale associazione. Se guardiamo la nostra provincia, ad esempio, possiamo notare una sostanziale differenza dalla cucina camuna e quella gardesana, dalla cucina delle valli Trompia e Sabbia da quella della Bassa Bresciana. E’ logico a fare la cucina locale sono i prodotti che si trovano facilmente sul quel territorio, ecco perché in Valle Camonica troviamo spesso il perüch (buon-enrico) e nella Bassa i loertis (luppolo), sui laghi i pesci e nelle zone interne rane e lumache. La formazione di una cucina è lastricata di tante, moltissime, varianti. Come si può pensare a una cucina emiliano-romagnola senza distinguere l’Emilia dalla Romagna, la cucina pugliese è tutta omogenea o i fornelli brindisini stanno a quella tarantina? C’è una cucina lombarda? Cosa c’entrano i valtellinesi, gastronomicamente parlando, con i mantovani? In Italia di questi esempi se ne possono fare, come direbbe Veronelli: millanta e millanta. Quindi com’è possibile denominare con l’aggettivo “regionale” una cucina, anche perché, banalmente, le regioni sono nate nel 1970 e la Lucania si trasformò in Basilicata, gli Abruzzi incorporarono il Molise per poi separarsi, il Trentino l’Alto Adige, il Friuli, la Venezia Giulia, l’Emilia, la Romagna.
In questa discussione poi emerse anche il futuro della nostra cucina e quel caro amico afferma che il destino della cucina locale è passato nelle mani degli osti, delle trattorie perché, parole sue: “la cucina di casa è sbrigativa” forse pensava ai quattro salti in padella come sembra nel manifesto del ministero a supporto della cucina italiana (vedi). La cucina, quella vera è tutt’altro che sbrigativa, si pensi alle lunghe cotture degli stufati, dello spiedo, del manzo all’olio. Si pensi alle ore che servono per preparare casonsèi, caicc, e calsù, le nostre principali paste ripiene. Si pensi alle ore che servono per fare il bossolà di Brescia. Potremmo continuare per pagine. Quindi, oggi la cucina di casa va tutelata e questo doveva fare il Ministero, non presentare all’Unesco un cuoco con i gemelli al polso, mancino, che tratta l’Italia come fossero quei quattro salti in padella o come l’ultimo spot, rivolto a noi italiani, dove una squadra sportiva si butta pacchi di pasta (rompendola e rendendola ottima per la minestra maritata) e dove si insegna agli italiani come cuocerla, a noi, avete capito bene.
Quindi la tutela della nostra cucina, che non è totalmente nostra: se pensate a un piatto di spaghetti al pomodoro e basilico, dove a seccare la pasta filiforme, furono gli arabi in Sicilia, l’olio proviene dalla Grecia, il basilico dall’Oriente e il pomodoro dalle Americhe, solo l’acqua e il sale sono nostri. Ma la cucina è un derivato del savoir-faire, e della sapienzialità delle nostre donne (e uomini, pochi). Pensare che a tutelare la cucina locale siano le trattorie è come chiedere di tutelare la scrittura a mano ai maestri di scuola. Senza ricordare che lo scrivere a mano aiuta la mente a pensare, aumenta la comprensione del testo, ci consente di allenare la memoria e, se usiamo la “bella calligrafia”, si diventa anche un po' artisti. Chiudiamo quindi con l’affermare che la cucina locale deve tornare ad essere protagonista delle nostre tavole, si deve tornare al pollo arrosto con patatine della domenica, allo spiedo del nonno (con o senza uccellini), alle lunghe cotture con la teglia di terracotta. L’alternativa si che è banale: quattro salti in padella o “apri il frigo e vediamo cosa c’è… azz, il frigo è vuoto”, prosit!

Nelle immagini: gli arrosticini abruzzesi, il manifesto del Ministero, il focolare domestico



venerdì 9 giugno 2023

I sapori della vita

        Con questo titolo inizia un percorso che, lo spero con tutto il cuore potrà essere lungo e fruttuoso, intellettualmente intendo. Iniziamo con una serie di incontri che intrecciano i sensi, il cibo, la vita delle persone. Aggrappandoci a opere letterarie, film e pezzi di vita scioglieremo sensi come l'acro, il dolce, il salato, l'amaro, il grasso e l'umami, questi due sono gli ultimi arrivati della compagnia.

        Il rapporto tra il cibo, la letteratura, il cinema o il teatro è sempre stato forte ma tutte le arti ne sono state contagiate dalla caduta della manna del Tiepolo a Miseria e nobiltà commedia di Eduardo Scarpetta di fine Ottocento. Dalla Grande abbuffata di Ferreri a Julie & Julia di Nora Ephron sceneggiatrice anche di Harry ti presento Sally con la scena indimenticabile nel ristorante. La letteratura è zeppa di passaggi gastronomici da verga (checché ne pensi la Tamaro) a D'Annunzio, da Joyce a Guareschi. Il ciclio si concluderà, almeno in questa versione, con due bresciani sensibili all'argomento culinario : Carla Boroni e il sottoscritto. Carla, orma da vent'anni si è appiccicata l'etichetta di gastronoma da quando iniziò una serie di pubblicazioni sulla cucina bresciana allargando il concetto anche alla selvaggina e allo spiedo, monumento alimentare dei bresciani. Il sottoscritto invece, festeggia il 30° anniversario dell'uscita della prima edizione di La cucina bresciana nel lontano 1993, ne seguiranno altre due edizioni, una in e-book, nel 2013.

        Chi vuol essere della partita si prenoti, gratuitamente, al link sottostante e sarete accolti a Cast Alimenti con la dovuta cortesia. Gli incontri si svolgeranno nell'Aula Magna della scuola e ogni incontro prevede alcuni consigli di lettura.

https://www.castalimenti.it/iniziativa/i-sapori-della-vita/

domenica 16 aprile 2023

MARICONDA, BELA TONDA

             Stimolato dall’amico Francesco Spacagna di Brescia nel Piatto, circa l’origine delle mariconde e accantonate le frasi rubiconde che vi circolano attorno, ho provato a delinearne le origini. Compito non facile dato che Mariconda è il nome di una nobile famiglia del Meridione d’Italia almeno fino al XVIII secolo e titolare di vie rioni e borghi da Scafati a Pompei (921 i cognomi in Italia).

 Le prime citazioni di mariconde come piatto mangereccio risalgono al XVI secolo con i grandi protagonisti del tempo: Teofilo Folengo o, se preferite, Merlin Cocai e Christofaro da Messi Sbugo direttore delle vicende gastronomiche alla corte degli Estensi di Ferrara. Orbene, costoro citano la voce mariconda in due modi l’uno opposto all’altro. Folengo ne parla come minestra sostanziosa, Messibugo come un apparecchio da mensa, una sorta di pastume, vuoi come copertura, oppure come guarnizione e accompagnamento d’altro. Quest’ultimo, ne fa risalire l’utilizzo comune alla regione aragonese spagnola, l’altro ne fa notare la diffusione popolare degna dei suoi poemi maccheronici.

Da qui in poi, tra gli storici, la confusione regna sovrana. Pronti a imboccare la strada nobiliare i mantovani, che attribuiscono a Isabella d’Este moglie di un Gonzaga la diffusione del piatto. Stranamente però questa preparazione non è mai citata da Bartolomeo Stefani cuoco dei Gonzaga.

 Bartolameo questa Arte tua gentile

Ha reso confusione infra i palati.

Mentre, con tuoi cibi delicati

Fatto hai, col’Arte tua Natura vile.

 Questo cuoco di origine bolognese, fu protagonista delle feste dei Gonzaga e attento alla cucina del popolo tanto da utilizzare per far minestra i torsoli d’indivia e di lattuga, la zucca in molte preparazioni ma di mariconde, neppure l’ombra. Eppure, i mantovani giurano che le mericonde, come le chiamano loro, siano state introdotte da Isabella d’Este con una ricetta ripresa dal pranzo di nozze tra Ercole d’Este e Renata di Francia. In realtà compaiono, con questo nome l’anno successivo, il 1529, chiamate “mariconda alla ragonesa” . Come spiega bene Roberto Morelli in Appunti di gastronomica, 56 già Maestro Martino segnalava questa preparazione chiamandola “manfrigo o manfrigoli” e anche lo scalco Giovan Battista Rossetti anch’esso alla corte estense, dopo Messisbugo cita la mariconda, ma non si tratta mai di minestra bensì di una farcia vuoi per riempire fiadoni, vuoi per modellare a forma di cappesante come accenna lo stesso Messisbugo.


RAFFRONTO TRA LA RICETTA ORIGINALE DI MESSISBUGO

E QUELLA DIVULGATA DA TACCUINI STORICI


PER FARE DIECI PIATTI DI MARICONDA ALLA RAGONESA

Banchetti… ediz. 1549 - p. 124 anastatica di Neri Pozza, 1992

Togli di formaggio grasso libbre 3, di formaggio duro libbra una grattato, e d’uva passa monda libbre 2, e torli di uova trenta, e libbra una di zuccaro, e libbra una di butiro fresco, e oncia una di cannella fina pista e un pan bianco grattato, e pista bene ogni cosa insieme nel mortaio.

E poi piglia detto pastume, e ponilo in una stamegna, ed esprimilo in un torchietto più che sia possibile, e quando sarà ben espresso fuori il succo, non potendo avere altrimenti quel che resta dentro, tagliarai la stamegna intorno.

E poi lo detto pastume tagliarai in fette, grandi o picciole come a te piacerà.

Poi le friggerai in libbre 3 di butiro fresco. Poi imbandendole gli porrai sopra oncie 6 di zuccaro.

Di questa vivanda te ne puoi servire invece d’uva passa, ed è buona par empir cappe di San Giacomo e fiordeligi o altre cose di pasta.


NOTE:

1 libbra= g 346

1 oncia= g 21-28

Zuccaro= zucchero

Butiro= burro

Pastume= composto

Espresso= spremuto

Stamegna= stamigna, panno per passare i brodi

Imbandendole= servendole

Cappe di San Giacomo= cappesante o conchiglie di San Giacomo, pettine

Fiordeligi= florilegio, composizione di cose miste

Come abbiamo visto non è una minestra (non c’è brodo), ma un impasto di formaggio, pangrattato, uova e aromi, anche dolci (uva passa e zucchero) tagliato a fette poi fritto nel burro, quindi zuccherato. Lo stesso Messisbugo suggerisce di usarlo in altri modi come ripieno per cappesante o altre composizioni varie miste, e suggerisce per queste di eliminare l’uva passa.

TACCUINI STORICI, OGGI GASTROSOFICI

Mariconda alla ragonese

Pane raffermo, latte, burro, uova, grana, noce moscata, brodo di carne, sale, pepe

Preparazione

In un recipiente sbriciolate della mollica di pane raffermo e ricopritela di latte, lasciandola riposare. Sciogliete del burro in un tegame, aggiungete il pane ben strizzato dal latte, ponete sul fuoco, e fate asciugare avendo cura di mescolare il tutto. In una terrina mettete il pane, delle uova, grana grattugiato, noce moscata, sale e pepe, amalgamate bene il composto e lasciate riposare coprendo con un canovaccio. Scaldate del brodo di carne, quando alzerà il bollore prendete il composto a mezzo cucchiaio alla volta, e gettatelo nel liquido fino ad esaurimento. Cuocete per pochi minuti, travasate la minestra in una zuppiera, e servitela immediatamente con a parte del formaggio grattugiato. (In origine questo era un piatto dolce, nell’impasto del quale entravano zucchero, uvetta e cannella.)

NOTA:

Dove abbia preso l’autore di questa ricetta il brodo, il latte, che non compaiono nella ricetta originale. Poi ancora: chi ha detto mai di cuocere l’impasto nel brodo, non certo Messisbugo. È questa una versione diversa di qualche secolo dopo adattata a minestra nella logica evoluzione della cucina popolare che intravede l’utilizzo di pane avanzato, o hanno convissuto nel panorama gastronomico tante versioni con nomi simili?

 RIFLESSIONI STORICHE E GASTRONOMICHE

            Iniziamo con i nomi incontrati: maricondarum, manfrigo, manfrigoli, mariconda alla ragonesa, marangole, mericonde, maricùndule, minestra mariconda, mariconde alla campagnola…

 Dallo Scaramella: mariconde, mericonde: 1° piatto a base di pane; - alla campagnola

Dal Melchiori: nessuna voce

Dal Pinelli: nessuna voce

Qualcuno sostiene che deriva: la prima parte dal Marì, il caldanino che non è però un recipiente di cucina ma un aggeggio per scaldarsi le mani, la seconda dal “tragitto” che porta il cibo allo stomaco: condeot=condotto. Supposizioni fantasiose, sicuramente.

             Nel Novecento molti autori citano un piatto di nome simile: il più illustre è: “L’arte cucinaria in Italia” con la ricetta: Mericonde del dottor Alberto Cougnet (1910) che però sono talmente raffinate da sembrare degli gnocchi alla parigina o dei bignè bolliti nel brodo vista la presenza di lievito. Ne scrive anche Petronilla (1947) nel suo primo libro e altri autori consimili copiati tra loro. Se la mariconda di Messisbugo (1529) assomiglia più a dei fiadoni, di cui Brescia era famosa (basta leggere Ortensio Lando, 1554) le marangole di Giovanni Felice Luraschi (1853) sembrano delle palline di pasta reale diffuse sui deschi della Padania tra Lombardia ed Emilia. Camillo Pellizzari riporta sul suo “La cucina bresciana” (1972) due ricette: Minestra mariconda e Mariconde alla campagnola,

A convincerci è, al solito, Teofilo Folengo, monaco di origine mantovana ma vissuto 25 anni tra Brescia e Lonato. Nel suo Baldus (1552) ad un certo punto racconta:

“e così Comina dà inizio al suo canto, gonfia di scodelle di mariconda”.

Ecco la minestra servita in scodelle.

E allora? Come si può avvicinare Messisbugo con la cucina popolare di Folengo. Evidentemente ci sta, come spesso accade in cucina, un po' di confusione: c’è chi vorrebbe che un piatto avesse sempre una nascita nobile, che lo circondasse un alone di mistero, che l’inventore fosse un dignitario di corte come appunto Christoforo da Messisbugo alla corte estense. Un po’ di confusione non guasta, le citazioni storiche, spesso sbagliate, (Ercole II si sposò in Francia nel 1528 con Renata di Francia) le mariconde alla ragonesa le mette nel menu l’anno seguente e Isabella d’Este (che avrebbe portato la ricetta a Mantova) non era presente a quella cena. È quindi, come diceva Bartali, tutto da rifare? No, certo.

Si tratta di cose diverse perché la cucina dei principi non è quella del popolo, anche se prima o poi si incontreranno (la pizza della regina Margherita) come dimostra la predilezione di tanti cuochi di ristoranti fine dining per le frattaglie, la trippa, il panino, epperò gourmet, ecc.

Quindi torniamo alla cucina di principi e di popolo, come veniva detta la cucina mantovana perché è tra Mantova, Cremona e Brescia che si possiede la paternità gastronomica di questo piatto. Lasciamo stare i quarti di nobiltà e affrontiamo l’argomento seriamente: si tratta di una versione che alla sua base ha la cultura del riuso, del recupero o se vogliamo dell’avanzo della mensa. La materia prima è il pane, che non si butta mai per rispetto vuoi religioso (Cristo spezzò il pane e ne diede agli apostoli) vuoi per rispetto della fame altrui. Così nascono ricette per il suo riutilizzo come gli gnocchi di pane, i canederli. i casoncelli della Bassa, il ripieno della gallina e la nostra minestra mariconda. Da noi si usa più la versione povera, mentre nel Cremonese e nel Mantovano usano aggiungere all’impasto carne lessa tritata di pollo o manzo e quindi un altro recupero. Chiudiamo con una citazione a proposito di recupero di una canzone poco conosciuta (La dieta) di Luca Barbarossa:

“---Pe’ fà la picchiapò ce vò er bollito

Taiato a fette arte mezzo dito…”

 16 aprile 2023

 Da leggere:

Christoforo da Messisbugo: Banchetti e compositione di vivande; Ferrara 1549

Agostino Melega La tradizione del cibo salvato; sul web

Roberto Morelli La mariconda; Appunti di Gastronomia n. 56; Biblioteca Alma, Colorno (PR)

 Nelle immagini: Il libro di Messisbugo; la rivista Appunti di gastronomia; il mio libro sulla cucina bresciana che riporta la ricetta cercate la seconda edizione poiché questa è esaurita.




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lunedì 16 gennaio 2023

 

CASONSÈI non solo pasta ma anche evoluzione

 

            Se c’è una preparazione gastronomica che lega fortemente le provincie di Bergamo e di Brescia questa si chiama casonsèi. Non casoncelli, come si usa dire, che è bruttino, una forzatura verso la lingua nazionale inutile, sarebbe come chiamare pagliata la pajata dei romani o salsa calda la bagna càoda dei piemontesi che si pronuncia cauda.

Ora è inutile cercare battesimi e anni di nascita di queste paste ripiene nate dall’esigenza di usare o riusare, come si dice oggi, degli avanzi della cucina e dei pasti precedenti. Se non c’era niente, e un tempo era spesso così, allora pane e formaggio, con un po' di erbe selvatiche sopperivano alla carenza di prodotti.

Contrapporre quindi Bergamo e Brescia sul tema “patria dei casoncelli” mi sembra fuorviante. Molto più utile indagare sulla loro evoluzione, sul cambiamento dei gusti e sulle innovazioni avvenute nei secoli. Guardiamole bene queste due provincie simili nella conformazione orografica salvo dimensioni differenti e molto più ricca di acque quella bresciana. Noi sappiamo però che le proposte gastronomiche si formano attorno ai prodotti che ha generato nel territorio.

Troveremo allora la presenza di patate in montagna, verdure di campo in pianura, formaggi in tutto il territorio, sapori secondo il gusto di ognuno, e condimenti secondo le possibilità.

La prima distinzione è la pasta, più o meno spessa, più o meno ricca di uova. La prima ripartizione è dovuta a sensibilità gustative di ogni zona e di opinioni più o meno convincenti: masticabilità sensazione di appagamento fisiologico, preferenza della pasta rispetto al ripieno.

La seconda distinzione riguarda il ripieno chi lo preferisce ricco di carni, chi apprezza l’equilibrio di sapori dolce-salati, chi lo vuole semplice per ritrovare gusti antichi e poveri, chi ricerca nuove sensazioni gustative.

La terza distinzione sta nel condimento c’è chi lo vuole ricco di sapori con pancetta o altri salumi, chi invece apprezza una semplice combinazione di burro cotto e foglie di salvia.

Tutti però concordano che i casonsèi siano un piatto da riservare alle feste con ospiti.

Il motivo è stato spiegato in un convegno, svoltosi anni fa alla presenza di Giovanni Rana, la pasta ripiena gode di una reputazione alta nel fatto di poter svolgere un ruolo gastronomico nella proposta del pasto di buon livello, superiore cioè a una semplice pastasciutta o minestra e nel motivo, lampante, di poter essere somministrata in pochi minuti.

Oggi allora dobbiamo considerare tradizionali molte di queste offerte gastronomiche, ne è più ricca la provincia di Bergamo o quella di Brescia. Troviamo il quesito inutile e poco rispettoso di due territori consimili che hanno, ognuno per loro conto, disegnato piatti di genere consimile ma con gusti diversi. A noi invece interessa leggere la loro evoluzione, perché, per chi conosce le due cucine, potrebbero essersi intrufolati nuovi piatti di casonsèi, con nomi magari di fantasia, con forme nuove, con ripieni e condimenti assolutamente innovativi.

Questo il compito che ci siamo dati per voi. Per facilitarvi nella conoscenza, per stimolare nuove emozioni gustative, per aggiornare il vostro bagaglio culturale in proposito.

I casoncelli dei bergamaschi e dei bresciani

Bergamo

1.      Bertù di Rovetta o di San Lorenzo

2.      Caronsèi di Cadelfoglia

3.      Casoncelli del Colleoni

4.      Casoncelli della Valle Imagna

5.      Casoncelli di Ambivere

6.      Casoncelli di Cornalista e Roncaglia

7.      Casoncelli di Isso

8.      Casoncelli di Locate

9.      Casoncelli di Prezzate

10.  Casoncelli di Zogno

11.  Casoncello di Ambivere

12.  Casoncello dolce

13.  Casoncello storico

14.  Casonsèi co i urtighe

15.  Casonsèi de la bergamasca

16.  Casonsèi de Spinù

17.  Creste scalvine

18.  Ravioli di Marne

19.  Ravioli di Sant'Alessandro

20.  Raviolo Nostrano di Covo

21.  Scarpinòcc

 Brescia

1.      Cadunsèi col manubrio Piazze d'Artogne

2.      Caicc o ravioli di Breno

3.      Calsù di Pezzo

4.      Calsù di Ponte di Legno

5.      Calsù di Villa Dalegno

6.      Calsù di Zoanno

7.      Calsù o casoncelli di Lozio

8.      Canünsèi de Sant'Antone di Casterlcovati

9.      Casoncelli di Barbariga

10.  Casoncelli di Erbanno

11.  Casoncelli di Longhena

12.  Casoncelli di Monno

13.  Casoncelli di Ono San Pietro

14.  Casoncelli di San Giacomo di Borgo S. G.

15.  Casoncelli di Sant'Andrea di Nuvolento

16.  Casoncelli di Sant'Antonio di Pontoglio

17.  Casonsèi de Cegnà o Signà di Cignano

18.  Casonsèi di Flero

19.  Pi fahacc Artogne

20.  Tortelli di zucca di Gottolengo


 Novità BG

 

1.     Camisocc Gandino Emanuela Caleca Sagra locale

2.     Capèl dè Monega Valle Brembana Ludovico Pozzi e Andrew Regazzoni

3.     Casoncelli al Branzi Trattorie Valle Brembana

4.     Casoncello gelato Bergamo Gelateria Marianna

5.     Castoncelli Monesterolo del Castello Sagra locale

6.     Chioccioncelli Carobbio degli Angeli Roberto Rovetta Azienda di allevamento lumache

7.     Moscovado di Scanzorosciate Francesco Gotti Festa del Moscato di Scanzo

8.     Rustichini Val Gandino Ivana Bosio Pastificio locale

9.     Tosèi di Rovetta in Valseriana Pastificio locale

 

Novità BS

 

1.     Casoncelli 2.0 Istituto Dandolo Bargnano di Corzano 2018

2.     Casoncelli al bagòss Trattorie di Bagolino

3.     Casoncelli della Fonte di Mompiano Istituto Mantegna Brescia 2022

4.     Casoncelli estivi Brescia Marino Marini 2001

5.     Casonsèi scapacc Brescia Trattoria Licinsì km zero 2018

6.     Ganèi Darfo Boario Terme Alessandro Amoruso Istituto Alberghiero Darfo B.T. 2019

7.     Tortelli ai formaggi di Tremosine Cooperativa Alpe del Garda

8.     Tortelli di San Vitale Castegnato Cascina Cattafame Ospitaletto (antica ricetta 1904)


Come avete visto in tanti secoli di strada ne è stata fatta si è passati dal semplice ripieno, quello della gallina, che all’occorrenza poteva miracolosamente trasformarsi in polpette, involtini di verza ripieni quelli che chiamiamo capunsèi un po' per l’assenza del cappone un po' per il suo ripieno e così complice l’obbligo di rispettare il digiuno imposto dalla religione, la preparazione dei casoncelli era semplicemente farina, poche uova, e quel che la madia riservava. Il risultato un casoncello trasparente che mostrava il contenuto dello scrigno goloso, un fagottino rigonfio, un cassonetto di bontà secondo i parametri del tempo regolato sulla fame. E qui, tra queste parole sta l’origine del nome: calzoncino, rigonfiamento (vedi i fiadoni derivati da enfiat, gonfio), cassoncello, o, ma questo lo riferiscono coloro che hanno studiato, da caseus il nome latino del formaggio.

Comunque sia la fantasia e il gusto ci portano all’oggi che vede tra le nostre due provincie accavallarsi montagne di casoncelli che offrono un piatto gustoso e veloce da prepararsi le differenze sono molte e oggi stiamo assistendo a un rinnovato interesse e le amministrazioni locali cercano di tutelarne le peculiarità come la Camera di Commercio di Bergamo che ha definito dei disciplinari su alcune tipologie tradizionali, o qualche comune che ha invece preferito scegliere la Denominazione Comunale (De.Co.) altri ancora hanno richiesto l’inserimento nei Prodotti Agroalimentari Tradizionali (PAT). Sta di fatto che il supporto maggiore è dato dalle tante sagre che da molti anni (quella di Bottonaga a Brescia ha più di 40 anni) fanno dei casoncelli il loro piatto bandiera. Bergamo con il riconoscimento europeo cosiddetto East Lombardy ha dato il via a manifestazioni a sostegno di questa pasta ripiena; Brescia nel 2018 ha organizzato il Concorso provinciale dei casoncelli a Orzinuovi che ha visto nascere nuove proposte, specialmente nel settore giovanile. Nello spazio, nuovi ripieni delle tabelle chiamato novità vediamo alcune nuove idee ma anche recupero di casonsèi dimenticati.

Ci piace sottolineare l’idea dell’Istituto Alberghiero Mantegna di Brescia che guidati dagli insegnanti e da un tecnico hanno inventato uno stampo per casoncello richiamando le forme e gli archi della Fonte di Mompiano, hanno anche deciso che il ripieno sarà composto da prodotti bresciani così come le farine sono di tipo evolutivo e prodotte in provincia, infine i condimenti cambiano secondo le stagioni e prevedono erbe locali e marroni di Mompiano.

C’è del buono all’orizzonte e i casonsèi, bresciani o bergamaschi che siano ne saranno protagonisti.

Note: nelle immagini il casoncello tradizionale, la sagra di Pontoglio, quella di Barbariga, i camisocc di Gandino e il casoncello della Fonte di Mompiano


 

 


domenica 1 gennaio 2023

QUATTRO FRATTO DUE UGUALE...

  • Chi ha ancora ricordi scolastici che vagano per la mente se lo ricorderà il quesito matematico. Certo, discorrendo di 5/4 la matematica si spreca. Ma non si sprecano quelle parti che non sono propriamente nobili, dette così, quest’ultime, perché le consumavano, principalmente i ricchi, da distinguersi dalle parti povere… un po' come la corte alta e bassa. Molte cose vanno chiarite perché non si capisce l’uso del quinto-quarto oggi così diffuso nei ristoranti di alta gamma.

    Intanto si dicono frattaglie e rigaglie perché erano destinate a dividersi (fratto significa dividere, scomporre, frantumare) tra i poveri o coloro che avevano macellato l’animale, fosse vitello, bue, maiale, cavallo o solo un cappone, un’oca o una gallina. Si è giocato molto sul termine rigaglie e regalie, ma non confondiamoci non regalie perché destinate al re ma, al contrario era il re che, bontà sua, concedeva al villano di tenersi le budella e le altre interiora. Solo qualche buongustaio raffinato per giustificare che mangiava volentieri le frattaglie ne discuteva con sussiego dando loro valore gastronomico assoluto: cose che voi umani non conoscete! Si nasconde dietro questa moda anche un po' di ipocrisia, specialmente tra i ristoratori al top, che spesso enfatizzano solo perché devono giustificare un prezzo elevato a fronte di un basso costo. Ma ci sono cuochi o cuoche come Valeria Piccini a Grosseto, nella Maremma, che ne è maestra.

    Dal dizionario ricaviamo che
    bassa corte s.f. dal francese basse-cour che indicava il cortile di servizio dei castelli, in contrapposizione con la cour d’honneur, cortile di rappresentanza. Il termine bassa corte stava appunto a sottolineare la differenza tra gli animali considerati privilegiati come cavalli, utilissimi alla corte, cani, gatti, o animali di compagnia e animali utili solo nel campo alimentare, tendenzialmente sporchi e causa di fetori, come appunto maiali, galline, polli, ecc.
    frattàglia s.f. [derivato del latino fractus, part. pass. di frangĕre «spezzare»]. – Di solito al plurale, frattaglie, le interiora degli animali macellati (soprattutto bovini, ovini e suini): fegato, cuore, milza, polmoni, ecc. e per estensione insieme di cose inutili, inservibili, malconce.
    rigaglia s.f. (regionale regaglia) sono le interiora e la cresta dei polli e altri uccelli commestibili e per estensione si usa anche come avanzo, rimasuglio, ritaglio (di stracci) o ancora ciò che rimane dal bozzolo dopo aver ricavato la seta pura.

    Ma la gastronomia, la cucina, sommate alla fantasia sono altra cosa e le nostre donne e uomini di fornello s’industriano a rendere buone queste parti anatomiche, ci mettono la loro anche i macellai i pollivendoli, e come vedremo anche i pescivendoli, tutti esperti che conoscono bene la materia.

    Cominciamo a conoscerle per nome queste parti anatomiche, per i bovini si distinguono le
    interiora bianche: trippa. animelle, budella, cervello;
    interiora rosse: fegato, polmone, cuore, rognone, milza, lingua;
    ma abbiamo anche il diaframma, la coda, il midollo, i filoni, le guance, la testina, le mammelle, i testicoli e altre parti intime. Per quanto riguarda la trippa occorre distinguerne le parti.
    Prestomaci:
    Rumine (detta anche Ciapa, Croce, Larga, Panzone) è la parte più grande dello "stomaco" è anche quella più spessa e grassa.
    Reticolo la parte più importante (detta anche Beretta, Cuffia, Nido d'ape) è la parte più spugnosa.
    Omaso (detto anche Centupezzi, Foiolo, Libretto, Millefogli, Centopelli) che ha una struttura lamellare con pieghe bianche.
    Stomaco:
    Abomaso (Caglio, Francese, Frezza, Lampredotto, Quaglietto, Ricciolotta) il vero e proprio stomaco del bovino la parte obbligatoria per fare il famoso Lampredotto. L'abomaso è formato da una parte magra, la gala, e da una parte più grassa, la spannocchia. La gala è caratterizzata da piccole creste (dette gale) di colore viola e dal sapore forte e deciso. La spannocchia invece ha un colore più tenue ed un gusto più morbido.
    La trippa è la protagonista delle osterie dal nord ( Milano detta busecca) al sud più o meno brodosa fino alla versione parmigiana completamente asciutta fino a giungere a Madrid con i callos.
    La milza entra nei crostini dei toscani o nel panino ca’ meusa dei mercati palermitani.
    Il rognone ha una copertura di grasso non indifferente che una volta sciolto si può usare per i fritti e per altri usi. Anche se i francesi cucinano il rognone alla coque direttamente nel suo grasso.
    Con le budelline del vitello da latte a Roma si fanno i rigatoni con la pajata, a Brescia una minestra in disuso come la minestra di coda di bue andrebbe recuperata, la stessa protagonista dell’oxtail soup degli inglesi e della coda alla vaccinara dei romani; con la mammella i valdostani preparano un salume il teteun. Mentre la lingua subisce un trattamento speciale: la salmistratura e diventa subito un piatto da intenditori tanto da finire sopra il Savarin di riso di Mirella Cantarelli.
    Ma alcuni piatti meritano di essere elevati alla massima potenza perché raccordano i due mondi delle frattaglie e delle rigaglie come il cibreo dei toscani e la finanziera dei piemontesi. Sul palcoscenico sono altre due grandi preparazioni italiane: il gran bollito misto piemontese, lombardo, veneto, emiliano e qui entra un altro protagonista: la testina; e poi il gran fritto piemontese dove molti dei suoi componenti fanno parte di questa famiglia di cui stiamo ragionando. E, infine, un ultimo lo troviamo a Napoli con ‘o pere e ‘o musso, il piede del maiale e il muso del vitello.

    Del maiale non si butta via niente e infatti con le budella si confezionano i salami, con le zampe gli zamponi, la cotenna entra, oltre che nel cotechino e nel musetto dei friulani, nelle minestre invernali in compagnia dei fagioli o nella trionfante cassoeula, poi la reticella di maiale, la codina, il collo, il muso, la tempia dei minestroni milanesi, le orecchie e molti cucinano pure gli ossi che fanno il loro ingresso nelle “maialate”. Da non dimenticare le greppole, i ciccioli e i chicarrones venezuelani: delle chips fatte con le cotenne del maiale. A Parigi, non lontano dal Moulin Rouge dove un tempo c’erano i mercati c’è un ristorante famoso “Pied de cochon” che ci ricorda la sua specialità: un piede di maiale cotto, impanato e fritto golosa colazione degli avventori (io ho impiegato tre giorni a digerirlo) e i piemontesi con il loro batsoà tentano di imitarli aggiustando il tiro. Con il sangue raccolto subito dopo l’uccisione da noi si faceva la torta di sangue, in altre zone il biroldo della Garfagnana, il buristo di Chiusidino nel Senese, il mazzafegato umbro, la susianella di Viterbo, la mustardela piemontese, il sanguinaccio lombardo e U' sangùnét pugliese e la morcilla spagnola.


    Il fegato, anzi i fegati, i fegatini e i fegatelli hanno un loro trattamento particolare e diverse interpretazioni dal semplice fegato alla veneziana, il fegatazzo abruzzese grigliato o affumicato, ai fegatelli toscani nella reticella di maiale detta anche omento, il fegato grasso d’oca o di anatra che sublima nel foie gras e nei paté, molto più economicamente i lombardi ne facevano una versione padana con i fegatini del pollame da non disprezzare

    Gli ovini hanno anch’essi nelle frattaglie i loro piatti tradizionali dalla trattalia e cordula dei sardi
    agli gnummareddi detti anche turcinelli o mugliatielli piatti che abitano dal Molise alla Puglia passando da Lucania, Campania e Calabria fino agli haggis un insaccato a base di interiora di pecora di origine scozzese.

    Infine, gli avicunicoli (uccelli e mammiferi) le cui rigaglie abbondano dalla testa di lepri e conigli, all’oca che, similmente al maiale non si butta via niente, neppure le penne (o il piumino) o il collo che spesso si fa ripieno o i magoncini (lo stomaco o ventricolo, ventriglio) di uccelli di passo (la masőla dei bresciani), della lepre ricordiamo che il sangue si versa nel civet per addensarlo, in alternativa il suo fegato tritato.
    Insomma, dalle lingue di fenicottero degli antichi romani, al quinto quarto odierno occorre passare dalla cucina, senza farsi infinocchiare da Chichibio del Decamerone e dalla gru con una gamba sola.

    E non è finita, per essere coerenti anche gli animali che vivono in acqua hanno il loro quinto/quarto, ricordiamo che per fare un fondo di pesce servono teste e lische di quel pesce, così come per bagnare un brodetto, una bouillabaisse, un risotto di mare, una vellutata di pesce. Anche il fegato di certi pesci come quello della rana pescatrice, del merluzzo ma anche le sue trippe e guance; il lattume di alcuni pesci o le loro uova per farne caviale, bottarga. Del tonno il fegato, il cuore, la carne delle lische detta buzzonaglia, il sanguinaccio detto ficazza, le guance di alcuni pesci come i merluzzi e altri. Anche qui gli antichi romani ci furono maestri con il loro garum di cui troviamo traccia nel Rinascimento, ripulito e ribattezzato cisame come scriveva Bartolomeo Scappi, il più grande cuoco dell’epoca “cisame de pesse quale tu voy” e, ancora oggi, sul lago di Garda ne troviamo traccia nel sisam di aole.
    Chiudiamo con una raccomandazione se gli animali sono trattati bene e mangiano bene anche le loro interiora saranno sane. E per chi avesse ancora delle remore ricordiamo con Leonardo Romanelli che: “È più immorale ammazzare un manzo per mangiare solo il filetto che esaltarne ogni singolo pezzo”
  • Marino Marini 1° gennaio 2023